I testi sono tratti da Jeux d‘encre. Trajet Zao Wou Ki, L’Echoppe & La Maison des Amis des Livres, Tusson, 1994 (traduzione di Marco Ercolani)
Immagini di Zao Wou Ki
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I libri sono noiosi da leggere. Nessuna libera circolazione. Si è solo invitati a seguirli. Ma il cammino è già tracciato, unico.
Differente il quadro: immediato, intero. Si va a destra o a sinistra, dove si vuole, dove piace, secondo le sue traiettorie, e le pause non sono indicate.
Da quando lo desidera, l’occhio lo trattiene: nuovo, integro. Un attimo, ed è tutto è là.
Tutto, ma non si sa ancora niente. Da qui bisogna cominciare a LEGGERE. Gioia quasi ignota a tutti. Ma tutti possono leggere un quadro e trovarci qualcosa (e a mesi distanza cose nuove), tutti, rispettosi, insolenti, estroversi, introversi, analisti scientifici, chi studia i movimenti dell’individuo o il suo aldilà, o chi vede ogni tratto come un salmone da tirar fuori dall’acqua, quelli per cui ogni cane incontrato è da stendere sul tavolo operatorio per scrutarne le emozioni nello stomaco aperto, o chi con il cane che incontra preferisce giocarci e riconoscersi conoscendolo, quelli che nell’altro non festeggiano altro che se stessi, o chi vede soprattutto la grande marea che porta il quadro al pittore e il pittore stesso, e al lettore la folla del suo seguito e dei predecessori e la folla degli avvenimenti riuniti, e infine i buoni a nulla, gli scoordinati, e chi in ogni paesaggio ha le loro pale del suo mulino da far girare (le pale si vedono girare in piena luce nei paesaggi stranieri).
Posso spingere lettori che si ignorano a leggersi a loro volta? Mi perdoni Zao Wou Ki: mi hanno portato le sue litografie, e io ignoravo lui e le sue pitture.
L’indomani scrissi le pagine seguenti, e altri frammenti dopo.
Forse si meritava un lettore più “serio”!
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Poco più di un millennio fa un poeta pittore, Wang Wei, realizzò solo con inchiostro diluito una delle cascate più memorabili al mondo, e una gran quantità di monti, sentieri, boschi, promontori, pini in gruppo o isolati, vicini a rocce alte. Per tutte queste estensioni spettacolari usava un solo colore. Ancora il nero. Mille sfumature di pallido su scuro e la sua prodigiosa spontaneità facevano il resto.
“Aveva trovato il modo di dipingere il soffio delle nuvole… le sue montagne erano trattate come giochi d’inchiostro “. Il maestro, si dice da qualche parte, “posa l’inchiostro, leggero qui, pesante là”. È l’assenza di materia che resuscita la materia, la materia in movimento. Così l’evasivo pennello ricopre una grande distanza: Tao della pittura… dove simultaneamente parla la poesia. La popolazione dei pennelli è piovuta in questa pittura, e attraverso i secoli si è messa alla prova. Zao Wou Ki ha ripreso i giochi d’inchiostro: a modo suo…
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L’astratto prende più posto
astratto per distacco
purificazione delle presenze
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Sparpagliato qui, segreto là,
uova o isole?
Segno ultimo
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Abbreviato, residuale
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Ciò che non è stato trascinato si ferma, ellittico
*Marco Sbrana (26/03/2003) studia scrittura creativa presso la scuola Mohole a Milano, dov’è nato. È nella redazione di Zona di disagio e Evidenzialibri. Cura la rubrica settimanale di cinema per Odissea di Angelo Gaccione e collabora con il blog Scritture di Marco Ercolani. Ha scritto un romanzo sui disturbi mentali e una raccolta di poesie di prossima pubblicazione. Cura il blog di cultura e critica cinematografica Carrello a seguire.
Lo spirito si sviluppa nel tempo del sonno, quando apparentemente siamo fuori dal mondo e invece sprofondiamo realmente nel nostro. Vediamo i nostri sogni e ci appaiono reali. Viviamo dentro una nebbia, ma la nebbia non arriva dal clima esterno: la nebbia siamo noi, il modo con cui vediamo, che non è mai unico. La notte nutre il giorno e il giorno la notte. Ma, quando ci si sveglia o ci si addormenta, si va dall’una all’altra parte del mondo, attraverso lo stretto passaggio di cui siamo custodi.
