L’ARDENTE MIETITURA. Carmine Mangone

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Dobbiamo persuaderci che la natura della poesia è quella di penetrare nel mondo solo quando la rendiamo varco di tutti i possibili, e che essa si manifesta perentoriamente già quando vengano gettate le fondamenta di una riduzione critica e gentile dell’impossibile; per questo motivo, essa non si manifesta mai troppo presto e non accetta in alcun modo, alla sua tavola, un desiderio indegno.

La sete di oggi è un bisogno di cielo.

Dal tuo Nord al tuo Sud,

un viaggio di mani lungo il morbido declivio della notte.

*

Il divino. Questo fragore che mi mette in comunicazione con le tue mani, le tue impudenze, la tua sterminata area di fiducia.

L’accoglienza, il divino, il divenire di tutte le cose nel mio affidarmi. È la morte del soggetto in una notte trasparente. È il convincimento della poesia, il tenersi per mano nella sofferenza frantumata, nell’insolenza abbandonata. È la tua voce che scompagina le convinzioni di sempre, riportandole a casa per una determinazione mai occasionale. È il rito che investe il controllo, lo stupore che non ha più un sesso, l’innocenza senza ipoteche e senza costernazione dell’inviolabile che ci porta.

*

Sentire un brivido

lungo ogni pensiero e

accorgermi di non essere mai solo.

Pensare eroticamente le parole,

lo spazio,

i fiori del pesco,

la ciotola del cane.

Consegnarti a tutte le morbidezze,

a tutte le inquadrature,

e far sì che la poesia del vivente possa

riscattare l’origine senza mai porre un

termine alla grammatica accorata dei germogli.

*

L’amore è la maledizione del divenire, il passo falso di ogni sogno della materia.

Al di qua della caduta, dove si rintana il nostro corpo plurale? Arroganza della luce, il saperti in un eccesso di mancanza. Dimenticare la riserva, danzare con una voce che non si lasci uccidere dalla parola, e aderire a ogni invocazione che allontani il giorno dalle banali ritorsioni della fatica.

*

Accade che.

Non so. Di questa grande pretesa contro la

nostalgia d’un fuoco di bivacco,

cosa difendere.

Il relitto dell’oltremodo,

l’Alzheimer di mia madre,

la fragranza del pane caldo,

una fortuna randagia,

un puntiglio, e alcune fotografie tra le macerie d’una

casa bombardata.

*

Smarrire il mio nome o l’esigenza delle radici.

Ripudiare la compassione.

Consumare le parole fino a sentirmi vano.

Come potrei?

Mentre la notte ha un gusto dolce di restituzione,

il fuoco si accanisce,

il dubbio si arrende

e il libro della speranza si chiude per sempre.

*

Vorrei dirti molto di più. Dire te con la vampa, le lacrime; dire con te la fiducia, il risveglio, i fiumi carsici del dubbio. Affrontare il dire. Dissodare la Storia. Aver bisogno d’inscrivere la determinazione sulla soglia dell’intentato in modo da scongiurare il mai. Un passo al di qua e si resta nel pantano della speranza. Un passo al di là ed è l’accoglimento, la sentenza di vita, il lato toccante del possibile. Sentire il mio nome tra le tue mani. Concepire un tatto del pensiero. Aderire a tutte le paure che ti sanno e ti fanno entrare. Ecco. L’assolvimento, il pungolo, l’ardente mietitura.

*I testi sono tratti da: Carmine Mangone, Post adventum veris (Il Convivio editore/Occhionudo, 2024).

LA CHIAREZZA DEL TRAUMA. Silvia Rosa

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Scrive Eliza Macadan: «Non c’è redenzione possibile senza un linguaggio che sappia nominare l’inenarrabile: è questa la lezione più feroce e necessaria che la poesia di Silvia Rosa ci consegna. La parola poetica, nelle sue mani, diventa il luogo in cui la vergogna si trasforma in testimonianza, il silenzio in resistenza, l’ombra in una geografia di segni condivisibili. 𝙇’𝙤𝙢𝙗𝙧𝙖 𝙙𝙚𝙡𝙡’𝙞𝙣𝙛𝙖𝙣𝙯𝙞𝙖 (Pequod, 2025) è un libro che non concede tregua e che spinge chi legge in un territorio al limite tra lirica e documento, confessione e fiaba rovesciata. Ogni testo svela la frattura di un’infanzia violata, mettendo in scena non un “io” isolato, ma un “noi” collettivo… un libro politico nel senso più alto: perché dichiara che nessuna violenza può essere normalizzata, che il linguaggio poetico non deve sottrarsi ai compiti più dolorosi, e che la voce delle sopravvissute non può restare ai margini. È un atto di coraggio letterario e umano, che riconsegna alla poesia la sua funzione etica: non consolare, ma dire». Queste parole ci svelano il segreto del libro. Nessuna consolazione è possibile. Ma anche nessun silenzio che rimuova un dolore inenarrabile. Silvia Rosa racconta con chiarezza e non nasconde il trauma delle violenza subìte dalle donne nei loro destini: senza nessuna ellisse, questi versi, sono un racconto straziato, suddiviso in stazioni di dolore, intonato da una lingua ora gridata e ora bisbigliata, sempre nitida; un lucido e dilaniato discorso che, volendo dire la frana incontenibile di una pena segreta, ne diventa universale testimonianza. Silvia usa le parole come le immagini essenziali di una rovina che non smette mai di esistere nella memoria: ma che, narrata, impone il suo tema e costringe il lettore a essere, drammaticamente, dentro l’ombra di quell’infanzia sofferta, vivendo la chiarezza del trauma che non va cancellato e le strategie di liberazione da quel dolore comune, finalmente nudo, esposto agli occhi dell’altro: «Occhi neri a precipizio/ sempre paura sempre sola/ bambina piccina cuore friabile/ sbranato a morsi, cresce pane/ nel tuo petto per il pettirosso del libro delle fiabe, cresci obliqua/ per non farti male, ferita dal vento in pieno/ volto, volo d’ali spiumate, piccola scintilla/ di fuoco brucia la città dei balocchi/ il dio dei bambini rotti non ti ascolta:/ e tu corri a nasconderti dalla fame,/ nel luogo segreto dei bottoni–/ mettili in fila, inghiottili/ prima che ti chiudano la bocca».

