“Sono potenza e respiro” scrive Lorenzo Pittaluga in Poeta, testo tratto dalla raccolta L’indulgenza e ora riproposto nell’antologia L’enigma di una voce (Edizioni Macabor, 2025, a cura di Marco Ercolani). Un verso, questo, che dice tutta la tensione e l’urgenza di creare, una tensione e un’urgenza che potrebbe sconfinare ed essere onnipotenza se non fosse per la presenza di quel “respiro” che rende umano e carico di fragilità il verso e chi lo ha scritto. Perché umano e fragile il verso e Lorenzo (perché il poeta, lo sappiamo, qui è Lorenzo) nonostante quel “potenza”? Perché nel momento in cui Lorenzo entra con il suo respiro in ciò che ha sentito l’urgenza di creare, e forse di dominare, succede che quanto ha creato rivela tutta l’umanissima e fragilissima sensibilità di Lorenzo, il suo essere voce che urla o sussurra, che trattiene la smania e la tragicità dell’esistenza oppure le lancia oltre se stesso ma in un lancio che lo contiene e che lo spinge verso la sua sorgente, non a caso un suo verso è proprio “io sono la foce e la sorgente: sono Lorenzo”.
Il respiro, dunque, ma soprattutto il modo e la materia di cui è fatto il respiro di Lorenzo (sussurro urlo smania tragicità trattenute o gettate oltre se stesso in un gettare che contiene il se stesso), ecco, questo specifico respiro attraversa ogni testo di Lorenzo. E non in modo inconsapevole. Lorenzo è presente sempre a se stesso (scrive “sono / l’unico poeta uscito dalla / placenta della terra desolata”), si respira ed è in questo respirarsi che possiamo recuperare quel “potenza” e anziché congiungere con una “e” potenza e respiro scrivere: la potenza del respiro.
E per e da questo respiro la parola trae un’identità che è perfetto combaciare (fisico? ontologico?) tra l’essenza della parola e l’io di Lorenzo. E leggere le sue parole, i suoi versi, è vedere Lorenzo, sentirne la sua lotta interiore, vederlo sgorgare dai suoi vuoti portandoli tutti con sé nello strano ed enigmatico bilanciamento delle sue visioni.
La potenza, quindi, del respiro. Da cui due identità che si sovrappongono (di Lorenzo e della parola). E ancora da qui il fluire di immagini e suoni autentici e lucidi, perché la potenza del respiro, del respiro di Lorenzo, è adesione e presa di coscienza, anche dell’irrazionale, ed è volontà di essere e dirsi anche scavalcandosi, anche cancellando le proprie orme. Uno scavalcare e un cancellare che è comunque un mettersi al centro perché la potenza del respiro di Lorenzo non si arresta di fronte al reale, a ciò che accade, ma continua la sua corsa, nuda o folle, allucinata o surreale che sia, e lo fa per millenni perché ripete continuamente ciò su cui si fonda, ossia: sono Lorenzo.
Per “essere” altri bisogna essere colti e soprattutto civili. L’apocrifo è più di una dedica. È atto di civiltà. Di assunzione del tutto che è l’altro sull’eterna incompiutezza di sé. Forse è un gesto quaresimale, un atto d’amore.
Non è né una dedica né un omaggio. L’apocrifo non prevede distanze ma una testa che si capovolge per affondare: un io nell’io. Ma un io che non crede di essere, che non vuole esistere. Un io che forse si è eclissato, una specie di suicidio esistenziale, e torna, come uno di quei demoni di cui parla l’antropologia culturale, la tradizione del negativo del Sud e del mondo filosofico-religioso-ebraico. Negativo come doppione oscurato. E il tuo io è il negativo di Osip e di tutti quelli da cui ricevi ferita.
Per Giacometti il disegno è un’altra respirazione. Per modellare o dipingere ci vogliono terra, tele e colori. Disegnare è possibile ovunque, in ogni momento, e Giacometti disegna ovunque e in ogni momento. Disegna per vedere e non può veder nulla senza disegnare, almeno mentalmente: ogni cosa vista si disegna in lui. L’occhio disegnante di Giacometti non conosce riposo o fatica. E davanti ai suoi disegni neppure il nostro occhio ha diritto al riposo.
Il testo è tratto da: Jacques Dupin, Alberto Giacometti. Testi per un approccio, Pagine d’arte. Sintomi, Zurigo 2020.
I testi sono tratti da: Marco Ercolani e Lucetta Frisa, Furto d’anima, Greco & Greco, Milano 2018.
22 ottobre 1938
Osja, amico mio lontano! Caro, non ho parole per questa lettera che forse non leggerai mai. La affido allo spazio. Forse tu tornerai e io non ci sarò più. Allora questo sarà l’ultimo ricordo di me.
Osjusa, come è stata felice la nostra vita. Le nostre liti, le nostre baruffe, i nostri giochi, il nostro amore. Adesso non guardo nemmeno più il cielo. A chi mostrare le nuvole che scopro?