Di cosa siamo custodi? Del nostro corpo, mai identico a se stesso, delle nostre menti tormentate. È come essere davanti a un muro crivellato: bisogna andare via, lo sappiamo, le vittime non ci sono più, a cosa serve restare? Ma si prova uno strano pudore, un’intima paura, a lasciare quel muro solo, con le sue cicatrici; vogliamo che il nostro sguardo abbia ancora il potere di consolare, di lenire, non si sa cosa, perché tutto è già accaduto; e così non si va ancora via, si guardano le schegge, i buchi, le crepe (perché non si chiamano ferite?), si pensa a scene di battaglia dove alcuni uomini sono stati uccisi e a scene di festa dove sono stati felici, in una metamorfosi continua della mente e del corpo. La metamorfosi sostanzia il nostro pensiero e il prezzo da pagare è la duplicità del corpo, il suo strazio somatopsichico, che si svela e si insinua, attraverso continui smascheramenti, come un inquietante animale collettivo, anonimo protagonista di estasi e terrori, dove non soltanto dominano le espressioni della follia “altra” ma l’umano svelato in tutta la sua minacciosa e felice potenza. Il reverendo Hooper, nel racconto di Nathaniel Hawthorne Il velo nero del pastore, da una certa domenica in poi celebra la messa con il viso coperto da un velo. Il velo nero non è simbolo di nulla. Né metafora né allegoria, allude a tutto e a niente. Chi lo guarda si pone domande assillanti: il pastore vuole espiare una colpa personale o collettiva? Ma il reverendo non fornisce spiegazioni plausibili. Si farà seppellire con il velo sul volto, lasciando tutte le domande senza risposta. L’inquietudine non nasce da uno smascheramento, come sarebbe logico pensare, ma da un mascheramento enigmatico, come accade in tutti i libri di questa Biblioteca bandita, esposti a Villa Piaggio, simboli della nostra nebbia e felici strumenti per attraversarla.
Lettera apocrifa di Scipione all’amico Falqui. Arco, 25 ottobre 1933.
Scipione (Gino Benichi)
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Se tu dici a un uomo “dormi seduto”, quando da innumerevoli generazioni l’uomo ha dormito sdraiato, non è cosa facile da ottenere senza un indicibile strazio. Per di più con la febbre e un’agitazione delle braccia e delle gambe che ti sposta e ti rende di fuoco. Se mi sdraio però mi sembra di soffocare. Altre congestioni, altra febbre. Respiro con difficoltà, la nuca sotto una pila di cuscini. Apparentemente il tuo Scipione ha la pelle durissima – dall’esterno sembro sempre florido, giovane e forte, i miei muscoli sono tesi e spessi. Posso apparire un tronco tenace abbarbicato alla vita – ma dentro l’albero è vuoto. Come certi ulivi con le fibre salde e forti, ma svuotati di linfa, disseccati nudi come una canna.
Purtroppo – a me sembra impossibile – i polmoni sono andati. C’è è tanta aria per tutta la valle, tanto vento, ma per me tra pochi mesi non ci sarà più aria da respirare. Eppure tante cose mi urgono ancora dentro. Non ho neanche trent’anni. Ho appena iniziato la mia storia di poeta e pittore, qui sulla terra. Ho appena iniziato ad amare i colori, le donne, le parole e già tutto mi fugge via, bevuto, goduto, assorbito da altri – che non conosco, che non sono io.
Ho ordinato il cavalletto ma quel benedetto falegname non me l’ha ancora consegnato. In queste ultime ore sono migliorato e devo lavorare prima della prossima primavera. Io temo la primavera più di ogni altra stagione. Con la bella stagione la linfa corre dentro il tronco e dilata la ferita e io non respiro più e comincio a tossire. Maggio soprattutto è crudele, con quelle fioriture bianche di narcisi.
Spero di essere ancora vivo nei prossimi mesi. Forse la ferita si fermerà e io guarirò e con un terzo di polmone potrò ancora combinare qualcosa. Se questo avvenisse – te lo giuro Falqui -, la mia pittura non avrebbe più nulla di contorto, con quei paesaggi massacrati e gli alberi che vomitano verde da ogni parte, e il rosso dei corpi. Non dipingerei più a rotta di collo ma disegnerei. Grandi figure bianche, nere e vive.
