VIE DEL SONNO. Viviane Ciampi

I testi sono tratti da: Viviane Ciampi, Dincolo de linia somnuli (Oltre la linea del sonno), traduzione di Alexandru Macadàn, Editura Cosmopoli, stampato in Romania, 2023. Immagine di copertina di Lino Cannizzaro.

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Vie del sonno

E’ illudersi.

Il sonno non uccide le voci.

Traversano il bosco,

assemblano parole.

E si battono come gladiatori.

*

Noi

Non siamo più

l’elica del tempo

giriamo in contro-vita

in che modo dimmi

per quali ragioni

anneriamo la pagina

lecchiamo i segni

lingua strappata

da una parola d’ordine

lasciare un vuoto

qui quale dolore

si scrive nel margine

in prosa libera

qualcosa d’innato

speriamo che esista

sempre anticipandoci

sempre precedendoci

*

So

So che spesso

in compagnia dell’amore

colmiamo la gravità.

So che la nostra voce

sparirà nel suo doppio.

So che la tua bocca

è il rifugio preferito

dell’alfabeto silenzioso.

Allora parlami come alla nube smarrita

scrivimi una lettera immaginaria.

Lascia stare il sesso.

Siamo noi il fuoco.

*

Per coloro che dormono

Anime spente svegliatevi

accendete le vostre lampade

lasciate correre le fiamme tutte quante

cucite gli strappi della pelle terrestre

smontate i ponti della stupidità

riempite le pance vuote dei fratelli lontani

digerite l’altro dal nome impronunciabile

tornatevene all’uva e al trattore

all’olio dolce di colline

bevete le parole di quei libri

di cui conoscete la grandezza

per sentito dire.

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Questa breve raccolta di versi di Viviane Ciampi, Oltre la linea del sonno (uscita in italiano e in rumeno, Dincolo de linia somnului, Edizioni Cosmopoli, 2023) è la delicata cosmogonia di una cantica profana, che racchiude uomo e mondo nella materia turbata di un inno al mistero (“Strano che il mondo non sia qui per caso./ Non è la quiete il suo regno/ e se non è la quiete…/ Limiti/ confini/ trappole/ come materia di ogni inferno. / La gente attraversa le linee del sonno/ va oltre le sbarre”). Viviane offre la sua voce, da poeta sonnambulo, all’illusione del mutamento (“e quando avrai un piede/ nella terra promessa/sblocca le montagne“).

SCAVATRICE/BISTURI. Rinaldo Caddeo

Marco Ercolani, Sindrome del ritorno, Il Convivio editore, Tivoli 2025.

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Wakefield è il racconto di Nathaniel Hawthorne in cui l’omonimo protagonista si assenta per venti anni dalla moglie (come Ulisse da Penelope: 10 anni di guerra + 10 di viaggi) e un bel giorno, senza nessun preavviso, ritorna. Wakefield non fugge lontano, però, non viaggia, non affronta battaglie o incantesimi, non incontra ninfe, maghe, dee, ciclopi, né si dà alla bella vita. Trova alloggio nella via adiacente alla sua casa e da lì spia la moglie e gli effetti della propria assenza, in una condizione di esilio volontario.

Quando la sua morte è data per certa e la moglie è rassegnata alla vedovanza, una sera, rientra tranquillo dal suo ventennale esilio, come dopo l’assenza di un giorno, e ritorna a essere un marito affettuoso fino alla fine dei suoi giorni. Del resto, non ha pretendenti da sterminare.

Storia vera, tratta dai giornali, Hawthorne non spiega come, di che cosa viva il Nostro Eroe. La sua analisi si sofferma su alcune caratteristiche morali: Wakefield non è un eccentrico, è un uomo pigro, abitudinario. All’inizio vuole solo assentarsi per qualche giorno, massimo una settimana, per soddisfare l’innocua curiosità di vedere che cosa succede. È interessato, in particolare, a osservare la reazione di sua moglie. Poi, proprio per la sua pigrizia e abitudinarietà, rimanda. Settimana si aggiunge a settimana. Le settimane diventano mesi, anni. Gli anni si accumulano uguali.

Si traveste, assiste al suo funerale, vede se stesso morto come Mattia Pascal. A differenza di Mattia Pascal di Pirandello, però, non si allontana, non cerca di cambiar vita.Resta dov’è sempre stato, lì accanto. Osserva il cambiamento fisico di sua moglie e non si accorge del suo.

Ecco, Marco Ercolani, con questa Sindrome del ritorno, con questo ennesimo esperimento/operazione chirurgica di immedesimazione con un personaggio topico della letteratura, colma le lacune di Hawthorne, taglia e ricuce e scava, scava, scava.

Dove siamo? A casa di chi?

A un certo punto leggiamo: «per te non esiste il regno dei cieli ma la repubblica delle nuvole.» (p.45). Ma chi è questo te?

È senz’altro Wakefield ma è soprattutto Ercolani. Vicino a casa ma lontano, a pochi metri ma da una distanza incalcolabile, nel mondo e fuori del mondo, proprio come Wakefield che vuole stare vicino alle cose e alle persone a lui care ma a una distanza indelebile, infinitamente parallela, Ercolani studia il mondo, lo esplora con uno sguardo perturbato, senza rimorsi o rimpianti.

Niente aldilà, inferni, paradisi o purgatori, l’autore rimane con i piedi sulla terra, ma con la testa tra le nuvole, anzi, come dichiara in questo splendido aforisma, nella repubblica delle nuvole. Ercolani, la sua scavatrice/bisturi, cioè la sua scrittura, esplorano i confini, perlustrano le forme, la sostanza, le strade, le case, i prati, le foreste, le creature, i pensieri, le crepe, le parole, le cose di questa vasta, evanescente/potente repubblica.