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Testi

Si può giocare con il peso, ad esempio,

smettendo di mangiare, oppure mangiando

fino a sentirsi così piena, un otre in miniatura,

diventare una mappa d’ossicine in rilievo

o un pupazzo gonfiato da strati e strati

di carne rosa dietro cui far capolino. Si può

sperimentare ancora il gioco dell’acquaNo,

smettendo di lavarsi, i capelli unti e i piedi

nelle scarpe che odorano da vergognarsi,

vestirsi con maglioni larghi e non mettere

mai una gonna, essere di sé la versione più

imbruttita, ma pure fingersi donna con un

certo anticipo, cavalcare l’onda dell’oltraggio

e portare il rossetto a nove anni con uno sguardo

malizioso e conturbante. La bambina ha scelto

un’altra opzione: rendere il suo corpo il luogo

del dolore, l’attore consumato che mette in scena

mal di pancia memorabili, e ogni sintomo che

serva a raccontare quel che lei vorrebbe farsi:

scomparire, un organo dopo l’altro.

(Ma il corpo non è d’accordo e per questo

duole per davvero, fuori controllo).

*

Ma perché non hai detto nulla, bambina?

1.

Non avevo più la lingua, la bocca

era un calco svuotato, per quanto urlassi

a perdifiato la voce non saliva in superficie,

si fermava in gola, un garrito fioco, un suono

inerme e vago.

2.

Le parole che tenevo in tasca non bastavano,

erano pezze sfilacciate da buttare, buone solo

per soffiarsi il naso, forse per asciugarsi un po’

le lacrime. Erano contorte forme d’alfabeto,

che non avevano un legame con le cose contro

cui sbattevo gli occhi e mi facevo male.

3.

Sentivo una stretta all’altezza dello stomaco

e la vergogna che si arrampicava sulle gambe

fino all’incendio che sbocciava in faccia,

ero così sporca che lo sguardo di chiunque

non poteva che franarmi addosso, con un tuono

fragoroso di rifiuto.

4.

Credevo fosse vero che parlando con qualcuno

il cosmo si sarebbe capovolto e io sarei rimasta

morta al fondo, schiacciata da quel peso. Credevo

a quel che mi diceva l’Orco, che non mi avrebbero

creduta, che nessuno mi avrebbe più voluto bene,

che sarei seccata in un baleno dentro un vortice

d’incuria.

5.

Pensavo fosse colpa mia, che quel rituale

sconsacrato mi toccasse in sorte perché mio

padre vero m’aveva abbandonata e all’altro,

l’Orco, c’era da pagare pegno se volevo che

mi amasse un poco, indegna come ero di sicuro

Immagine di Wols

L’ARTE DEL RAGNO. Chiara Daino

Immagine di Louise Bourgeois

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«E con la sigaretta spengo – ogni pianeta»

«Una forma di resistenza ai meccanismi dell’utile, del produttivo, del consumo, in quanto inconsumabile, invendibile e eternamente fuori dal tempo e dalle mode»: la definizione di poesia di Luigi Metropoli è sostanziale a queste trentasette poesie di Chiara Daino, dal titolo L’arte del ragno. Ogni poesia è dedicata a un ragno reale, ma questo è solo un dettaglio compositivo, perché ogni poesia è una scheggia autobiografica del passato e del presente di Chiara, un bagliore derisorio di “biologia ritmata” che ha la forza dirompente di uno “schiaffo al gusto del pubblico”.

L’arte della sovversione non appartiene alla storia della letteratura. Ma la linea borderline dello sberleffo traversa questo divertissement, dove follia, invettiva, rancore, pulsione omicida, tenerezza, citazione, sarcasmo, si fondono in intrico di disperata freschezza, e rendono tutta la composizione un’opera buffa, dove il comico è un velo che appena separa dal tragico, e offre agio all’autrice per studiare con erudita competenza i suoi piccoli mostri ragneschi.

Qui Chiara ci parla di sé con versi incisivi:

«[Fumo a cancrena, eccetera.

Carne da Prosa! Blablabla]

Non è bisogno ma necessità…

Disimparo un cervello ingordo

e bacio per evirare il silenzio

Sono una bimba contrariata

che ninna il mare capovolto.

E nemmeno il diavolo

mi vuole al suo tavolo».

Daino, o erompe o non è. Se osservassimo che scrive con toni violenti, con ritmica rock, faremmo un’osservazione tautologica: lei sa bene che qualsiasi scrittore autentico usa il suo stile come uno stilum acuminato e la sua lama infilza con piacere poeti molli e diligenti, intelletti pensosi e prevedibili.

Il suo atroce rispetto della lingua le fa inventare librini come questo, “libri brevi” e non “librini”, dove il gioco linguistico, quando c’è, non è mai onanismo da postavanguardia (“la lingua è un gioco, la palla è un verso”) ma veleno letale in cui, come nelle più cruente tragedie shakespeariane, intingere la lama per l’ultimo duello. Ogni duello di Chiara, ogni combattimento poetico nell’universo dei ragni, nasce sempre da una sete di libertà e di vita incontenibili che il mondo (“l’immondo”) le nega: per questo, da sempre, Daino grida e si batte, corpo e carta, sempre scorticata e presente sulla scena del suo teatro da cui i sipari sono felicemente/infelicemente spariti, benianamente padrona dei suoi riflessi e delle sue maschere. Forse alcuni lettori di questa plaquette la liquideranno come un oggetto superfluo, che non riescono né a definire né a inquadrare. Ma l’inutilità è il sale/sole della bellezza. Chi vuole può uscire e non leggere. Chi resta e legge, eviti di incasellare L’arte del ragno in un genere letterario. Esiste un genere mai generico che è la specie umana, la sua inalienabile dignità, difesa dal poeta fino all’ultimo sangue, dal poeta contro l’uomo che la mortifica e offende. Sarà questa la “strategia del ragno” che le poesie di Chiara ci mostrano nel loro nodo indissolubile come beffarda provocazione?

«Sono poeta della rivolta

o manuale di psichiatria?».

La risposta è nella domanda. E nella forza sperimentale del poeta, in quello che lui vorrebbe. Come scrive Peter Handke: «Voglio leggere qualcosa che non esiste, però è influenzato da ciò che esiste: e precisamente in tutto e per tutto – soltanto allora avrei modo di sperimentare tutto ciò che esiste» (M.E.)

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Il ragno classico


Io ho mangiato Amore.

*

O De “Il ragno pavone”

Sei lo zenit puro della noia purissima;

sei il regio nadir d’una regolare boria!

Maschio o femmina: è solo etichetta.

Chiunque colora, contamina

purché sia colorita la leggenda!

Cambia modi, mosse, mezzi

cambia volti, verbi, vicoli…

cambia voci, messe, varianti

Ragni pavoni siete troppi e tanti!

Dirsi speciali è fumo da cuochi

e non bastano più luci

più effetti medianici

non bastano più: fritture copiate.

L’unto parla alle coronarie.