Un uomo nudo cammina.
È bianco come un albero senza corteccia
e4 tutte le cose create vogliono toccarlo.
E lui taglierà gli alberi
dopo aver goduto della loro frescura
prenderà i pesci dal fiume,
gli uccelli che volano.
Ho molta ansia, Falqui. Temo che scrivere mi sia troppo faticoso e che poi dovrò pagare lo sforzo di questa lettera con uno sbocco di sangue. La vita mi sta sfuggendo e l’aria è così lontana che la mia bocca non riesce a raggiungerla. Ieri per esempio, ho passato una notte d’inferno e oggi sto benissimo, ristorato, rinfrescato e la poca aria che mi entra nei polmoni sembra una cascata impetuosa. Oh, se tutti gli uomini capissero che respirare è a volte una grazia impossibile!
Non mi rassegno a morire. Non avrebbe senso.
Mi sento abbacinato
Come un foglio bianco
Su cui picchi il sole.
Ma questo foglio ormai saranno gli altri a riempirlo con le loro parole. Non mi illudo.
Per cui mio Falqui, addio.
*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Carte false, Hestia edizioni, Milano 1999.
Immagini di Scipione
Scipione (Gino Bonichi, Macerata 1904 – Arco 1933) è noto sopratutto come pittore: la sua breve presenza a Roma alla fine degli anni venti costituisce uno dei momenti piú intensi del rinnovarsi della giovane arte figurativa in un momento di fruttuosi scambi fra pittura letteratura e critica. Sotto il titolo di Carte segrete sono stati raccolti, dopo la sua morte, pochi versi, pagine di prosa e di diario, lettere: quel materiale restituiva schegge liriche di singolare, decisa forza poetica, tali da garantirgli un ruolo non secondario nella poesia italiana del Novecento. Integrato da altri testi, sparsi via via in riviste e libri di scarsa diffusione, quel gruppo di frammenti, che in parte riproporremo in questo blog, mostra Scipione poeta dalla «grande forza panica», come dice Amelia Rosselli.
Artista visivo, specificamente videomaker, Carlotta Cicci trova, alla sua prima raccolta di versi, Sul banco dei pesci (L’Arcolaio, 2022, prefazione di Alberto Bertoni), una flessuosità ritmica che rende le poesie del libro frammenti crudeli e compatti, intrisi di una disperata, inevitabile cantabilità (“in un passaggio / di vortici e soglie / con l’anima capovolta / in un improvviso odore / di fieno e sale / nel delirio / lei nasce // il suo respiro / come una carezza / assoluta // un suono / piccolo”). Bertoni osserva, nella sua postfazione, che questo libro innova la percezione del linguaggio: “montaggio dinamico e variegato di fotogrammi che lasciano alla fine della lettura una sensazione di attività cooperante e soprattutto di libertà reciproca”. Io aggiungerei: questi versi non sono pensati come versi autonomi di singole poesie ma come strutture mobili di una cantata profana, sospesa fra tragico e sacro, radicata in una straniata “pressione” della psiche a contagio col “garbuglio del mondo” (Bertoni). Suddiviso in quattro sezioni (“La sentenza”, Bestie caute”, “Tunnel”, “Stanze deserte”), il libro racconta, con echi surrealisti e secche sequenze di versi brevi, un viaggio iniziatico di conoscenza/spoliazione dell’io. Naturalmente, ogni poeta ci comunica sempre il suo personale sperdimento. Ma c’è chi lo fa dall’esterno, come se sviluppasse teoricamente il tema prima di trascriverlo in versi. Nulla di tutto questo, nella poesia di Carlotta, dove osserviamo la trascrizione fisica, nelle parole, di un potente terrore psichico, che dal linguaggio viene appena placato: “cerco un appello / cerco la mia faccia // mi manco // senza pericolo / senza inventarlo / è calma / è sevizia”; “devo difendere il silenzio / tornare dove le allodole / fanno i nidi / dove la vita smarrisce / nella pazienza del tutto // devo cercare la sua voce / così un uccello mi segnerebbe / il petto // spalanco la bocca / scelgo di coprirmi il volto // schiantare / voglio schiantare”). Si potrebbe parlare per questi versi di epifanie, se la parola non fosse fin troppo abusata. Ma occorre dirlo, perché di epifanie qui si tratta, di fessure visionarie dove è abolita la punteggiatura ma non il ritmo, e che rivelano l’immediato riversarsi della percezione in poesia, gettata “sul banco dei pesci” senza mezze misure, fra odori, soprassalti, brandelli di preghiere (“latente / pregiata / rara / come un cervo bianco / eludi tu che resti”), in un campo perturbato di emozioni e di polifonie ritmiche, alla ricerca della parola adeguata, la più nuda possibile (“la mia parola marciva / nelle tue parole perdute / nella spirale inattesa / nella misera fine”). “Non si guarisce dall’io” scrive Emil Cioran ma lo si frammenta, lo si dissemina, lo si espone. Non è più il proprio io: è un io molteplice, gettato nel vortice delle sue possibilità.