Sogni, ricordi, evocazioni, ossessioni, visioni, epifanie, profumi, sapori, luoghi, paesaggi, città, linguaggi, scritture, Artaud e la psichiatria, Kafka e Praga, Genova e l’Osteria degli Archi, Seurat, Michaux, Van Gogh, Giacometti, Bacon, Musorgskij, Magritte, Marsiglia, Barcellona, Pisa e il suo Trionfo della Morte, Milano e la Basilica di Sant’Ambrogio, Marrakech, i suoi vicoli densi di odori, colori, suoni… subiscono e alimentano la consistenza, il dinamismo, l’imponenza, la solennità, il potere metamorfico, costruttivo e distruttivo di immagini e significati, delle nuvole, cioè della scrittura, come agire ed effetto di questo agire. Le immagini e le percezioni della memoria sono smembrate come quelle di un prezioso ma consumato arazzo e vengono in continuazione richiamate e ricostituite dallo scrivere.

È una volontà di estraneazione, ma di uno speciale straniamento ricostruttivo a imporsi, a dominare, che decolla da un altrove, vicino ma lontano, e si espande lungo assi riconoscibili ma imprevedibili. A pochi centimetri, a una distanza abissale. Ad altezza d’uomo, da una finestra che si affaccia sulla strada da un sotterraneo. Che cosa si può vedere? Le gambe dei passanti, le caviglie, i piedi, le scarpe. Il resto del corpo, impostato dalla realtà, è affidato all’immaginazione. Lo straniamento è un percorso che parte dalle forme del reale ma ha bisogno dell’immaginario di un sottostante (i ricordi personali, le letture, l’arte, la letteratura) per salire, per completarle, in un viaggio avventuroso di scoperta di se stessi, di perdite e di acquisti, di trasalimenti, di seduzioni.

«E alla fine, nella tua scrittura, sarà assente anche la fastidiosa gravità delle braccia, delle gambe. Sarai, in tutto e per tutto, chi continua a volare, anche se chi ti vede non ti vedrà mai staccarti da terra. Ma tu lo sai: ti sei già staccato. Tu ne hai scritto. Il tuo piccolo delirio è diventato seme per nuove parole, per altri racconti. Tu, ora, sei realmente Wakefield. Le tue case sono l’unica casa.» (p. 84).

Dopo 20 anni Wakefield/Ulisse ritorna a casa, l’unica vera casa, la dimora di Penelope, ed è come se fossero passati 20 minuti. Dopo 20 minuti (ma potrebbero essere anche 20 ore o 20 secondi o 20 giorni), anche Ercolani ritorna a casa ma, con questa Sindrome, curata e coltivata dalla sua penna erratica e puntuale, è come se fossero passati 20 anni.

ODISSEA PSICHICA. Mauro Macario

Caro Marco,

ho letto il tuo libro [Sindrome del ritorno]. Non intendo fingermi critico letterario, non lo sono. Stanotte, mi urge semplicemente dirti cose che sento, che mi sono salite su, e sappi che sono cosciente di poter sbagliare, dire banalità, o esprimere opinioni che tu hai già avuto da voci di certo più autorevoli di me. In questo tuo mondo impalpabile, attraversato da ombre, sarò veritiero e concreto. Io percepisco – magari erroneamente – che ogni tuo libro è solo un capitolo e nel successivo è il secondo e così via. I legami tra uno e l’altro, se pur mimetizzati, appartengono a un solo cordone ombelicale mai spezzato. Tutta le tua opera è una sola opera definibile come: L’ODISSEA PSICHICA. Tu sei Ulisse tra i folli, i malati, gli infelici, le ombre, ammaliato e forse ingannato da queste sirene. E, quando inventi sugli altri, è ancora il viaggio infinito, senza approdo, che continui dentro te stesso. Ti cerchi negli altri, li vai a trovare, a scovare e a scavare. La tua è una autoanalisi che, per strategia, scarichi su questi “altri”. Dunque la tua opera è verticale, un’apnea impossibile nella Fossa delle Marianne. E si manifesta, come dimostri, con un flusso inestinguibile che non puoi interrompere, pena l’annegamento.

SETACCIARE IL NOSTRO BUIO PRIVATO. Marco Sbrana

Appunti su Nottario, di Marco Ercolani

Tutto quello che è interessante accade nell’ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini (Viaggio al termine della notte, Louis-Ferdinand Céline)

La notte ci prende, viene la paura. Non abbiamo più madri da far accorrere, né padri da chiamare perché ci raggiungano al capezzale e ci salvino. È un macigno il cielo colore del petrolio, e non sembra valere la pena di vivere. Nessuna stella in cielo, la bruma che offusca.

Marco Ercolani apre il suo Nottario (I Quaderni del Bardo, 2023) – antologia di aforismi scritti tra il 2015 e il 2021 – con un esergo che riporta Handke e Starobinski. La vita scivolerebbe via, è Handke, se Marco Ercolani non scrivesse; scrivere, è Starobinski, trasforma l’impossibilità di vivere in possibilità di dire. Coerente sarebbe aggiungere ai due Pessoa: che scrive quello che sente perché così facendo abbassa la febbre di sentire.

È nella notte che fa anchilosati gli arti, il letto come polo di gravitazione dal quale non si riesce a emergere, che la prosa apodittica di Ercolani batte il suo primo colpo di martello in quella che è una dichiarazione di poetica:

L’arte: un nuovo universo la cui illusione persuada più del mondo reale.