Ricordi i nostri poveri giochi nelle nostre case randage, le nostre tende da nomadi? Ricordi com’è buono il pane che si trova per miracolo e che si mangia in due? E l’ultimo inverno a Voronez. La nostra felice povertà, le poesie. Ricordi, uscimmo dai bagni pubblici, comprammo uova o salame. Passò un carro col fieno. Faceva ancora freddo e io tremavo nella mia giacca (è il nostro destino, ora so che freddo soffri tu). E quel giorno mi è rimasto impresso: ho visto, chiaro fino al dolore, che quell’inverno, quei giorni, quelle sventure erano la migliore e ultima felicità che ci toccava in sorte,
Ogni mio pensiero è per te. Ogni lacrima ogni sorriso è per te. Benedico ogni giorno e ogni ora della nostra amara vita, mio amico, mio compagno, mia guida…
Ci scontravano come cagnolini ciechi, e stavamo bene. E la tua povera testa delirante, e tutta la follia nella quale abbiamo consumato i nostri giorni. Com’eravamo felici, e come l’abbiamo saputo sempre, che quella era la vera felicità.
La vita è lunga. Deve essere difficile e lungo morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi inseparabili dovesse avvenire tutto questo? Noi cagnolini, tu angelo, ce lo siamo meritato? E tutto va avanti. E non so nulla. Ma so tutto e ogni tuo giorno, ogni tua ora mi sono visibili e chiari come nel delirio. Mi sei comparso in sogno ogni notte e io continuavo a chiederti cos’era successo e tu non rispondevi.
L’ultimo sogno: in uno sporco buffet di uno sporco albergo compro del cibo. Sono con me degli uomini completamente estranei, e dopo aver pagato capisco che non so dove portare quel ben di Dio perché non so dove sei tu. Quando mi sono svegliato ho detto a Sura: «Osja è morto». Non so se sei vivo, ma da quel giorno ho perso ogni tua traccia. Non so dove sei. Se mi senti. Se sai quanto ti amo. Non ho fatto in tempo a dirti quanto ti amo. E non so dirlo nemmeno adesso. Dico solo: per te, per te… Sono io, Nadja. Tu dove sei?
***
(forse settembre 1938)
Nadezda,
questa lettera non ti arriverà, vita mia, ma la scrivo perché il fuoco è acceso, fuori dalla baracca 11, e posso muovere ancora le dita senza crampi, un mozzicone di matita va su questo foglietto, trovato fra un cranio e un’uniforme, ecco tre parole a dirti che ti amo, senza le voci rauche dei compagni, senza l’affanno del pane, come unica necessità solo scrivere il tuo nome, Nadezda, i miei versi tu li ricordi a memoria, li trascrivevi, dopo le mille conversazioni notturne, nel lugubre freddo delle nostre notti, meglio che tu non mi veda ora, le mie poesie sono assenti, sono i morti accanto alle fosse scavate, ti scrivo e bisbiglio – Chiare, fresche, dolci acque…-e canto Mozart, Non più andrai, farfallone amoroso…, canto e rido, penso a quando mi abbracciavi, va via il morso della fame, canto quel tono di violoncello, nella Commedia di Dante, quell’oscuro timbro, Nadezda, il conte Ugolino, breve pertugio dentro da la muda, ti scrivo e il fuoco non si è spento e il mondo è ancora la nostra foresta dormiente, non terra coatta, non campo duro, la vita è fiato e canto, canto e fiato, movimento, movimento, movimento, nessuno strappa le labbra che si muovono quando dicono Nadezda, Nadezda, Nadezda….
Sogno un cavaliere. Entra nella foresta, cavalca al piccolo trotto. Aspetta di combattere il drago e di inaugurare la battaglia. Ha sete e si ferma per abbeverare l’animale a una fonte non del tutto limpida. Del drago non c’è traccia, ma l’atmosfera resta minacciosa. Il cavaliere guarda davanti e dietro di sé, vede foresta ovunque, tutto è buio, di un buio minerale, come se l’aria fosse cristallo nero. Passa uno scudiero, a piedi, come vergognandosi di camminare. Il cavaliere gli chiede: «Dov’è il drago?». Lui fa una smorfia, cerca di scappare, ma il cavaliere scende da cavallo, lo ferma con la punta della lancia, gli ripete la domanda. E quello, con un riso beffardo: «Guàrdati in giro. Secondo te c’è bisogno di un drago, qui? Vedi se puoi aprirti un varco fra i rami». Il cavaliere si sente gelare. D’improvviso avverte le mani pesanti, le torce si confondono una dentro l’altra. Comincia a pensare che gli alberi della foresta potrebbero muoversi contro di lui, come nel Macbeth, e si sente in colpa per qualche delitto che non ricorda di avere commesso. Intanto, il cavallo è scomparso, la fonte disseccata, sui rami scuri è scesa l’inutile, densissima notte. L’uomo pensa che un giorno scriverà di tutto questo, se il caso vorrà che si salvi dalle tenebre, dagli indirizzi dei morti, dalle morte voci dei vivi nei gironi della Russia. Se il caso vorrà che io scampi, Nadezda, ti abbraccerò. Ma non s…
Alla fine del suo libro, Le mie memorie, Nadezda Mandel’stam trascrive la sua ultima lettera, scritta nell’ottobre del 1938 e mai arrivata al destinatario. Il 12 ottobre di quello stesso anno Osip è internato in un lager di transito presso Vladivostok, a Vtoraja Recka. Una lettera, vergata nella baracca numero 11, arriva a Mosca il 13 dicembre, indirizzata al fratello Aleksandr. Il poeta si spegne il 27 dello stesso mese in una delle baracche adibita a lazzaretto e sepolto in una fossa comune vicino al campo. Dall’inizio del 1939 corre notizia che Mandel’stam non sia più in vita e il 5 febbraio Nadezda Jakovlevna si vede restituire un vaglia postale inviato a Vladivostok con l’annotazione “A causa della morte del destinatario”.