Scrivo sul serio e – non vi perdono

le parole: hanno peso, suono, accento.

E voi? Voi avete solo l’ombelico di piombo.

Io mi miglioro nel vomito

cerco un’ulcera vista mare

io sono l’equazione giusta

per la formula sbagliata…

Ritornerò a Genova

per sentirmi un po’ più sola.

*

Il valzer del moscerino

Prego, chiamami pure Amore

Angelo Tesoro Splendore. Cucciolo Meraviglia, Piccolo Fiore.

Caro, chiamami copiando qualche canzone: grazie, cantautore!

E son bella da morire donna cannone bella belinda senz’anima.

Bella stronza bocca di rosa e su di noi nemmeno una nuvola

perché se bruciasse la città sono il tuo trottolino dudùdadadà

ed eccomi contessa e tortellino; e topa toposa topona topino.

Stella stellina, polpetta e poi micina…

Tata o Patata? E quanta fantasia! Chérie? Darling? Querida?

Bimba bambola barracuda? Bestia, bestiaccia o biscottina?

Sono io la bambolina che fa no no no no no, io l’Amorillo
Mordicchio, Amoracchio, Sirocchia, Strega e Pastrocchio.

La bella mora dagli occhi di ghiaccio,

Divina, Piccola? Mostro e Ciospetto?

Principessa, Ciccipicci, Pulce, Pulcino?

Regina, Diabula, Belina? Pirulino? Sbirulino?

Zucchero, Cuoricino, Cocca, Cerbiatto. Crostatina?

Polpo, Dolcezza; Polipona? Disgrazia?
Fanciulla e Fatina, Fuffola e Farfallina!

Hey stellaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!
Teppa; Teppista, Trappola Sexy Fenomena.

«Anima mia, Vita mia, Gioia mia»

E di tuo – metti solo la noia.

*

Occhi indiretti

[Dimentico un bacio colposo e un caffè sospeso

per qualcuno che non conosco, e non giudico].

Posacenere come astronave da sbarco
Posacenere come corazzata dell’Ergo

Posacenere della saga umana – Cogito.

Sono duro d’occhio: vi fisso

e con la sigaretta spengo

– ogni pianeta.

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L’arte del ragno, Lulu, 2015.

Immagine di Alfred Kubin

Postilla

Oltre il vulcano

Chiara Daino è un punto di squilibrio nella poesia contemporanea. Dove dominano i refrains dei patetismi nostalgici e delle malinconie filosofiche, lei inveisce con la potenza sgradevole dello sberleffo etico, del sarcasmo linguistico. Non da’ requie al clima narcisistico-crepuscolare della modesta poesia dominante, comportandosi come un infelice, irritante, non empatico Gavroche. Ma Chiara è di più: è aculeo e disturbo, come quando Lenny Bruce lanciava invettive ai suoi spettatori con un beniano, indiscutibile vaffanculo; aculeo e disturbo che non si lascia ingabbiare in regole, Non dimentichiamo che ogni logica del discorso potrebbe includere anche la logica del suo opposto eversivo, per renderlo innocuo. Ma ci sono eversioni indiscusse, non rappacificate e non rappacificabili che, da Rabelais in poi, mettono in crisi, come schegge al vetriolo, la parola aurea del poeta laureato. Forse soltanto un pigro Rossini avrebbe potuto ridere con Chiara, senza comporre più un rigo di musica e senza offrirle un piatto di foisgras ma un bel whisky algerino con il quale precipitare, come Malcolm Lowry, “oltre il vulcano”. Non sempre deve accadere – il sempre è psicosi – ma quel tanto che basta, sì. Oltre il vulcano.

NEI MILLENNI CHE SALTANO DAL BUIO. Isabella Bignozzi

Una prosa come quella di Fermagenesi (Anterem, 2025) attrae il lettore per la lingua visionaria e floreale, accesa da una fiamma che si potrebbe definire “mistica” se il termine fosse adeguato: il libro, al di là di ogni classificazione extrapoetica, esprime un interiore dissolvimento che le parole restituiscono come eco, trasformando il tessuto verbale in una partitura estatica e ininterrotta dove nominare senso e suono è fuori luogo. Chi legge è assorbito in un pulviscolo di luci che modellano l’intima preghiera del poeta, il suo luogo più sacro (M.E.).

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Testi

E allora si arriva. Che nei rossi cuori battenti, dove il rosso aperto non si teme, c’è l’innato raccolto tutto nell’attesa, orbita sospesa di chiarore in una cripta caldissima che conosce. Vulnerabile come una fionda, questo battere implicito all’indentro, e tingere di rosso il rosso aperto, come un ardere bollente, nel separare i metalli, leghe pesanti del pesante male: come una gravità incendiaria il fiore di ogni tenebra arde forte nell’incavo del dolore, diamante del mondo, fino a che balziamo in alto, tutti bianchi e vuoti di criniera, nel galoppo della furia sovrana che vuole spargere pace.

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Rossi erano i cuori, battenti, un attimo prima del mondo. Era una polifonia lo spazio che dirigeva il sogno, una fusione di reale, scenario sinfonico che puntinava dettagli di semicroma, tutti i capi reclinati sulla partitura, come calici irradiati da un’aurora di animale disciolto. Muto nel bene, dorato di vita senza bordo, sempre su una riva di amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine.

le ottave aperte, le ariose corti volteggiavano

i sipari nel vento

Interminato soffio che sopravvivi nella durata, una staffetta di fiati che ancora comincia l’acqua, come insisti linfa e di una trasparenza fletti il silenzio, t’inoltri come un’onda nell’atlantico, mentre chiara la luna è nostra sibilla di notturne infiorescenze, raccolte in sfera di fermezza frontale, in questi blu ripetuti, profondissimi nei millenni che saltano dal buio.

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Isabella Bignozzi (Bologna 1971). I suoi libri di poesia: Le stelle sopra Rabbah (Transeuropa, 2021), Memorie fluviali (MC edizioni, 2022); I bimbi nuotano forte (Arcipelago Itaca, 2024). In prosa i romanzi Il segreto di Ippocrate (2020) e Cantami o diva degli eroi le ombre (2023) editi da Lepre Edizioni. Cura lo spazio web “L’astero rosso – luogo di attenzione e poesia”.

ANIMALI. Pietro Zino

Paul Klee, Animali che recitano una commedia

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Una mosca ha bisogno di una parete bianca perché la si possa vedere bene; poco importa se una volta lì è più vulnerabile. Lo spazio che la circonda appaga il suo essere, ne giustifica la presenza nel mondo.

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Fra tutti il gallo è l’animale più prossimo al mito: il suo canto giunge fino a noi dalle onde del Diluvio.