Ché, dice Borges nell’Aleph, accettiamo di buon grado la realtà forse perché intuiamo che niente è reale.

Gli aforismi di Ercolani si collocano nelle zone grigie che separano l’autobiografia, la folgorazione epifanica e la critica letteraria. Fa seguito, infatti, a questa sentenza che racchiude sei anni di ricerca, un frammento su Nanni Cagnone e la compossibilità della poesia. Financo nella critica testuale più classica, Marco Ercolani, soggetto scrivente che scaturisce dalla langue poetica, parla di sé. È nella discussione sull’aut aut come oltrepassamento dell’infanzia (nell’infanzia non si rinuncia: è il regno della compossibilità) che emerge un Io travolto dalle incombenze di un adultità non desiderata, e che ricerca, all’interno del tessuto poetico, “la fortuna dell’insonnia”, perché, dice nell’aforisma successivo, “gli occhi sprofondati nel sonno, inafferrabili: vedono nuvole”. Chiari gli echi: Kafka e Céline. Non è necessario, per l’uno, uscire dalla stanza; per il francese (l’ouverture dell’opera magna – Viaggio al termine della notte), il viaggio “possono farlo tutti” perché “basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita”.

Il soggetto lirico di Ercolani, fin dalle prime battute di questa autoantologia, è nella lontananza costitutiva che ricerca la verità, trasmissibile attraverso l’arte. Nello sprofondare laddove si perde il senso dell’orientamento – tanto quanto il senso di appartenenza a una società che lascia ai margini chi non viene perdonato – Ercolani ritrova se stesso, e scolpisce la sua arte non per “erigere un monumento più duraturo del bronzo”, ma per quell’incontro – fosse anche il solo, fosse anche l’ultimo – con la verità. Dalla verità, una volta raggiunta – già ci dicono i greci –, non puoi più evadere. Una speciale vertigine che concede (anche e forse solo) l’esperienza estetica.

Benché nella vertigine di chi ha, nell’essere “paroliere”, raggiunto l’orgasmo, infila la prospettiva della morte. Scrivere della gioia è credersi immortali, dice Ercolani, che poi prega per fuggire dai lettini assicurati dai lacci. Partoriti nelle grida, venienti al mondo in un pianto che sembra presagire orrori futuri, il destino si chiude in un anello e si torna, con dolore, a gettare gli ultimi ansimi in un ospedale.

Il giusto congedo. Non essere carne d’ospedale, consegnata a mani estranee e aghi ostili. Dileguarsi prima.

Ma come sfuggire alla burocrazia della morte? al corpo che si ammala e, sciancato, strascica pantofole sul linoleum chiazzato di candeggina? Forse con l’atto di estrema pietà per noi stessi.

È dunque, quella di Ercolani, una ricerca di stampo esistenzialista, che richiama il dolore di Sartre – scrittore più che fenomenologo –, di Camus, di Gadamer, di Heidegger, di Jaspers, con la causticità e la disperazione e le ossa scheggiate di Cioran, che grida dalla colpa primordiale di essere sbucati, con quel gran dolore di cui sopra, da una voragine di carne, da un varco di terminazioni nervose, urlando.

E come Beckett, intervistato su ciò che rimane all’artista (di esprimere nessun potere, nessun desiderio, nessun mezzo, ma solo l’obbligo), scrive Ercolani, che l’unico modo per non arrancare morti nel mondo è reinventare il mondo e – alla stregua di Fellini – dire perché si deve dire benché nulla da dire si abbia.

Presso metà libro, a ripresa (in gergo cinematografico: payoff), della sentenza che apre il testo, una dichiarazione cristallina sulla forma dell’arte, che riporto:

I sintomi, nella malattia mentale, sono la scrittura deformata che il terapeuta deve decifrare e trasformare, interprete e testimone di quel caos, chiarificando il senso di una storia e la forma di un dolore. L’arte, come il più complesso dei sogni, è la costruzione lucida e logica di un altro mondo simile all’antimondo del delirio, composto dalle stesse parole e dalle stesse immagini ma orientato da una persona che non ne è vittima. Quando l’ossessione si libera dal sintomo diventa l’immagine o la parola che conserva la concentrazione di quel dolore, ma non ne è più sopraffatta.

Chi ha piantato il seme dell’infelicità? Quando abbiamo iniziato a zoppicare? Riprendendo Freud nel suo principio di morte, quella lotta intestina tra il bene e il male, vinta da quest’ultimo nel nostro coartarci a immetterci sempre e comunque e da sempre nell’orrore che più patiamo, Ercolani dice:

Siamo da sempre costruttori dei nostri incubi

ricalcando con efficacia quei lampi (quei dardi che uccidono i borghesi) emessi dai testi di Cioran.

Dietro ogni incubo c’è il nostro volto che ghigna e ci deride. E ci vuole morti. Ercolani ha abbastanza vita alle spalle, abbastanza testi alle spalle, per saperlo. Ma nulla può contro il suicidio che impiega una vita a farsi.

Nella vivisezione di se stesso, ritroviamo Beckett (Fallisci ancora, fallisci meglio): così Ercolani:

Resto fedele al mio mandato: che comporta l’abbandono, non inerme ma risoluto, al mio predestinato fallire.

L’ironia che talvolta esce con la testa a guardare fuori dal terreno dove si incava, e che subito viene abortita, un altro Beckett, quello di Finale di partita. Sembra dirci Ercolani quello che arrivano a teorizzare i due protagonisti della pièce: che la vita è come quella barzelletta che ci hanno raccontato talmente tante volte che adesso non ci fa più ridere.