Nel secondo libro, Grado zero (MC, 2024), il suo “essere poeta”, scagliato sulla pagina, non mostra nessuna esitazione: “nel mio grado zero ho posato l’umanità”. Che cosa vanno cercando questi versi? “Furore e mistero”, come ci indica René Char? Carlotta fa emergere una voce severa, visionaria, che lotta contro il ‘mondo offeso’ per trovare salvezza nei suoi dèi ulteriori: “in questo smarrimento terrestre / mi tieni il fianco con atti di pietà. / resta delicato il nostro lungo risveglio”. I versi che inventa sono sequenze di una salmodia frammentaria ma nitida, opposta agli orrori endemici della vita quotidiana. Echi di immagini, scorie di riflessioni, lampi introspettivi: ecco il pre-pensiero di questa poesia fulminea e passionale, incisa con tagli glaciali di parole che Pasquale di Palmo, nel risvolto di copertina di Grado zero, definisce da street photographer.
Il lettore è costretto ad accogliere un dettato rapido, un accordo brusco, un feroce passo animale che lo lascia interdetto, senza che lo sorregga la consolazione di un logos poetico confortante. Grado Zero è un libro “inconsolato”, non placato. Leggere la poesia di Carlotta è come camminare in un mondo capovolto e ridurre la lingua poetica all’essenziale – cosa che mi sembra naturale per un artista che non proviene dagli stretti antri del linguaggio poetico ma dalla limpidezza visionaria del suo essere “artista di immagini”. I veri poeti sono sonnambuli che guardano insieme i tetti d’oro di una Praga sognata, infittendo quaderni con ciò che non esiste: “non avrà pietà la mia piccola voce. / non ti lascerò solo senza leggi. / ti solleverò sul margine / della tua salvezza”. L’arte della compassione non ha, come oggetto, solo gli esseri umani: si tratta, come scrive Nanni Cagnone, di “pensare il percepire”.
È evidente, nella sintassi di questi versi, l’assenza delle virgole e la presenza perentoria dei punti, a sottolineare che ogni frase conclude se stessa e si avvicina all’altra non tanto per costruire un dialogo quanto per mostrare, complici, un contrasto, una visione, un dramma. Il corpo è un palinsesto di ordini imposti, di veti incrociati. Nasce così come ha potuto, informe, oscurato, difficile. Poi arriva la ferita, come se dall’esterno qualcuno forasse il velo. E, da sotto la ferita, come un breve urlo, esplode la parola: “c’è grandezza. La stanza è irrequieta. / è il taglio alto della luce. Là dove taccio / mi vedi e non chiedi tutte quelle cose / vere. E la tua bocca sembra una parola”.
Non corteggiare l’inutile ma conquistarlo: farne il proprio racconto, la propria arte reale. Così come Herzog trasforma il pianoforte, issato sopra le montagne in Fitzcarraldo, non in segno di follia ma in possibile estasi, dove si compie l’impossibile: “credo di dare un nome al pianto. / dimentico la pace di noi. Tutti morti. / abito dove il silenzio sarebbe un dono”.