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Il miagolio del gatto che avverte del suo ritorno nel cuore della notte scuote lo spirito che veglia nel sonno, conducendolo fuori dalla camera da letto.

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Il vecchio gallo è ancora signore del pollaio, nonostante le penne sul dorso comincino a diradarsi e il canto si sia fatto più roco. Non vede rivali e perciò non si preoccupa, ma non si accorge che laggiù, accovacciato in un angolo, un pulcino ha imparato il suo verso e lo ripete per ore, ostinatamente.

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La presenza dell’anima zavorra il corpo, ne rallenta i movimenti. Un gatto fa piroette e acrobazie a piacimento.

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La figura bistabile dell’anatra-coniglio come le strisce sul manto della zebra: confondono i predatori.

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Il volo ad alta quota di un rapace ha un che di necessitato, come di imposto da una volontà superiore ed estrinseca a quella dell’animale. Le ‘ruote’ disegnano dei cerchi concentrici, tanto perfetti nella loro esecuzione quanto prevedibili, al punto che un occhio appena un po’ esperto è in grado di anticiparne le traiettorie. Tutt’altra cosa è, invece, il volo delle rondini, soprattutto quando si esibiscono in piccoli stormi: riempiono il cielo con un reticolo di linee così fitto da non potersi in alcun modo districare.

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Il gallo silvestre di Leopardi non ha nulla della selvaggia bellezza del gallo cedrone. Scherzo della natura, «sta in su la terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo» posizionandosi in un contesto ibrido, che ne fa qualcosa di familiare e mostruoso al tempo stesso, cui si somma il grottesco di una lingua straniante della quale fa uso «come un pappagallo». Se uno è il signore della montagna, l’altro è soltanto una invenzione letteraria, anche se pienamente riuscita.

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Platone nel Fedro dice che «uno», quando riesce a vedere la «bellezza terrena», pare che voglia cambiare il suo stato e trasformarsi in un «pennuto […] agognante di volare». Ma ciò risultandogli impossibile, finisce per sembrare soltanto uno che è «uscito di senno» agli occhi degli altri. All’opposto, gli uccelli inquadrano dal basso un punto che sta più in alto rispetto a loro e lo raggiungono in un attimo, senza alcuno sforzo.

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Gli abitanti dell’isola di Rottnest, nell’Australia occidentale, considerano il quokka «l’animale più felice del mondo». In realtà non si direbbe dal momento che, appena avverte una presenza ostile nelle vicinanze, questo marsupiale non più grande di un gatto abbandona il cucciolo che ha con sé, nella disperata speranza che il predatore concentri l’attenzione soltanto sul suo piccolo.

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Il tempo, nella sua dinamica eterna, decompone ogni cosa. Una piuma già si sfrangia sul terreno quando chi l’ha perduta è ancora sul ramo o vola libero in cielo; i mari e le montagne appaiono immutabili soltanto a uno sguardo umano. L’universo ci avvolge senza che ce ne accorgiamo.

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Il pesce che ha abboccato si dimentica di avere abboccato un attimo dopo che è stato slamato.

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Nelle passeggiate solitarie c’è sempre un cagnolino che sbuca da un cancello aperto e abbaia fino allo sfinimento.

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L’universo è tanto grande che, se uno schiaccia un insetto, non si accorge di nulla. Il problema è che molti fingono di averlo fatto inavvertitamente.

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L’afasia di cui è vittima Lord Chandos la si vede riflessa nell’insetto che, prigioniero in un innaffiatoio colmo d’acqua, «remiga da una sponda oscura all’altra», o «in un cane al sole».

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«Masticare, digerire tutto, questo è davvero da maiali! Dire sempre di sì: questo solo l’asino l’ha imparato», afferma Deleuze. Ogni ‘sì’ deve contenere in sé il ‘no’ della ribellione.

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Quando un moscerino entra nell’occhio si comincia a tormentare la palpebra sperando di rimuovere quanto prima l’intruso. Se i tentativi riescono vani, allora aumenta l’irritazione e non soltanto dell’occhio, al punto che si vorrebbe avere in tasca un coltellino.

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Nei pomeriggi assolati capitava di trovarsi lungo le sponde di un laghetto che serviva per l’irrigazione dei prati. Si setacciava con lo sguardo l’erba alta e, non appena si scorgeva un rospo, lo si uccideva. A volte, però, le anime di quegli anfibi sventurati comparivano nei nostri sogni per vendicarsi come Shiki, i vampiri che si nutrono del sangue degli abitanti di Sotoba.

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Kafka sembra non provare simpatia verso il «cagnolino di città», il «disgustoso cane da grembo», talmente debole e insignificante che «basta soffiargli sul muso» per allontanarlo.

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A prima vista la scena appare serena: un gruppo di ragazzini gioca a rincorrersi in uno spiazzo davanti alla chiesa di un villaggio della Cornovaglia. Tre di loro stanno chinati intorno a un cagnolino bianco e nero, lo accarezzano e gli danno piccole pacche sulla testa e sul dorso. L’animale non sembra sentirsi particolarmente a proprio agio; si acquatta come a volere evitare le attenzioni che costoro gli rivolgono con così tanta insistenza. Chi ha visto il seguito di Cane di paglia sa bene come andranno a finire le cose.

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Se accade di imbattersi in una serpe acciambellata al sole sul selciato davanti all’uscio di casa, il primo impulso è quello di scacciarla con una scopa. Se però ricompare il giorno dopo, torna in mente un antico detto popolare che dice che, quando si spara a un serpente con il fucile, questo si rompe.

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Una coppia di lepri e una famigliola di volpi condividono il medesimo spiazzo ai margini del bosco. Durante il giorno regna la calma, ma al calare dell’oscurità ha inizio l’eterna battaglia per la sopravvivenza.

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Il nostro orecchio può captare una grande quantità di suoni tra loro diversi, ma non possiede buone capacità di selezione. Il verso rauco e profondo di un’anatra selvatica udito in lontananza può essere confuso con il muggito di una mandria.

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Gli «esili levrieri» sono quelli che promettono senza mantenere, che mentono senza ritegno. Per costoro Nietzsche ha «pronte le sue pedate».

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I poemi epici hanno questo dalla loro: che ogni azione compiuta dagli umani è indirizzata dal volere divino, nel bene o nel male. Nel male per Mesenzio, che sta per affrontare Enea e confida al suo cavallo il fatale destino cui entrambi vanno incontro. Questi, allora, piange amaramente.

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I piccioni se ne stanno allineati l’uno accanto all’altro sul filo che collega due tralicci, come i bersagli del tiro a segno di un vecchio luna-park.