Con un aforisma che ha l’andamento del poetare, mi avvio alla conclusione:

Letti vuoti, dove nessuno ha dormito. Lettere scritte da chi non conosceva il sonno. Mentre dormo, si dissolve la terra precedente. Sempre futuro, il nulla.

Nottario è un testo che richiederebbe esegesi più che recensioni. Ci limitiamo a dire che, nell’oscurità dei suoi aforismi ermetica – in cui riecheggia la forza del contemporaneo poeta italiano Enrico Marià (per l’affanno del corpo, per la frantumazione dell’anima) – apre fenditure nella notte che esso stesso genera. Leggere Nottario è esperienza che elude il buon senso comune e il senso cronologico e il rapporto causale. È la fantasmagoria sofferente che abbiamo davanti in certi romanzi (quasi tutti, invero) di Cartarescu. Laddove il senso non è afferrabile, significante cantato e significato come immagine trascendente ogni sforzo di comprensione emergono nella loro forza brutale non per farsi capire, non per illustrare (il che sarebbe pedagogico e quindi inaccettabile), ma per suggerire, per sussurrare all’orecchio segreti scordati l’indomani, mediante folgorazioni liriche che sospendono il lettore, lo inducono a setacciare il testo come un medico che analizzi il cervello di un paziente. Nella doppia funzione di medico e paziente, Marco Ercolani ha svelato i meandri scabrosi, le intuizioni di un momento, i pensieri partoriti su di un treno che oltrepassa il mare e le oscenità che serba la notte, non per capirle ma, generosamente, per regalarle; ne riesce un atto di tanta sincerità che ci si domanda se ancora Ercolani, domani, avrà la forza di dire il vero, dopo che tanto di vero ha detto. Gli è rimasto qualcosa da dire? Per comprendere Nottario si impiega una vita; per comprendersi in Nottario, Ercolani impiegherà una vita.

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Marco Sbrana (26/03/2003) è studente di scrittura creativa presso la scuola Mohole di Milano. Ha scritto un romanzo e una raccolta di poesie finora inediti. Collabora con le riviste “Zona di disagio” e “Evidenzialibri” per le quali si occupa di letteratura e cinema.

UN VOLTO-NUVOLA. Ettore Frani e Paola Feraiorni

Caro Marco, 

grazie ancora del tuo bel pensiero.  Il tuo libro (Sindrome del ritorno) ho avuto modo di leggerlo e rileggerlo subito. L’ho portato con me, anche un po’ in giro, perché con trasporto le tue parole e visioni mi hanno accompagnato in questi giorni, ed è per me un grande piacere aver potuto prestare l’immagine per la copertina. Hai avuto ragione nel selezionare proprio quel dipinto. Ora che ho letto, non posso che condividere appieno. Ricordo molto bene l’immagine “spettrale” e come bidimensionale/oscillante, di quei giorni.  il mondo interiore che costruiva tali visioni, sospese e rarefatte come proiezioni viste dietro schermi di vetro e polveri, le ho ritrovate in filigrana, mi pare, in molte delle tue bellissime e ispirate pagine (da quello stato ne uscii, solo dopo aver incontrato lo sguardo potente e luminoso di Paola)  

ci sono dei passi che ho voluto ripercorrere in quanto straordinari e poetici, incisivi e necessari.

ho ritrovato dentro il tuo testo, come una ferita comune, uno strappo nel reale, che come un’autentica opera d’arte ci ferisce e consola.

di questo ti ringrazio ancora.  Tante le sottolineature entusiaste che  accompagnano le tue parole, ma forse, quelle che più mi stanno a cuore, sono state sin da subito, quelle dedicate alle nuvole.

un volto-nuvola è davvero il nostro che rispecchia tutto ciò in cui siamo immersi.

ci farebbe tanto piacere potervi nuovamente rivedere di persona. Chissà… speriamo si possa un giorno concretizzare… qui le distanze, influiscono purtroppo in maniera decisiva, ma non demordiamo. 

per ora ti lasciamo,  con un caro e affettuoso abbraccio da estendere anche a Lucetta.

vi auguriamo tutto il bene.

In amicizia

ettore e paola

SOPRASSALTI. Per Viviane Ciampi

Alcuni libri di poesia “perturbano”, testimoniando che, all’inizio, prima ancora della scrittura, esiste un soprassalto psichico, una vibrazione incontrollata di anima e corpo, un sussulto di sensi e di mente che ammutolisce ma che cerca sempre una forma per “dire”, soltanto dopo, con le giuste risonanze, in versi gioiosi, tragici, dolenti, questo “ammutolire”. È la prima impronta che Notte barbara traccianel lettore-spettatore, coadiuvata e ampliata dai vellutati frammenti fotografici notturni di Lino Cannizzaro. «Ogni risposta resta un rimando che non si fa completamente certezza. In un mondo dove “l’ombra proiettata tra oggi e oggi” teme la spirale che ci imprigiona, la paura che ci paralizza, Notte barbara offre l’opportunità di scrutare l’ignoto, di scoprire i frammenti dell’io, del tu, del noi, che sfuggono e resistono alla luce del giorno”». (M.E.)

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I testi sono tratti da: Notte barbara, I libri dell’Arca, Edizioni Joker, Novi Ligure, maggio 2025.

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14

Talvolta dici

sono a un punto morto rivolta

a una luna lattiginosa.

Talvolta accendi la lampada

per vegliare gli dèi

anche se la pioggia la spegne.

Da tempo l’esitazione, la paura d’incendiare.