Cito la prima poesia del libro come si racconta una prima esplosione, la prima scheggia che violenta spacca i tessuti della carne di un uomo: essere poeta è la conseguenza di questo strazio. A Marià il compito, il dovere, di scrutare là dove non sarebbe possibile guardare, e lo scrivente non distoglie lo sguardo, non torna indietro. Si fa rapire da quelli che lui chiama i “suoi scarabocchi”, da sequenze che raccontano gli orrori segreti, trovando la bellezza in lividi nodi di parole dove sarebbe arbitrario distinguere aggettivi, nomi, sintassi. Il lettore è obbligato a percorrere il libro come un roveto che occasionalmente si trasforma in roseto. “Questo grande poeta molla tutto in cambio della parola giusta” – scrivono i fratelli D’Innocenzo in prefazione. E Marià, nella dedica del libro, scrive: Per gli incompleti, per gli incompiuti… Non potrebbe essere che così. Questi lampi di versi, costellazioni di estasi e di terrori, non si iscrivono in nessuna categoria della poesia contemporanea: sono, come nel cinema di David Lynch, immagini che marchiano a sangue la memoria vivente.
“Uccidermi insieme a te
per emulare “morte eroica”
la magrezza delle panchine,
il decidere di non lasciarci
in un dove tutto sarà perfetto
il senso di continuare,
fantastica esplosione,
la presenza del vuoto”.
(M.E.)
*Enrico Marià, Nuziale, Prefazione dei fratelli D’Innocenzo, La nave di Teseo, Noventa Padovana 2025.
Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Furto d’anima, Greco & Greco, Milano 2018.
FURTO D’ANIMA è un libro composto da quaranta lettere, reali e immaginarie: un viaggio perturbante in un passato remoto e recente, dove artisti e scrittori, come uomini e come donne, si confrontano con le parti-ombra delle loro emozioni e dei loro pensieri, e si presentano al nostro sguardo non solo con ciò che hanno realmente detto, scritto e pensato, ma anche con quanto avrebbero potuto dire, scrivere, pensare. In queste lettere le verità più segrete ci sono rivelate da una nuova prospettiva che sonda conflitti e intrecci, fra arte e vita, nel segno di una “giustizia” postuma ma sempre verosimile, intimamente poetica, che ridia voce a vite sommerse, derubate della loro anima.
***
DUE LETTERE SEGRETE. Publio Cornelio Tacito, Giulia Agricola
Anno LXXXIX, 10 marzo
Per te
Se questi tempi sono «crudelmente ostili agli esempi di dignitoso valore», se «il narrare la propria stessa vita» è un «indizio di fiducia nel valore morale delle azioni più che un segno di presunzione», se è vero quello che scrivesti di mio padre Agricola, che visse incorrotto nei tempi del corrotto Domiziano, se è vero, Tacito, che occorre «riandare continuamente nella memoria alle azioni e alle parole di lui e racchiudere nell’animo le linee fondamentali della sua anima più che quelle del corpo», io mi chiedo, io che sono la tua discreta e fedele compagna, potrò meritarmi qualche parola nelle memorie non ufficiali che so stai scrivendo in segreto? Scriverai finalmente il mio nome, quello che non può figurare nei libri di storia, il mio nome che solo tu pronunci o sussurri nell’intimità e che fu pronunciato e sussurrato, prima di te, solo da mio padre e mia madre? Così saprei con ineludibile chiarezza, di essere esistita, di aver fatto parte – seppure secondaria – della tua vita. Ma alle volte – lo confesso in questa lettera che non ti invierò mai, certa che sarà scoperta solo dopo la mia morte, quando qualche serva curiosa rovisterà nelle mie cassepanche – mi sorprendo a interrogarmi se anche tu, tanto giusto e perfetto come mio padre, non celi un vizio, una perversione, un’infedeltà nascosta. Se così fosse, io ti ringrazio per avermela nascosta tanto sapientemente al fine di non incrinare la bella superficie del nostro rapporto, la serenità del nostro universo domestico.