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Tutte le volte che si giocava a nascondino in cortile, uno di noi spariva e non ritornava nemmeno per la conta. Era là con la faccia incollata alla rete del pollaio e lo sguardo rapito dai goffi movimenti dei pennuti, “Fabio delle galline”.

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Qualora si trovi un insetto capovolto, si cerca di rimetterlo nella posizione naturale. Ma non ci si deve scordare del tempo in cui si proseguiva oltre, o peggio.

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Nulla di più irreale che quei documentari dove i tempi degli animali sono dettati da quelli delle riprese.

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– La lepre correva a zig-zag, per questo l’ho mancata! – Ripensando all’episodio, ora il vecchio cacciatore benedice la sua cattiva mira.

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Drôlerie. Come quelle figure bizzarre che appaiono talvolta nei manoscritti medievali: centauri in lotta con la propria coda, che termina in una testa di drago o di serpente. Tre pesci, raggruppati a formare un triangolo, con le teste in comune e un occhio al centro. Geometrie teratologiche, le si potrebbe chiamare.

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Ruminare, come in genere fanno gli animali da pascolo, non conviene, perché vuole dire stare sopra le cose per troppo tempo e i pensieri, anche quelli che all’inizio possono dare conforto, alla lunga diventano stucchevoli e molesti. Meglio trangugiare alla svelta come fanno i carnivori, e sperare che tutto esca il più rapidamente possibile.

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Liberarsi da «tutta la massa brulicante dei libri», come suggerisce Nietzsche. Abbandonare per un po’ di tempo qualsiasi genere di lettura e fare come quelle lucertole che, sotto una minaccia incombente, lasciano che la coda si distacchi dal resto corpo, sapendo che presto o tardi si riformerà.

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Nietzsche ci dice trattarsi di un «animale marino» quello che «si stende al sole rotondetto, felice». Viene da pensare ai castori o alle lontre, che costruiscono i loro rifugi con pazienza, ramo dopo ramo e li assemblano con il fango neanche avessero a disposizione calibri, mattoni e cemento.

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Grande è la sorpresa quando, lungo un sentiero di montagna, ci si imbatte all’improvviso nel teschio di un mammuth. La cavità dell’orbita oculare è perfettamente posizionata sul profilo sinistro della fronte; appena al di sotto si apre una larga fenditura che arriva fino alla mandibola (probabile segno di cruente battaglie) e da lì si estende, ancora perfettamente conservata, la zanna ricurva. È necessario qualche istante per accorgersi di aver scambiato la radice di un albero per un magnifico reperto fossile. Ma, del resto, una specie capisce sempre quando sta per estinguersi.

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Federico Tozzi scrive un libretto e lo intitola Bestie. È composto da sessantotto racconti brevi o brevissimi, in ciascuno dei quali, quasi sempre alla fine, compare l’immagine inattesa di un animale. La fauna è piuttosto variegata: oltre venti uccelli, una quindicina di insetti, un numero imprecisato tra cani, gatti, topi, capre, cavalli e rettili, un pesce rosso e un liocorno. Quest’ultimo è «color di carta bianca», uscito «da qualche favola vecchia» e in grado di poter essere addirittura ammaestrato.

HORROR PLENI. Pietro Zino

Immagine di Chiara Romanini

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I vuoti lasciati dalle rovine li si riempie di cadaveri.

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L’abisso che così tanto temiamo e che a volte ci opprime può avere maggior peso del suo orlo, che calpestiamo da sonnambuli per tutta la vita?

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L’oblio come una pesante zavorra scaricata dall’alto sull’umanità.

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Soltanto nelle storte di un alambicco i pieni e i vuoti sono sempre bilanciati.

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Sono vertebrati gli uomini, i gatti, gli alberi che con i loro rami spogli puntano verso il cielo. Sono invertebrati le nuvole che li sovrastano, le menzogne, la legna che sta per diventare cenere. Inorganica è invece la polvere, alleata del tempo.

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Si dice che gli egizi, prima di partecipare a un’orgia, ponessero nel luogo convenuto qualche macabro emblema che ricordasse la fugacità della vita.

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I quaderni in cui si trovano raccolte le citazioni dai libri che si sono letti diventano, con il passare del tempo, il magazzino delle provviste dal quale si potrà attingere durante i frequenti periodi di carestia.

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La penna raspa il foglio e le parole ne contaminano la superficie, fino al punto che neppure l’anima resta integra.

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Alle volte la solitudine consente di leggere un dialogo avvertendone distintamente le voci.

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Non si discute con chi ha fede: lo si lascia cuocere nel suo brodo.

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La calligrafia avvisa che il tempo dello scrivere male va archiviato.

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In ultima istanza, la scrittura si può ridurre al binomio nero/bianco.

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Il corpo che sta di qua, l’anima che se ne va di là. La volontà di ricongiungerli deve farsi in quattro.

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Il passato si stende come un velo sopra il presente, come quello che ricopre le poltrone nelle stanze dove da anni nessuno mette piede.

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Si è in attesa del sogno che riporti alla luce i luoghi bui del passato.

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Ci fu chi diceva che le fave intorbidano l’anima, ma erano tra i pochi alimenti che offrivano i luoghi montani durante l’inverno.

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Per riprodurre il visibile è sufficiente la perizia di un fotografo, ma un dipinto ha il potere di rendere visibile fin nel profondo il mondo che c’è dietro.

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Dei graffiti rupestri sappiamo a sufficienza, ma che si può dire di un’orma impressa sul terreno milioni di anni fa: horror vacui?

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Il vuoto creato dai Tagli di Fontana rompe il pieno della tela.

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È raro che gli oggetti di una casa si trovino liberi dalla schiavitù di essere utili.

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In giapponese gutai significa ‘concreto’, inteso come libertà di movimento nel caos della materia.

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La tendenza odierna è quella di evitare accuratamente i luoghi intricati e profondi del pensiero, le sue zone tropicali.

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Almeno davanti al baratro l’invidia dovrebbe fare un passo indietro.

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Se è vero che non si possono risolvere i problemi con un colpo di bacchetta magica, lo si potrebbe fare con un colpo di pistola.

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Andrebbe accolto il suggerimento di Nietzsche, che invita a mettere da parte il risentimento per la leggerezza della nuance, «la migliore conquista della vita».

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Se prima di andare in battaglia gli indiani si dipingevano il viso con i colori di guerra oggi, tuttalpiù, lo si spalma con la schiuma da barba.

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Si deve entrare in un libro come si entra nell’acqua, tuffandocisi.

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Così come anche il giardino più protetto e curato non può restare a lungo immune dall’aggressione delle piante infestanti, altrettanto accade per le società colpite dal processo di industrializzazione. McDonald’s e smartphone necessiterebbero di periodiche potature.