Da tempo un richiamo di campane.

Una quiete di crudeli fiori

ti rende semplice.

15

A levante s’innalza la collina.

Calda notte di settembre.

Tutta la grazia. Qui.

Cresci sicura perché hai imparato

a camminare sull’acqua.

Questione di esercizio

o d’intelligenza?

Il mistero ‒ rigido nei dettami ‒

è latte che trabocca.

Mentre dormi

non sai dire che cosa ti viene rubato.

Molte, le cose che non sai.

Mentre dormi, di sicuro,

le unghie crescono,

le pagine volano da qualche parte

dove di solito non vai.

16

Qualcosa sottopelle di non ben definito,

geometrie indecise

flebili vibrazioni della terra

rapide variazioni dello scenario

ma il terremoto non c’è.

O sei tu a vibrare

in quasi serene ore

in una vita ‒ sventrata ‒

di cui per pudore sarà meglio tacere.

30

Ore quattro.

E allora stai lì a pensarti?

E ad amarti a basso volume

con l’impressione che l’infinito

giri al rallentatore?

In fondo non ti piace quell’immagine.

Passiamo ad altro: chiudere gli occhi

e tutto vedere.

Oh il gioco del punto luminoso

del punto luminoso

del punto luminoso!

Portalo con te ‒ avanti ‒

fino a quel giorno.

Se li riapri appare

un mondo anfora di coccio,

vuota, dove incolli l’orecchio.

99

Nell’attimo prima del risveglio

ho sognato corpi senza cuspidi.

Un’umanità normale.

Non dico fraterna. Normale.

Infatti vedi, mi do dell’io.

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Viviane Ciampi, poetessa franco-italiana, bilingue, traduttrice, antologista, illustratrice, nata in Francia e residente a Genova dagli anni ‘70. Collabora regolarmente per le riviste francesi “Souffles” e “TESTE” e per l’italiana on line “Fili d’aquilone”. Volumi di versi: Domande Minime Risposte (Le Mani, Recco 2001); Pareti e famiglie (Liberodiscrivere, Genova 2006); Inciampi (Ed. Fonopoli, Roma 2008); Le ombre di Manosque (Ed.Internòs, Chiavari 2011); Scritto nelle saline (Ed. Genesi, 2013 Torino); D’aria e di terra (Ed. Fili d’Aquilone, Roma 2016); Du bleu autour / Azzurro attorno (Ed. Plaine Page, Barjols 2018) ; Poèmes assis, poèmes debout / Poesie sedute, poesie in piedi (Ed. Al Manar, Neuilly 2019); Selected poems, in Journal of Italian translation, New York (2022); Dincolo De Linia Somnului / Oltre la linea del sonno (Cosmopoli, Bacău 2023) trad. Alexandru Macadan; Morning Trains / I treni del mattino, selected poems (Ekstasis, Toronto 2023) trad. Antonio D’Alfonso; Le couteau de Madame (Ed. Plaine page, Barjols 2023). Di prossima pubblicazione: Nouvelles de la planète rouge / Notizie del pianeta rosso (Ed. De Surtis).

LE INDESCRIVIBILI COSE

Peter Bruegel il vecchio, Morte della Vergine

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Le tue dita lente

Odoro

quel punto unico

dove la pelle nuda è appena umida

con dita e labbra vorrei

trovare il centro dove l’estasi

sprofonda entrambi nel punto perfetto

dell’unico buio che la bocca illumina

con baci non interrotti.

Nulla esiste

se non l’aria

ferma nelle nostre uniche bocche

lente

lunghe

dolci

perfette.

Si accosta, lei, io inizio a tremare

come se il mondo fosse capovolto,

capovolto e vero,

nitido specchio di noi.

Che cosa profuma, nella lunga oscurità?

Fiori? Aranci? O le tue dita,

lente verso di me…

Nessuna correzione. Il tema è perfetto.

Luce di pietra ventosa, fessure nella roccia

che odorano di erbe nuove.

Le indescrivibili cose

non perdono sapore.

Oggi alzo la testa.

Domani mi tuffo.

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Sembra che tu stia invecchiando

Sembra che tu stia invecchiando

ma il cosmo ringiovanisce sempre

e tu devi imparare a stare

nelle forme che il cosmo ti insegna

a riconoscere: un battito un fruscio

l’ala che non si ferma e dice

il tempo del volo,

sabbia caduta fra dune e mente,

inesorabile ma dolce,

sabbia dove ancora premi il piede

non crollato, angolo di pittura

nel caos.

Sembra che tu

ma sembrare è parola sottile e falsa,

ostile.

Eppure non scriverei questi versi

se fossi rimasta giovane.

Tu sei, nel vaso attico,

la figura che continuo a sposare.

Sembra che tu

ma resistere al normale crollo del corpo

genera l’invisibile fuga, fuga di fiamma

che ancora, nel sorriso condiviso, brucia.

Sembra che tu

ma chi ti guarda conosce il regno delle ombre

e nulla sa di come un sorriso

sconvolga l’inerte pianeta

gettandolo nel guado delle cose

dove, rapita dall’acqua, sorridi.

L’acqua resta, fra le lunghe pietre del mondo,

e ciò che resta, come sai da millenni,

lo perdono i poeti.

Sembra che tu

ma sono anni impossibili

ed è possibile essere giovani contro il corpo

guardare con occhi limpidi

le indescrivibili cose:

chi resta, chi respira,

trova lo specchio dove fiorisce il bosco

il bosco dove arde lo specchio.

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Per ore dentro di te

Desiderata, sorridi.