Mantenere dei segreti, tra coniugi, è una regola morale al pari di quelle predicate da mio padre, e da te, in ben altri contesti. Da bambina, quando lo guardavo e constatavo ammirata l’alta considerazione di cui godeva pubblicamente, mi chiedevo se fosse veramente così come lo vedevano gli occhi dei familiari o se invece, proprio per questo, fossero incapaci di cogliere tutti gli aspetti della sua persona.
Questi pensieri li affido a un foglio sigillato che li può accogliere nel suo silenzio: è un modo, in fondo, per non seppellirli del tutto, in quanto partecipano della memoria, sebbene una memoria privata e quindi minore. Vedi, io assomiglio a questi pensieri impronunciabili, io, tua moglie, la parte nascosta di un uomo pubblico e celebre quale tu sei, che prendi parte direttamente alla Grande Storia e cerchi di discernere il vero dal falso per i posteri. Chi ti leggerà in futuro potrà conoscere la verità – le invisibili trame dell’ordito che solo tu sai portare alla luce. Quanta responsabilità ti assumi, quanto peso sulle tue spalle di uomo! Il peso della verità dei fatti, la verità che deve combattere per affermare se stessa contro il falso, la verità che ha le sembianze del nemico, che è simile a quei guerrieri che «portano scudi neri, si tingono il corpo e scelgono per le battaglie notti di tenebra e col solo orrore di questo esercito di neri fantasmi dell’Averno incutono terrore perché nessun nemico può reggere a questa straordinaria e infernale visione, dato che in ogni battaglia i primi a essere soggiogati sono gli occhi».
Oh sì, io amerei molto guardarti dritto negli occhi per indovinare se nelle tue confessioni segrete avrai parlato di noi, delle nostre notti in cui ci abbracciamo con voluttà e tenerezza, del nostro amore e delle nostre conversazioni, ma non vorrei mai avere quella capacità – una virtù divina che per fortuna non mi appartiene – di scoprire in fondo ai tuoi occhi tutta la verità – se fosse dolorosa per me e per te vergognosa. Che nessuno, ed io per la prima, possa mai conoscere certi aspetti del tuo carattere, della tua vita privata, se fosti o non fosti uomo, marito onesto e giusto.
Tua moglie Giulia
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Anno LXXXIX , 7 settembre
Per te
Tu non leggerai mai queste parole e ciò mi rassicura. Non leggerai ciò che io ti scrivo ora, perché lo terrò accuratamente segreto. Ti dico: in questi tempi terribili, sono felice di osservarti respirare. Di non udire fragore di battaglie e grida di uomini mentre ti sono accanto. Mi sei indispensabile per trovare un equilibrio, mentre scrivo le mie tragiche cronache. Ho bisogno di te. Sono stanco di essere costretto, da storico, a ricordare morti crudeli e deprecabili ingiustizie. Vorrei, in versi delicati, parlare di te, ma non mi è possibile, lo sai, sarebbe indecoroso per un uomo politico. Però tu continua a guardarmi. I tuoi occhi mi salvano dalle malvagità di Agrippina e dalle nefandezze di Nerone. Loro sanno che, dal fondo di tutti questi orrori, io conservo la capacità di descrivere e giudicare. Perdonami di trattenermi poco con te, di non scrivere di te.
Oggi, per esempio, ho da narrare, nei miei Annales, la morte di Ottavia, moglie di Nerone. Ho appena scritto: «La si stringe in catene e le si aprono le vene per tutte le membra; e siccome il sangue agghiacciato dal terrore fluiva troppo lentamente, viene sfinita da un bagno bollente. Si aggiunge poi una crudeltà più tremenda ancora perché, spiccato dal busto, il suo capo fu portato a Roma per farlo vedere a Poppea. E quante volte dovrò ancora ricordare che per simili infamie venivano decretate offerte nei templi?».
Ti tengo lontana da questi orrori, mi piace immaginarti, mentre li scrivo, quando cammini la sera nel peristilio per raggiungermi dopo la cena, e conversare un poco insieme prima di rimettermi al lavoro.
Perdonami se a volte sono scontroso e ti guardo di sfuggita, ossessionato dalle morti sventurate di uomini feroci e corrotti, di donne infelici o lascive di cui devo raccontare. È il dovere dello storico, nell’illusione che, in futuro, persone innocenti e inermi non subiscano la stessa fine. Uno storico deve ammonire e indicare la strada, anche se sarà utile a pochi. Perdona la mia stanchezza di certi giorni, quando giaccio accanto a te e non ti sfioro neppure, benché tu sia giovane e seducente. Mi è difficile non farmi troppe domande sul senso assurdo di tutto quanto accade per volontà degli uomini, domande a cui so di non poter rispondere e che il mio lavoro esclude per principio.
Ma sappi che non ti ho mai nascosto nulla di me. Cerco con ogni mezzo di essere degno delle mie parole.
Amandoti molto.
Tuo Publio Cornelio
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Giulia Agricola, figlia del generale romano Giulio Gneo Agricola e di Domizia Decidua, nasce attorno al 64 D.C.. Nel 78 sposa lo storico Tacito, autore degli Annales. È di Tacito il De vita et moribus Iulii Agricolae (Vita e costumi di Giulio Agricola), spesso indicata semplicemente come Agricola, un’opera scritta attorno al 98 d.C., che descrive la vita del suocero dell’autore, governatore della Britannia, ed esalta il coraggio e la libertà dei Britanni contro la corruzione e la tirannia dell’Impero romano.