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Quando si sente dire da qualcuno: “non mi reggo in piedi”, ci si allarma pensando che possa essere qualcosa di più di una semplice stanchezza passeggera. I più apprensivi hanno addirittura davanti agli occhi la targhetta identificativa appesa al piede di un cadavere.

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La vecchietta pia e zelante aggiunge un’altra fascina di legna alla pira del supplizio: sancta simplicitas!

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Si rimane aggrappati al sesso e ai divertimenti come i naufraghi al relitto della nave.

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Circa l’uso delle citazioni vale il nietzschiano «si prende, non si domanda da chi ci sia dato».

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Il tempo dello scrittore è quello che gli serve per portare a termine il libro. Quello del lettore è tutto il tempo che viene dopo.

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Gettate in una discarica insieme ad altri rifiuti, due marionette guardano stupefatte il cielo stellato. “Non conosco la via giusta; dice la più giovane. Non fa niente; nemmeno io”, risponde l’altra, che per lungo tempo aveva fatto divertire gli spettatori.

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La nuvola spinta dal vento sottrae per un attimo al sole la dittatura del cielo.

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L’occhio dovrebbe contenere inchiostro per vedere con più chiarezza la scrittura.

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Da quando gli ha sottratto l’uomo il Paradiso terrestre ha preso le distanze da Dio.

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Solitudine e fascinazione – qualche volta la fascinazione della solitudine – permeano la scrittura.

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«Non siamo alla fine, bensì all’inizio di un’era di civiltà». Con la fermezza e il coraggio che gli appartenevano, quell’inizio Scheerbart non ha voluto attenderlo; da lì in poi nessuno ha osato più sperarvi.

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Il planetario è una rivisitazione al ribasso del cosmo.

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Il rabbino che doveva trascrivere la Torah sapeva bene a quale rischio lo esponeva quel compito: se avesse omesso o aggiunto una sola lettera, avrebbe distrutto il mondo intero.

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Nella cabala antica (“Chi?”) allude al Dio nascosto e imperscrutabile. Nel buddismo Zen Mu indica il “Niente”, il “Nulla”.

“VERSO LA MENTE” : NADIA CAMPANA

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Ho fatto un grande sogno ma non ne ricordo

niente babbo amiamo le teste bruciate

dell’amore ma non la misericordia e

i chiodi come coltelli di gelosia

tra poco cadrà la strada su di te

spergiuro sulla mia infanzia scrivo

lettere, se non mi dai da mangiare

i capelli mi diventeranno come crine

e come un fucile. Notte di lupi

sprangare l’angelo del vento

qui è la piega

dove non sarà nuovo morire

Scrive Gilles Deleuze: «Il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che coincide con l’uomo. La letteratura appare allora come un’impresa di salute: non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili. Da quel che ha visto e sentito, lo scrittore torna con gli occhi rossi, i timpani perforati».

Quelli che si attardano sul fondo dell’abisso; che tornano, sventurati, gli occhi iniettati di sangue, senza ancora la forza di parlare: che la loro vertigine si decanti nel cercare le parole. Ascoltiamoli, dopo quel lungo intervallo. Non sembrano forti ma lo sono. Messaggeri, certo. Cos’è, il mondo altro, senza messaggeri che ne riferiscano? Occorre rischiare per essere uomini che vedono e non si sottraggono. I colloqui fra folle e sano restano sempre una serra artificiale che a stento contiene l’inferno. Anzi, l’inferno non entra mai veramente in quelle parole, che costruiscono un ordine già voluto, una reciproca complicità. L’inferno è altrove, dove domina un silenzio privato del senso.

Verso la mente di Nadia Campana, nata a Cesena nel 1954 e morta a Milano nel 1985 (cura di Milo De Angelis, Emi Rabbuffetti e Giovanni Tesio, Raffaelli 2014) è una raccolta poetica imperfetta e inafferrabile che vuole combattere quel silenzio insensato; monologo lirico di un io femminile inquieto, ombroso, visionario, che segue un ritmo sincopato, fluido e affannato insieme, dove lampeggiano paesaggi ansiosi («punta tenera di un dardo / ora io esisto ancora / sfinita dal correre è vero, / mi porti sulle ossa / finché la notte non mi contrari più / madre ogni minima cosa») e immagini di catastrofe dove i confini del corpo e del mondo sono labili («Non è una caduta priva di luce / non è dei capelli tirati / da mani che vogliono ordine: / dal bordo della finestra spio / la tua maschera e il gas / che ora sentiamo per gioco / siamo in alto in cima alle mie trecce / laggiù c’è il mare laggiù»). Nadia Campana, sulla scia di Silvia Plath, si toglie la vita per inseguire una bellezza straziata e impossibile, con improvvisi slanci verso la quiete («odore di / erbe / io vengo a farmi in te vuoto fedele / a un tratto nel regno / le cose sono brezza / leggere senza pensiero»): è una poesia, la sua, scritta dall’interno di sé, con accessi e convulsioni, una poesia che va “verso la mente” come verso un approdo sicuro che ripari dall’angoscia da cui il corpo è percorso. Nadia vuole essere interrotta, slacciata, “de-mente”. Cerca una via di fuga. Nadia suggerisce l’idea di una poesia che va in “febbre d’amore”, e da contratta e inquieta diventa dolce e quasi consolante, oscilla dal desiderio di calma all’allegria irrequieta: una poesia scorticata, che matura dentro se stessa, che arriva fino alle soglie dell’autocancellazione («come ti chiamavo/ a cancellarmi»), restando sempre nascosta, come un io segreto che monologa con un altro io segreto. Ma è poesia spesso amorosa, anche se di un amore dove l’io e il tu fanno fatica a distinguersi; amorosa ma introflessa, non mistica ma sigillata dentro il proprio sé, vissuta all’ombra di poeti complessi come Porta e De Angelis, di cui forse Nadia ha amato e vissuto la parte più visionaria e urticante. Una poesia, la sua, ustionata dalla sua stessa innocenza. Una poesia senza riparo, astratta e dolcissima, che non riesce a fare da schermo a un io esposto, vulnerabile, non drammatico ma angosciosamente lirico.