Sei là, incantata, ferma.

Io dolcemente entro: è così dolce, così scuro.

Sei sopra di me, i seni giusti per le dita.

Toccarti, a occhi chiusi.

Ma non ti sfioro.

Camminando nella terra

è facile restare segreti:

ci si nasconde, felici,

nelle notti altrui.

Ma se cominci a baciarmi

perdo la mia bocca nella tua

ammutolisco

resto vivo

per ore dentro di te.

In che modo potrò salvarmi?

Parola dopo parola?

Non muovo le dita: affido la scrittura alla voce.

Scriverei, se potessi.

Ma le mani non rispondono. Parlo

e le dita tremano,

sperano in un magico gesto futuro.

Quale magia?

Essere brevi. Sapere.

Guardare il sole da uccello cieco.

Lo salverà il volo, con ali

che vedono le correnti.

Abbiamo desiderato, sì, senza luce

a coprirci le mani,

abbiamo sentito pelle, brividi, odori,

che salgono dal buio.

IO, CAVALLO. Albane Gellé

a cura di Lucetta Frisa

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Io, io cavallo, l’animale vivo, il corpo, il selvaggio. Io, nel cavallo come nella scrittura. Assieme all’indomabilità, l’equilibrio, l’ignoto, il mai compreso. L’attenzione estrema verso il mondo. Tra panico ed esultanza. Ciò che in me è cavallo. Preda fuga solitudine gregge. Ciò che in me resiste, si ostina e rischia. Ciò che in me se ne va per riunirsi dopo.

Se sono a cavallo sono di colpo nel cuore delle cose, senza impacci, intera. Sbarazzata degli ostacoli secondari, dei nodi sterili. Nel vivo del soggetto. Mi raggiungo, in un’estrema presenza a ciò che mi circonda. Nuda.

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Non solo nella testa io sono un cavallo. Lo sono sotto i piedi, anche nella terra e sul dorso, negli incavi e su, su fino alla nuca, alle orecchie, fino in fondo.

Subito il corpo è nel panico quando, dopo tutto, mi trovo di fronte l’uomo: lui non è abbastanza cavallo. Sarebbe una brusca tenerezza, nell’erba; il collo teso, come quello di un’oca bianca.

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Dentro, la parola cavallo. I movimenti, la muscolatura, nel galoppo, quel calore sotto di me. Quando tutto si compone è insieme riunito, per dare vita a quel cavallo a due teste che siamo noi.

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Ci sono dei leoni negli occhi del cavallo, nella solitudine del suo corpo di zebra. Non è l’uomo che lo rassicura realmente, anche solo per un attimo, perché cavallo è solitudine. E allo stesso tempo inseparabile da un altro nel prato. Quasi infantile, simile a un asino.

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Camminare fianco a fianco, sulla strada del ritorno, nelle orecchie il passo del cavallo che avanza, schiena calda e respiro tranquillo; camminare ciascuno con la propria stanchezza, la stessa stanchezza tra gli odori del cavallo mescolati alla pioggia. E tutta quell’acqua che cade non gli frena il passo. Lui le va incontro, indifferente. Finalmente libero, ritorna alla terra, calmo vi si rotola dentro, prima di scuotersi e rialzarsi in piedi. Come un cavallo.

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Sdraiato, il cavallo è ancora creatura viva, è ancora cavallo. Finché la testa si muove e il collo trascina il resto e le gambe volano in aria prima di rimettersi dritte. Intorno a lui vola tanta polvere.

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Il cavallo con la sella e l’altro nel prato si assomigliano. Le stesse orecchie, che fanno non si sa cosa. Nel sangue, qualcosa di insensato ci sfugge. Uno scarto improvviso, per un colore di plastica troppo vivace in un albero, c’è di che scartarsi dalla strada non rustica. Il cavallo è attento più all’esterno che a se stesso. Cosa succede quando si ferma con le quattro zampe piantate a terra, per sempre.

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Se nelle gambe qualcosa si spezza, non lo zoccolo ma un osso o un muscolo, il cavallo è finito: perché o sta in piedi o è morto. È fragile davanti al filo spinato. Eppure ha quattro zampe. Basta un rumore di treno, il cavallo è capace di rischiare tutto in un quarto d’ora e tanto peggio se, alla fine, provoca un incidente.

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Il cavallo in una gabbia accanto a un’altra gabbia, resiste e rifiuta. L’uomo è sopra di lui, insistente, curvo, piccolo, inquietante. Spaventato l’animale cede. Intorno c’è rumore, argento nelle parole, dei numeri a dire l’età, e questo è frustrante. Donne in bianco, con minuscoli binocoli, guardano i cavalli. Un fischio ed è partito, i piccoli uomini alla caccia, senza bisogno di fucili, la preda è sotto. Questo è ancora più frustrante per chi, in piena agitazione, resta ai blocchi di partenza.

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Non sono le mie, ma proseguo a quattro zampe, e seduta in sella accelero. Il cavallo ha capito ciò che non ho detto, io ho un corpo, lui galoppa e le mie mani non pesano, non pesano nulla, posate su un movimento, sopra un animale. Tra me e il cavallo, nessun lamento.

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Che furia nel partire di colpo quando il cavallo, davanti, galoppa. Aperti sulla lontananza, i suoi occhi si gettano in quali braccia, in quale grembo.

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Lui attende ai box ma cosa attende, le pillole, un cavaliere? Di sicuro è un’altra cosa, il petto piantato contro la porta, e occhi e orecchie nella stessa direzione. Lui, il cavallo, aspetta, aspetta che gli si apra.