Nella bandella di copertina del libro (Mirea Borgia, ISMI, Il Convivio editore 2025), Renzo Paris scrive: “Ho incontrato Mirea Borgia tra il pubblico di una affollata presentazione in un locale di periferia. Stringendomi la mano, mi ha trasmesso un’energia di intensità pari a quella della mia cara Amelia Rosselli. Ha aperto la sua borsa e mi ha regalato ISMI. Tornato a casa, l’ho divorato. Dentro c’è una donna con tanti io, l’uno contro l’altro armati, al punto che le poesie sono un noi. Prevale un erotismo di parola, poi appare l’etica. ISMI è un delizioso libretto di chi vuole capire, attraverso i versi, vita e morte, eros e thanatos”.
Esistono alcuni libri che non si possono riassumere neppure citando i loro versi. Sfuggono come animali vivi, infelici, appassionati. ISMI è uno di questi libri. Il lettore non è invitato a leggere ma a infuriarsi (“ti ritrovo in tutte le lingue/ e in tutte le lingue mi abbandono”), in un corpo a corpo erotico con una parola che sbuca da ogni punto, “mentre la voragine divora/ stride come ferocia e visibilio”. La lingua mistica e urticante, chiara e feroce, di Mirea Borgia (“resto, come restano le stelle/ cui si tace la fine già compiuta/ resto come fossi cosa viva/ che non ha più l’asprezza della vita/ resto come brusca luce senza luce/ resto) che ti persuade a vivere molti dèi, “musica di dio-din-don”, zuffa, tiritera, rabbia, spreco, “perché l’incompreso sia soltanto nostro”. Mirea Borgia vive uno stato di rivolta dell’io (“quando entri, espandi/ l’io dissolve e appare/ e il cielo si allontana da te”) e scardina le partiture previste: “metti caso il caos// biforme dismette i volti/ e redime i mondi”. Sa che, mentre la parola arriva, è soprassalto dell’eros che travolge la ragione e ricrea una forma nuova, sconvolta, dove ricondurre/ al punto iniziale, disossato, redivivo, il poeta.
ripenso spesso a Céchov, al dottor Andrej Efimic’ e ai suoi colloqui con il folle Ivan Dmìtric nel racconto La corsia n. 6. Il diaframma che con le sue formule piacevolmente stoiche Andrej ha frapposto fra sé e il mondo dei suoi malati verrà frantumato da una serie di eventi funesti e lui si troverà chiuso con loro, nelle loro corsie, a condividere quella vita invivibile che da sano teorizzava vivibile. Non potrà che morirne. Ricorderà, carissimo, come, nel Racconto di uno sconosciuto, ritorna di nuovo, con toni tragici, il tema del dialogo interrotto: non più fra una parte razionale e una folle, che si contendono lo spirito umano, ma fra il terrorista e il reazionario, fra l’attivista e il parassita. Tatski, il cospiratore, irrompe nella vita di Orlov, il lettore. La lettura passiva e l’azione violenta si scontrano, dominate entrambe dalla gratuità del caso e della sventura. Qui Cechov attua la sua pietas, costringendoci non a sentire un conflitto ma a vederlo nei personaggi stessi. Cechov nasconde ogni ideologia dentro storie in cui si muovono esseri umani: è l’unico scrittore immune da sentenze morali e in grado di manifestare, a voce sommessa, un pensiero vigile e non deformante sul dolore. La sofferenza di cui trattano i suoi racconti non ha nulla in comune con i nostri eccidi quotidiani, che transigono sulla natura del male e ne fanno un evento fortuito e crudele.
Ricordo un episodio personale. Convalescente da un grave attacco di angina, mi trovavo a Levanto, per riprendere le forze. Era maggio, un cielo stranamente grigio. Ero nevrastenica e debole, aggrappata solo a questo mio stile sublime e simmetrico, a questo mio modo di porgere la frase al mondo – un modo rigoroso e implacabile, più simile a un’antifona cantata in una cattedrale bizantina che a delle forme linguistiche imparate dal lessico del vocabolario. In quell’attimo mi sentii contemporaneamente Orlov ed Efimic’, il lettore legato alle sue carte consolatorie e l’essere incapace di tollerare una cognizione del dolore non definibile dalle sue categorie. Levanto, misteriosa e grigia, era lo specchio dei libri che avevo letto o che avrei potuto leggere. L’affanno da cui ero così frequentemente assalita mi dava paradossalmente forza. La scrittura non poteva nulla contro quella fitta al braccio sinistro, estesa fino alla radice dell’unghia. Non mi rifugiai in forme ideali. Non elessi a tempio sacro una poesia di John Donne o un magico racconto di Shéhérazade. Il tappeto non volava. Il flauto sibilava musiche incomprensibili. Non lessi né scrissi nulla, pur essendo Cristina Campo. Guardai l’ardesia, il granito, la chiesa. Guardai il mare infuriato con chiaroveggenza, come un medico vedrebbe l’anima del suo paziente, e sentiii che nulla può essere contenuto. Tutto è incontenibile e illimitato, come la litania della sabbia che scorre nel deserto.