Il potere della metafora, più che nelle articolazioni della figura retorica, vive nella funzione ricreatrice della realtà, nello sviluppo degli echi e delle analogie, delle ‘vie svianti’ della parola. L’uomo vive volendo essere altro da sé e superando i propri confini, proprio per comprendere se stesso. In «Circonferenza di Marina Cvetaeva», testo di una conferenza del 1982, ora raccolto dagli stessi curatori di questo libro in Visione Postuma (Raffaelli, 2014), Nadia precisa il senso della sua poesia come pratica ascetica e amorosa allo stesso tempo. Ricorda che in Cvetaeva «non esiste […] frattura tra amore e poesia perché nascono dallo stesso enigma» e che solo grazie ad un’autoesclusione dalla vita comune si può scrivere «dall’amore e nell’amore abbracciando senza mediazioni l’altro dall’inizio alla fine», svincolando la parola poetica dai lacci del pensiero e dal credo politico. L’unica maniera in cui una cosa può anche esserne un’altra è “l’essere-come” o il “quasi-essere” della metafora poetica. «La vetta/ si dissolve in turbinii,/ con più furia ancora/ che voi» (Paul Celan). Il poeta sa che il mondo non è più lo stesso dopo che lui ha pronunciato le sue parole. La scrittura, ancora una volta, ripulisce lo sguardo dallee incrostazioni di vecchi sensi. Gli artisti veri devìano e deformano, aiutano a ri-vedere e a ri-sentire, indicano soglie nuove dentro percorsi antichi. «Si sta/ come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie» (Giuseppe Ungaretti). Si può, dopo questa poesia, rileggere Mimnermo e gli altri poeti della classicità, senza avere nelle orecchie la voce chiara e perentoria del poeta di Allegria? La voce ulteriore di Nadia Campana obbliga a rileggere i poeti che l’hanno preceduta, apre un diverso ordine alle cose, produce una nuova metafora che si rifiuta di evocare i codici previsti ma vuole rinominarli – enunciarsi con coraggio, irripetibile:

come mondi sognati da miriadi di sogni

sradicati al centro quasi affondando

diciamo.

Solo così, in questa luce di apocalisse, Nadia può, “quasi affondando”, dire di sé («e coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da coloro che non potevano sentire la musica», Friedrich Nietzsche).

*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Fuochi complici, Il Leggio Editore, Mestrino 2019.

Nadia Campana nasce a Cesena l’11 ottobre 1954. Si laurea a Bologna su Antonio Porta, il relatore è Luciano Anceschi. A Milano frequenta la vita letteraria e pubblica alcune poesie. Circa cinquanta poesie verranno pubblicate dopo la sua morte, nel 1990, con il titolo Verso la mente. Nadia si suicida, a trent’anni, il 6 giugno 1985, gettandosi dal ponte di via Corelli a Milano.

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Testi

Che mi lasci guidare prematura

farmi portare impadronita

non reggono al confronto delle braccia

valigie piene di esempi

folate indicano il cappello soltanto

mutandosi in fili spazzati

e semi non custoditi in direzione

barca abbandonata lungo il fiume

guardo il ponte, un vero confine,

strappo le tasche e dal biglietto la sua fede:

si scioglie sulla guancia

la gioia del declassato.

Avendo già avuto a che fare

con la resa, scelgo

le processioni del riposo.

Io e la luna sorgente

in un punto remoto assonnate come cani

compressa da fatiche piagata

spostando di qualche strada i passi, spiccano

una dopo l’altra tenaci uguaglianze di tempo.

*

come un folle mago mi estraggo

dal petto la sete

bianco, giallo, stracci di ogni colore

spira il vento che assomiglia a pietra

sporge la gamba

accenna un passo di danza

s’incrina il bacino

si perde l’equilibrio

sul volto scende la saliva

*

perché cresca la luce

perché cresca il buio

perché al chiuso – questo –

crollano umani

rivestono di pori le gocce

d’oscuro chiama la schiuma

accesa tondo rovescia

oscuro più oscuro

annaspandoti, e tu mia mente

*

Noi, la lunga pianura immaginaria
ci inghiotte come sacramenti della notte
Sei stato una quantità esatta
nella pioggia che afferra i visi
ma adesso in ogni angolo della stanza
aspetteremo fuori dall’esplosione
un legno che io, qui,
ho costruito (lasciami fare)
prodigi scelti dal caso, pioppeti da percorrere!
Il tenero è nel mezzo e nell’interno
umiltà di una porta
ascoltando treni, a un passo, come
una febbre nel ricordo esattamente.
Guarda il campo
è così calmo, smisurato, stamattina.

*

Guardiamo dalla cima del monte
il filo di calma che è nato
del mio petto tu conti ogni grano
e ogni cuore si prende di colpo
il suo tempo: un amore
è tornato e si è accorto
il suo disco ci copre.
Adesso tu devi guardarmi
per quella collana di sì
nella mia pelle che apre
la piana la strada
e i fondi della notte
i centesimi della sete.

*

gli uccelli strappano il deserto
per vedere se stessi
scrivono nel cielo
– noi aspettiamo come mali idioti
che avanzano piano
le grida suonano
caricandosi nel cervello
fa giorno, come il cielo tutto rosso

*

il ruscello ha
molta fretta e trascina
la sua famiglia senza fine
la metà del tempo pensavo a me
quando ero bambino pensavo da bambino
ero nella nave inondata
ho visto fare l’acrobata
ero un re
molto triste e buono nella mia stanza
arriva un nano i morti non si contavano
ero in un campo verde
dove passeggiava una donna bella
un uccello arrivò e le rapi la collana
mi trovavo in un posto
c’era una ruota e si saliva
ognuna di noi teneva un’amica sospesa
in aria poi in molti appesi e stanchi
ci si lasciava cadere piangevo
perché mi era scivolata direttore
chiudete ma lui non ascoltava
il ruscello ha
molta fretta e trascina
la sua famiglia senza fine

*

Ho dovuto riconoscere, come per la Dickinson, che i tempi della distanza con le mie diffuse sensazioni di morte fossero gli unici possibili, pena la mancanza di riconoscimento della trascendenza mia e dell’amato. Anche se sentivo che era così assurdamente superfluo ferirsi per saziare gli dèi della paura, del futuro, della coazione a ripetere, mi era impossibile attraverso la poesia dire il mondo come è e non come dovrebbe essere. Potevo solo dire, con un po’ di disperazione, che fare le parole era un’imperfezione del cuore e che restavano le mie uniche deboli armi.

Finisco con i miei tre versi:
Mi porti sulle ossa
Finché la notte non mi contrari più
Madre di ogni minima cosa.

PER “IL SORRISO DI JOHN CAGE”. Antonio Pibiri

**

C’è vita dentro il cranio

incontro Herzog appeso testa in giù

gli occhi bianchi di chi non vede

nelle grotte di Chauvet

Poi nella vita c’è la vita immensa

e fiera del cervo infallibile

coi ragazzi che spaccano melograni

scagliandoli per terra

dalle naturali sedi anatomche

Fitto applauso d’ali in volo

saluta il dio che si fa giorno

La freccia punta il cuore verso sé

Chi portò la musica nell’Eden?