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Solo in mezzo agli altri, ma che siano cavalli veri e lo lascino in pace. Anche se libero, vuole stare tranquillo, libero di girare in quadrato, seguire le piccole linee che ha tracciato per terra, i suoi reperti, il suo territorio: che venga dimenticato.

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Non grida, il cavallo, non è volgare, anche se addobbato in tre colori per i festeggiamenti umani, più modesto di quello tutto dorato che si tiene dritto in piedi per essere grande. Se un bambino è appollaiato sulle spalle di qualcuno, ai bordi della sfilata, non guarda direttamente né i colori né l’oro ma guarda solo il cavallo.

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Il suo corpo bene accompagnato, in ogni movimento prima dell’ostacolo, tanto che niente al suolo li fa scendere entrambi. Il cavallo e il suo cavaliere. Senza tirare, le mani si raccolgono in un ritorno-atterraggio. Gli occhi davanti conducono il corpo, mentre le due andature dolcemente ricominciano a comunicare.

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Un rumore qualunque, forse degli uomini o le loro macchine, la paura sorprende e si propaga da un corpo all’altro. Al ritorno rassicurarsi che il cavallo ci sia, l’inquietudine è animale.

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Con le orecchie tese, il cavallo spaventato di dover condividere il suo uomo, per gelosia morde il fianco dell’altro cavallo. Il semicerchio che fa al galoppo crea una barriera molto evidente per quell’escluso morsicato.

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Il collo in atteggiamento di offerta e la testa in una curva, che il resto prolunga, con le mani dell’altro corpo. Al cavallo, si applica l’equilibrio.

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Malgrado il cavallo stia dietro, ciò che bisogna fargli portare di peso, la tentazione di mandare tutto al diavolo, il traino e l’uomo a traino, rischiando il dramma.

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Il cavallo spia, attaccato, tutti i pericoli contro cui non potrà niente. Dritto in piedi come un albero.

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Spesso camminando a granchio, perché c’è troppo ignoto dietro la schiera degli alberi. Non resta che avanzare, superare l’ignoto, e tutto provvisoriamente sembra rientrare nell’ordine.

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Che importanza ha il catrame sulla strada del ritorno, per il cavallo bisogna rientrare a casa al più presto. In testa ha delle carte per la sua geografia privata, e i panorami non contano.

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Il corpo controvento e a testa bassa per fare fronte a tutte le sfumature del freddo. Raccolto, arrotondato, il cavallo sotto la pioggia conosce la terra e le sue tempeste. Si ferma e attende, attende che tutto questo si fermi.

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Non fidandosi dei ponti di legno il cavallo non cede, incaponito finché l’uomo non accetta di scendere. Allora tranquillamente, quasi a occhi chiusi, posando gli zoccoli uno dopo l’altro il cavallo cammina, facendosi accompagnare per un tratto pericoloso.

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Un pollo in pancia, la giumenta vigila come il guardiano del faro. Nessun problema a toccare, non si sa dove e in che modo, le carezze restano sotto sorveglianza ancora per qualche mese. Peccato per l’uomo che avrebbe voluto essere testimone di tutte le cose importanti. Dormirà indubbiamente, la notte che vedrà barcollare nell’erba quattro zampe di giraffa. Il giorno dopo, fiera e possessiva: la cavalla.

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Nitrendo in lungo e in largo perché l’altro se n’è andato via da solo, il cavallo non è tranquillo. Che importanza ha l’erba verde! Calpestando sulla terra lo stesso itinerario, finisce per tornare sempre nel luogo della separazione, col timore di aver smarrito quello che adesso non è più visibile.

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Il cavallo è testardo, si rifiuta di salire su quello che con le ruote lo condurrebbe a un altrove di cui ignora tutto; allora fa l’asino, indietreggia e resiste, biforca e fa arrabbiare gli uomini, costretti a cercare una corda con la forza insufficiente delle loro braccia.

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Cavallo! – bambino incollato al suo tiro per la stagione delle morsicature. Fino a quando, la tolleranza di un uomo?

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Le palpebre cascanti, in una testa che si abbassa, tutto il peso sulle tre gambe dove il cavallo riposa, quale sonno non l’ha colto nelle sue notti di veglia.

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(a Raoul e Margaux)

Questa sera un cavallo è morto agganciato durante uno spettacolo di grande effetto spettacolare, mentre un tipo al microfono si scusa dell’incidente. Lo spettacolo, di grande effetto, si prolunga leggermente. La musica continua, insieme agli attori e alle luci, inoltre bisognerebbe togliere il cadavere del cavallo, dice qualcuno, mentre è già sotto una grande coperta nera.

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Le parole nella bocca di un cavallo non sono necessarie per comunicare allo steccato che si è in attesa di un uomo, per un abbraccio o per del pane duro. Tutto è ritto in piedi fino alle orecchie, immobili per un attimo. Poi le gambe, come assalite dalle formiche, danzano. Non tocca il filo, il corpo intero portato davanti.

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Che importanza ha la primavera e tutte le sue dolcezze, anche a trent’anni il cavallo bianco non si lascia avvicinare né carezzare né acchiappare. Io, sulle mie due gambe davanti a lui come davanti a uno specchio a risalire il tempo, brontolando che è finito, che la tenerezza è disponibile ma nel suo corpo la paura, la paura non se ne va.

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L’inverno non ancora iniziato è già troppo lungo per una voglia d’erba verde, proprio quella del campo accanto. Allora tanto peggio per i pali, i fili che bruciano e tanto peggio se è notte, il petto in avanti, il cavallo insolente spinge la recinzione, seguito da altri, e poi si mette a galoppare davanti a un uomo che si è svegliato, innervosito, costretto a correre dietro a chi è per metà mulo per metà pecora.