Io, Cristina Campo, osservavo il mare di sbieco, con pazienza e costanza, come un monaco stilita. Tutto era nell’attenzione del mio sguardo, nel modo con cui giravo gli occhi o protendevo le spalle. Nel mio stile, non nella mia letteratura. Allora capii che tutti i libri erano fondamentalmente dei fuochi di cui ogni volta bisognava ravvivare la fiamma. Levanto mi si mostrò come quel racconto di Cechov in cui Kovrin sogna un monaco nero, la testa canuta scoperta, scalzo, le braccia incrociate sul petto. Il monaco gli spiega che esiste una verità eterna e un’immortalità luminosa. Kovrin muore e sul suo viso si irrigidisce un sorriso di beatitudine che, come negli affreschi di Giotto, crea istantaneamente la quarta dimensione. Levanto è il mio monaco nero, l’evento inspiegabile che mi può portare alla rovina come alla grazia ma che non potevo non vivere. Mi sento come se non avessi mai voluto, fino in fondo, capire la natura eterna e tumultuosa del mare, ma mi fossi trovata sempre a trattare con le fiabe, le leggende che parlano degli scogli dove naufragano le navi o si infrangono le onde – mai del mare stesso, di quel pulsare inquieto che nessuna loggia medioevale o nessun capitello romanico può contenere in iscrizioni significative.
Il mondo sfugge sempre alle iscrizioni, e per questo non possiamo smettere di scrivere sulla labilità delle nostre tracce con impietosa asciuttezza. Se cedessimo di un centimetro, non saremmo pari al compito che ci siamo dettati, simili a poveri fanciulli che descrivono uno stagno. Ma, volendo parlare del mare e non essendo ancora annegati, occorre una costante attenzione e un perpetuo smarrimento che, in misura alchemica, vanno mescolati e graduati, per non diventare né caos né ermeneusi.
A Levanto scoprii, caro Spina, un odio acre e pieno di disprezzo per la letteratura. Lei mi capisce benissimo, essendo partito per l’Africa: io non sopporto le volgari querelles di questi scrittori del limite così intolleranti dell’infinito da negarlo come merce avariata: ogni giorno ho a che fare con le loro arroganti certezze che sporcano la stanza in cui scrivo. Questa stanza, oggi, è Levanto, un piccolo scoglio su cui si è fermata l’ombra di una nuvola. Ma, se uno sciame d’insetti oscura la roccia e un vento allontana la nuvola, cosa accadrà di me, di noi? Riusciremo ancora a colmare dei fogli bianchi con il sogno di una scrittura che ci illumini, ci comprenda interi? Riusciremo, sapendo come si infrange il mare sotto la piazza, e come si riflette la luna sulle rocce. O non riusciremo.
A volte, avere il cuore malato è una fortuna, Alessandro.
a cura di M. Belpoliti e E. Grazioli, Marcos y Marcos, 1995, pp. 231-232.
Marco Belpoliti a Marco Ercolani
20/1/1995
Caro Marco,
come sai seguo da anni il tuo lavoro, lo seguo da lettore curioso, ma anche come chi, nell’ambito della scrittura, ha scelto una strada molto differente, a volte persino antitetica. Della tua produzione, ampia e sempre intensa, mi incuriosisce il registro, il tono che mantiene, sia che ti avventuri nella scrittura di racconti gotici, sia che si tratti di aforismi o brevi pensieri sull’arte e la vita, sia che ti dedichi al romanzo o alla stesura di vite immaginarie di artisti, poeti, scultori, filosofi e scrittori. In quei testi, all’intensità emotiva si accompagna sempre una facilità di scrittura che supera di slancio le barriere che incontra, oppure s’insinua come un liquido nei pertugi lasciati aperti dalla vita, dall’arte, e persino dai misteri che circondano le biografie dei personaggi di cui ti occupi. Tu sai che all’interno del tuo lavoro prediligo quelle parti dedicate al sogno, alla pittura, non dunque alle persone ma agli oggetti (quadri, soprattutto), i luoghi materici, e insieme immaginari, in cui ritroveremo per sempre la traccia dell’artista Forse sarà la mia ritrosia a spiegare l’opera con la vita (sebbene le due cose siano indissolubilmente legate), forse sarà quel tanto di romantico che ancora sento nella tua scrittura inventiva – il mito del “pensiero estremo” – ma la mia predilezione va dunque a un paio di opere che hai scritto fianco a fianco con Lucetta, L’Atelier e altri racconti, che mi appassiona a ogni rilettura e di cui mi piacerebbe raccogliere in questo numero di “Riga” qualcosa, e Détour, il libretto che hai pubblicato dieci anni fa in edizione limitata, da cui, se tu e Lucetta mi autorizzate, vorrei trarre alcune pagine sulla pittura.