Chuang Tzu mi offre un rametto di corallo

senza fini ornamentali,

una rosa marina svelta dai roghi

di giostre equestri sul fondo,

dalla spolpa irriducibile.

“Usare tutto i corpo per – la – rotazione

l’intero tuo corpo, glielo devi, hai promesso

hai promesso per vivere”

*

Sveglia gli immediati tarli

un navigare

Sveglia gli immediati

nessuna scienza

-fine e inizio dei tempi-

di questo mondo e sopramondo

da grandi nebbie di demolizione

troverai tra i sette colori delle balbuzie

tutto ciò che occorre

non per ultimo alla sua

incompiutezza

*

[…]

In quale parola il volto si raccoglie?

Del lepidottero la fame non dà scampo

non la cura quotidiana delle unghie

non la doppia squilla del sole.

Io sarò in due con la mia morte:

uno di noi si salverà

*

P.S.

C’è sempre una pagina lasciata in bianco, una pagina in fondo al bianco, al lutto

lì le parole cercano

la propria assoluzione

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I testi sono tratti da: Antonio Pibiri, Il sorriso di John Cage, collana L’arcolaio rossa, Forlimpopoli 2025.

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Antonio Pibiri (Sassari 1968). I suoi libri di poesia: Il mondo che rimane (Lampi di stampa, 2010), Le matite di Henze (ibidem 2014), Chiaro di terra (L’arcolaio, 20016), Il prezzo della sposa (ibidem, 2018), In cosa consiste il lavoro (ibidem, 2020).

***

La poesia di Antonio Pibiri riflette se stessa con rifrazioni speculative, ironiche, filosofiche, sospese tra immagine e sentenza, componendo/scomponendo il quadro di una realtà vacillante che non è né musica né pensiero ma entrambe, plasmata dalle nebbie di una commozione reticente, ritrosa: “un ramo controgelo preme/ in furibondo silenzio/ innerva al secolo la luna”; Bergotte, amico caro, / c’è ancora molto da morire?”; “e alle pareti nella stanza d’albergo/ un riflesso di paradiso/ l’utopia sensibile”. L’utopia sensibile è il progetto non segreto di questa poesia composita, disarmonica, indocile, impervia. Pibiri, nella poesia eponima del libro, Il sorriso di John Cage, cita le parole del musicista: “se soltanto riuscissimo a escludere la mente e i desideri, lasciando che la vita scorra come vuole”. (M.E.)

PAESE CAPOVOLTO

Disegno di Henri Michaux

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Per venti notti e venti giorni galopparono fra rovi e rocce. Il ventre dei cavalli lasciava tracce di sangue. Cominciò a piovere ma neppure per un attimo aprirono la bocca per bere: forse, inconsciamente, pensavano che l’acqua potesse spegnere le loro voci. Ansimanti, vennero da noi. Balbettarono sillabe incomprensibili. Qual’era il messaggio da trasmettere, il segreto da svelare? Sapevamo che nulla li conduceva qui. Ma il re si alzò in piedi e disse: «Comunque, devono parlare. Che riposino dopo». Ma il popolo disobbedì al re. Erano troppo stanchi, i messaggeri, gli abiti impolverati, le facce cianotiche, la vertigine nelle orecchie, la tachicardia al cuore. Fu loro permesso che alloggiassero nelle stanze dell’albergo. Nello spazio di un minuto spirarono bisbigliando: «Non c’è più tempo».

Il re scosse la testa. Già lo sapeva. La storia si ripete. Degli uomini viaggiano insieme per giorni e il racconto che pensano di fare al termine del cammino, il sangue che esce dalla bocca, la vista offuscata, i crampi allo stomaco, la sete, la nostalgia, la fame, diventano indicibili. Ogni tanto, guardandosi, emettono suoni incomprensibili, per illuderci che ricordano ancora: ma anche per dirci che non sanno più cosa ricordare, che sono partiti per perdere il loro nome, diventare altro da sé, sparire come si sparisce in un luogo dove le radici degli alberi sono esposte al vento. «ll nostro paese è capovolto» bisbigliò il re, poi tacque.

SOGNARE CONTRO IL MONDO. Giuseppe Zuccarino

…non possiamo avanzare la pretesa di esplorare in un breve spazio tutti i racconti di Discorso contro la morte, e ancor meno ci è lecito tentare di raffrontare questi testi all’insieme dell’opera ercolaniana, ormai molto vasta e variegata. Accenniamo solo al fatto che tale ricchezza dipende da un rapporto particolare con la scrittura, simile a quello che Foucault attribuiva a Gérard de Nerval, di cui il filosofo diceva: «Sin dal l’inizio, è stato ghermito e preceduto dal vuoto obbligo di scrivere. obbligo che di volta in volta assumeva la forma di romanzi, di articoli, di poesie, di teatro solo per essere subito dopo distrutto e ricominciato. I testi di Nerval non ci hanno lasciato i frammenti di un’opera, ma la ripetuta constatazione che bisogna scrivere».

La soluzione migliore, per noi, sarà allora quella di cedere da ultimo la parola allo stesso Ercolani, che ha saputo spiegare meglio di ogni altro il senso profondo dei suoi racconti basati sull’effetto d’apocrifo, e anche il titolo scelto in questo caso per la nuova raccolta: «Sognare contro il mondo. In che modo sognare? Rubando voci. rubando l’attimo in cui ci si mette a nudo, in cui si scrive la lettera definitiva, la confessione sconcertante, il frammento inatteso che fa luce sull’enigma. ogni metafora nasce dallo stesso presentimento: la morte imminente. Cosa fare, contro questo assedio? Sviluppare molteplici modi di sognare. Allontanare il peso assoluto della morte. Nei tratti di penna e di matita che riempiono il foglio non si parla di letteratura o di pittura ma di qualcosa che sarebbe inesprimibile senza quelle frasi e senza quei segni: non si tratta di un esercizio stilistico o di un capriccio pittorico, ma di un destino fatale, di una questione di vita o di morte. Per lottare si entra nelle vite altrui. Anche la propria è una vita altrui. Si cercano frasi mai esistite, si trovano, si inventano. È un modo per dire che niente è realmente morto, niente si è realmente polverizzato – per dire che possiamo pensare e ripensare, riscrivere e ricreare, perché nulla è definitivamente concluso, per noi che soffriamo di metamorfosi».

(2009)

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Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Giuseppe Zuccarino, Reciproche consonanze, I libri dell’Arca, Joker, Novi Ligure 2025 (p. 104).