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Irrigidito, in modo imprevisto, su una strada deserta troppo affollata di creature invisibili, il cavallo vi ha visto chissà quanti predatori, trasale non appena il vento…

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Una volta trattenuto, il cavallo bianco, rassicurato, mi fa tutte le concessioni. Passare sotto di lui, prendere le gambe, allungarsi sulla groppa, circondare il collo, al limite ricevere gli insopportabili segni di dolcezza. E poi…hop, andare senza sella e senza parole: partire.

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Partire

Afferma Viviane Ciampi: «”scrivere / scrivere come se non restasse più null’altro» recita in un verso di qualchehe anno fa la poeta francese Albane Gellé, la quale non ha mai smesso di restare fedele al suo modo d’intendere la poesia pur vivendo con essa una storia d’amore appassionata e conflittuale. con l’autrice – capace d’empatia tanto da prendere il punto di vista del suo cavallo – la parola galoppa senza ingombrarsi di peso eccessivo e in questa galoppata si mette al
l’ascolto di nuove percezioni, cerca nuovi nutrimenti. e torna in mente louise Glück nella poesia Horse: “cosa è l’animale / se non un passaggio fuori da questa vita?”».
La musica concreta di questi poemi-cavallo di Albane Gellé ci porta fuori dall’immobilità del mondo con impennate improvvise. Moi, cheval e Cheval, chevaux (qui tradotti in italiano, insieme, per la prima volta), sono due libri che testimoniano il passaggio fuori da questa e dentro questa vita. l’immagine del cavallo non ha nulla di pittoresco e di simbolico: è figura viva, reale, intima, selvaggia, che la poeta fa propria con ardore, dentro una prospettiva che offre alla
lingua una nuova, libera, felice andatura. scrive Albane: «Una volta trattenuto, il cavallo bianco, rassicurato, mi dà tutte le concessioni. Passare sotto, prenderele gambe, allungarsi sulla groppa, circondare il collo,al limite ricevere insopportabili segni di dolcezza. e poi…hop, andare senza sella e senza parole: partire».
Lucetta Frisa

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Albane Gellé

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I testi sono tratti da: Albane Gellé, Moi, cheval, I libri dell’Arca, Edizioni Joker, Novi Ligure 2025.

GLI INFERI DEGLI ALTRI. Alfonso Guida

Non eiste nessuno, ma esistono tutti all’interno dove non mi danno pace perché non ho pace. Le voci degli altri. Mi si affastellano addosso, l’intero mio male si è originato dagli inferi degli altri. Siamo anelli. Ci sporchiamo l’uno dell’altro per contatto, contagio. Le generazioni si toccano, si rasentano, confinando, intrecciandosi.

Si distrugge il fantasma, la rappresentazione fantasmatica dell’oggetto del desiderio, per mezzo dell’invidia.

Devi canalizzare le scariche, in privato. Devi fare in modo di non ricevere disturbo, tenerti lontano da ogni fonte di turbamento. Sii geloso della tua solitudine. Rendi il muro imperforabile. La vulnerabilità delle vittime. Proteggi la ferita.

Nessuno può nascondersi finché non decide o sceglie di scomparire. E’ un vero rompicapo non tornare neppure in forma di cadavere. Gli scomparsi per sempre, i non rivenuti, pervenuti. Sono i nati privati di una fine. La vera conferma che l’uomo ha le ali.

Ettore Frani

QUALE VIAGGIO? Lorenzo Orio

Sindrome del ritorno non appare come un libro compiuto: è un quaderno di appunti che l’io scrivente annota pedinando un personaggio letterario, Wakefield, creato da Nathanel Hawthorne. Wakefield lascia la sua casa dicendo alla moglie che tornerà dopo pochi giorni. In realtà non va da nessuna parte, affitta un appartamento nella strada vicina e vive lì per vent’anni senza dare più notizie di sé. In quel lungo periodo ogni giorno passa a vedere la sua casa e segue da lontano la vita della moglie. che lentamente si abitua alla vedovanza; una volta, addirittura, in una strada fitta di gente, lui e lei si trovano a tu per tu, per un momento i loro occhi si incrociano, ma la folla li separa. La donna trasale, lancia uno sguardo perplesso, si allontana. Trascorsi vent’anni, in una sera di temporale violento, mentre passa proprio davanti alla sua casa, Wakefield vede il fuoco del camino acceso, osserva attraverso le finestre il profilo della moglie e, come se fossero passati minuti e non anni, ritorna. Questo, in sintesi, è il viaggio ellittico dell’io, in Sindrome del ritorno. Un io incerto fra due case, fra due luoghi diversi, cerca un equilibrio impossibile, da interminabile psiconauta. Percorre con la sua inquietudine una città reale e immaginaria, che ora evoca Genova e ora Praga, ma nulla lo conforta e lo salva. Pur volendo fuggire dalla sua vita, si trova immerso dentro le cose, dentro le immagini che lo hanno sempre turbato. Non esce mai dal suo viaggio. E alla fine, come Ulisse, ritorna dalla sua inconsapevole Penelope, cercando, lui, creatura nata da un personaggio, cercando sempre una soluzione all’enigma: enigma vissuto dentro una scrittura che gli appartiene ma che non possiede, intrecciata secondo dopo secondo nelle pagine di un foglio senza fine, dove trovare/ritrovare la libertà trivellando ogni parola, respingendo l’assedio del nemico con l’architettura di una frase.