Quello che mi affascina in questi due lavori è il continuo rimando tra parola e immagine, tra scrittura e pittura, tra arte e vita (ma sempre passando per l’oggetto, per l’opera); questo tipo di lavoro è certamente unico in Italia, qualcosa di prezioso per chi, come me, continua a coltivare un interesse parallelo per arte e letteratura, sebbene in forma diversa da te. Tu sai quanto m’interessi la contaminazione tra i linguaggi, l’incrocio, il chiasmo, lo scambio, la permutazione, tutte cose assai difficili da realizzare ma che, nella tua scrittura, sempre in bilico fra poesia e saggismo, mi pare di ritrovare (così, in modo assai diverso, ma sempre in chiave “visionaria”, trovo in un pittore-scrittore, Enzo Fabbrucci, la medesima tensione, risolta però in modo tanto differente: anche questo è Grazia!)
Ho appena letto le tue Vite dettate, il libro che hai pubblicato da Liber, che raccoglie una parte considerevole del tuo lavoro intorno alle vite di artista, e sono stato colpito, ancora una volta, dalla tua scrittura intensa e icastica, ma anche dal tono sacrale che echeggia in questi racconti apocrifi, tanto che vorrei che tu mi parlassi anche di questa parte del tuo lavoro che mi pare concentri al meglio gli aspetti che finora avevi disseminato in differenti generi e che, sul piano letterario, costituisce senza dubbio una prova molto originale nel panorama italiano. Ripensando a una cosa che credo mi abbia scritto tu stesso, qualche tempo fa, quando eravamo assidui nella corrispondenza epistolare, mi pare sempre più vera la definizione del tuo lavoro come “sogno della scrittura”; questa formula mette bene l’accento sull’aspetto onirico, pulsionale, ma anche poetico, che soggiace nel tuo scrivere e a cui, penso io, l’attività di psicoterapeuta che conduci nella vita non è per nulla estranea (anche di questo mi piacerebbe tu parlassi).
All’inizio, quando ho cominciato a leggerti, credevo che il tuo campo di intervento fosse la letteratura e scavavo per citazioni o rifacimenti quelli che invece erano aspetti onirici attinenti proprio all’attività dello scrivere letterario (naturalmente l’attività dello scrivere letterario non in assoluto, ma così come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi venti o trent’anni, così come ci è stata trasmessa dalla cultura in cui siamo cresciuti attraverso i libri che abbiamo letto, gli autori che abbiamo frequentato). In ogni frammento delle tue vite d’artista sento echeggiare un’unica, grande voce che apparenta ogni personaggio all’altro, così che ogni personaggio diventa solo un’incarnazione provvisoria e momentanea (sebbene assoluta) di un unico processo generativo che non ha né inizio né fine; così la stessa attività dello scrittore – tu, in quanto scrittore di queste vite che ti vengono “dettate” – non è che una testimonianza frammentaria, ma anche la necessità di disobbedire al destino di narrare qualcosa che fugge per andare a incarnarsi subito in un’altra forma. Forse è per questo che, nonostante il carattere di assolutezza che hanno le tue vite, nessuna è mai “la” vita, ma ce n’è sempre un’altra e un’altra ancora.
Scrivimi presto, parlami del tuo lavoro e mandami testi nuovi.
Marco
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Marco Ercolani a Marco Belpoliti
Genova, 11/2/1995
Caro Marco,
parlarti della mia scrittura è imbarazzante. Potrei dirti che, scrivendo, ho viaggiato molto e a ogni libro ho sempre allontanato un po’ di più la meta del viaggio, fino a pensare di non essere io il solo a a parlare. In fondo molti miei temi potrebbero essere riassunti in un appunto di Baudelaire: «Della vaporizzazione e della centralizzazione dell’io. Tutto sta qui». Giuseppe Zuccarino, commentando i miei Taccuini di Blok, ha scritto, in una lettera molto bella: “La scrittura può richiedere la parola “io” o una mano (guidata, certo, da una mente) che nuova la penna o batta sui tasti, ma non ha bisogno della stampella costituita da un parlante identificabile con anagrafica certezza, perché sa come procedere e dove dirigersi. Lo scrittore, se vogliamo esprimerci per assurdo, è una mano pensante, una mano che non obbedisce agli ordini, ma anzi corre via, come La main enchantée di Nerval».
La mia scrittura apocrifa è questa mano che scrive sognando corpi e pensieri a cui legarsi ancora, nel passato e nel presente. Hai mai immaginato, Marco, leggendo e amando certi libri, come sarebbe stato bello conoscere il diario intimo, la lettera mancante, la confessione segreta dell’autore che stai leggendo? Sognare altre sue pagine che si confondano a quelle vere, pagine che non esistono ma che potrebbero esistere perché tu le stai pensando, le stai trovando. Perché tu fantastichi l’altro libro, l’altra parte. Il libro della notte, direbbe Canetti.
La scrittura è metamorfosi: è qualcosa che fugge per andare subito a incarnarsi in un’altra forma. Ma come fa ad appagarsi di quella forma, ad essere solo poesia o saggio o romanzo? Come fa, la febbre di una pulsione, a pensarsi nei confini rassicuranti di un testo?
Scrivendo vite apocrife, mi sono messo al centro del paradosso. Ho deciso che scrivere è una febbre che inventa e rinnova le sue forme proprio perché vuole restare febbre, perché non vuole mai tornare alla temperatura normale. Il viaggio nella visione che avevo iniziato è diventato un viaggio più radicale, dove l’autore sparisce e al suo posto parlano mille autori possibili. Al povero, vecchio io, risponde la felice tragedia di una personalità multipla. Come suggerisce un amico “ogni scrittore ne sogna un altro”.
La scrittura apocrifa “perturba” il passato, non lascia tranquille le tradizioni, rimescola le carte. Forse io non accetto la morte definitiva dell’artista: lo voglio sempre vivo perché continui a parlarci e a nutrirci col suo messaggio. Che è anche il mio. Il gioco dà un po’ la vertigine, ma merita di essere giocato. Trovare il segreto di sé nell’anima di un altro significa scoprire, con Michaux, che «l’io è solo una posizione di equilibrio tra mille altre continuamente possibili e disponibili».
La scrittura apocrifa è la terra di nessuno dove si compie una strana esperienza: l’io dell’autore si distacca dal testo che va creando, non riconoscendolo come suo, e il “doppio” prescelto si trova attribuito a un testo che non è suo e che è falso. Questo simultaneo mascheramento rende la scrittura eco di un’eco, unica voce di un processo creativo ininterrotto e fluttuante, mise en abyme del riflettere e del narrare la parola dell’artista reinventando le parole degli artisti. Ma questo mascheramento è, in qualche modo, uno svelamento che non spiega mai l’enigma che svela, e ha delle singolari analogie con la natura della metafora; perché come la metafora è sempre in bilico tra perdita del senso e ritorno al senso perduto.
L’opera non è mai una biblioteca di testi con i volumi allineati nel loro ordine immobile e funereo, ma una fucina di parole che cancellano e ricreano parole un sistema complesso, instabile, brulicante, dove la scrittura è ancora sogno in attesa delle parole adeguate. Pseudolongino, nel suo Del sublime, spiegava come ogni artista debba essere particolarmente attento all’adeguatezza espressiva, al modo in cui esprimere, con giusta efficacia, la sua differenza, il suo “stile”.
Qualcosa di analogo accade allo psicoterapeuta quando, cercando di sciogliere certi nodi psichici, cercando di inventare metafore nuove per chi è bloccato nella propria solitaria e disperante metafora, si scontra con il dolore del mutamento e della metamorfosi, e deve insegnare al “matto”, che vive sempre in uno stato di sogno, come utilizzare il suo sogno. Come strapparlo alla notte del taciuto per farne materia viva, parola, diario di sé.
La scrittura apocrifa è stata ed è per me un diario intimo. Non a caso molti iei racconti sono taccuini o lettere o frammenti di taccuini e di lettere, e gli artisti che indago sono dei “disperati”, dei dimenticati o dei folli. Vite estreme o comunque vissute da una prospettiva estrema: quella del segreto, della parte oscura di noi. Ci sono delle ossessioni che il passato non ha consumato fino in fondo. Ci sono delle opere ancora da scrivere, delle visioni di cui fare e rifare esperienza, mantenendo la memoria del segreto, continuando il viaggio.
Come acutamente ricordi, è con Lucetta che ho cominciato questo viaggio. Lei scriveva poesie, io racconti fantastici. Poi ci siamo incontrati e abbiamo vagabondato intorno a opere, quadri, pensieri. Abbiamo sognato insieme. Ed è stato un vero sogno, di quelli che possono realizzarsi. Il nostro lavoro, nei racconti de L’Atelier, su quello che tu chiami “il sogno della pittura”, si è trasformato in un progetto più vasto e complesso. Lucetta mi è stata compagna nel pensare un libro di racconti apocrifi à deux, Nodi del cuore, che stiamo finendo di scrivere. In questi racconti, che riguardano sempre destini di artisti, immaginiamo dei carteggi fra coppie celebri, dove il monologo visionario è anche dialogo problematico sul rapporto uomo-donna, arte-vita.
Letteratura, ancora una volta, la nostra, che vuole mettersi all’incrocio di molte strade, de-ludendole tutte, reinventandone una diversa – mitica , atipica, inattuale: la scrittura ipotetica. Che, nell’universo sconfinato delle ipotesi, ha una sua costanza etica: restituire voce agli scomparsi, non rassegnarsi al silenzio di chi doveva o avrebbe dovuto palare, e quindi ritrovare quelle parole perdute, fraintese, dimenticate. In questo modo, mi sembra, può continuare il sogno della scrittura, che non è e non potrà mai essere soltanto l’opera letteraria ma sempre qualcosa oltre.
Ora concludo. E dopo tanto tempo mi accorgo, grazie a te, di non avere scritto una lettera apocrifa. La cosa mi sorprende e mi rallegra allo stesso tempo.