Il corpo è lupa, spasimo, turbamento ininterrotto. In toni da inno sacro questa poesia concentra un tormento umano e un eros da belva: “ti trattengo sulla pelle. Ti trattengo / tra le cosce. Tra le pieghe del lenzuolo / ti confesso il sangue”. In Carlotta Cicci abita l’eternità dell’impulso d’amore ma è roccia, fermezza, tempo sacro: “tutto è mio se mi fermo nel nostro / silenzio. Come una vittoria si avvicina / il temporale. gli stormi sembrano polmoni. / e il fiume è sempre lì”. Il poeta che abita questo libro è vagabondo dell’ordine che sta minando. La sua opera, violenta, non ha l’irrespirabile segreto della natura morta ma l’oscura potenza dell’organismo vivente. Dimentica di modellare la forma e la inchioda: così si libera dallo spirito solare delle frasi e trova un verso, di diamante o di fumo, nel quale intonare la voce. Scrive René Char: “Imita il meno possibile gli uomini, nella loro enigmatica abilità di stringere nodi”. In questa poesia i nodi non vengono stretti ma mostrati, come un abisso spalancato: “ho salutato tutti i miei morti. sfiorandoli / di improvvisa gioia”.
Improvvisa, dolente, disforme gioia. Non è solo un caso che l’autrice, con il compagno Stefano Massari, curi da diversi anni un progetto di videopoesia che ha come suo ideale la libertà espressiva della poesia come valore assoluto. “Zona disforme” è il titolo del lavoro, a quattro mani, che Stefano e Carlotta hanno intrapreso come teoria del “fare poesia” in questo tempo stravolto dall’opacità mediocre del linguaggio: un progetto utopico, multimediale, lacerato, alla ricerca dell’anomala bellezza di cui i veri poeti sono assetati e dipendenti, e per la quale combattono. Di questa “zona disforme” la poesia di Carlotta è, dopo appena due libri, uno degli emblemi più autentici. Scrissi diversi anni fa, nel 2000, una raccolta di saggi su alcuni poeti contemporanei e lo intitolai Fuoricanto. La posizione di Carlotta Cicci, oggi, nella poesia italiana contemporanea, è davvero “fuori canto”: un miraggio trasfuso nella lingua poetica, una percezione barocca e arcaica del mondo dove ogni gesto è miraggio di sé. Con felice curiosità attendiamo le sue ulteriori prove.
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Carlotta Cicci, poeta, fotografa, videomaker, nasce a Roma nel 1984. Cura e realizza con Stefano Massari il format videopoesia “zona disforme” (www.disforme.net). Pubblica nel 2022 Sul banco dei pesci (L’Arcolaio editrice, prefazione di Alberto Bertoni) e nel 2023 la sua seconda silloge Grado zero (MC edizioni, nota di Pasquale di Palmo).
La scrittura di “Notte alta”, breve prosa poetica contenuta nell’eponima silloge del 1997 (Lucetta Frisa, Notte alta, Book editore, 1997), si svolge all’interno di un processo di rinascita, che prende le mosse da un’esperienza di premorte, di cui cerca di invertire il senso. In questo contesto, il problema centrale, dichiarato già nel primo degli otto mo(vi)menti in cui si articola il testo, è quello del perdere e prendere forma, della scelta fra forme diverse (“Cosa nasconde quel luogo? Non so se ha forma di rettangolo o di cerchio”), in cui in fondo consiste l’atto stesso del nascere (e del rinascere). Il boccascena, infine, è quello onirico di una spiaggia al tramonto – ricorrente fin dai sogni di bambina dell’autrice – dove il sole compare su un orizzonte vuoto: “sabbia tra gli alluci e io che mi dico affrettati a riempire gli occhi di tutta questa meravigliosa luce”.
Per meglio comprendere queste prime sintetiche annotazioni, può essere utile rilevare almeno che, all’interno dell’intera silloge, Notte alta si trova in un punto di contatto fra terminali in cui il dato autobiografico e onirico si va intensificando lasciando gradualmente il posto alla prosa (“A fine verso si spalanca lo spazio del respiro prima di rovinare indietro. Si può morire di asfissia o anossia. Per gravità di suono? Dipendenza da un ritmo?” – versi centrali in “Verso Palermo”), e il patto fra “poesia e morte” viene formalmente dichiarato, come rileva Stefano Verdino nella postfazione al libro (“La poesia non copre la morte/la scopre piano piano finché non puoi parlare che di loro/della poesia e di lei – loro due insieme e null’altro” – versi centrali invece in “L’arte di non pensarla”).
Che Notte alta si collochi all’interno di un’esperienza di premorte è esplicito: “al corpo, per morire, occorre molto più tempo; la mente giunge al traguardo per prima e si mette in attesa. Giorno per giorno lo aspetta”; oppure “Scrivo perché scrivendo posso simulare mille e una volta questo attimo che precede la morte”. E che, al suo interno, si tratti di un processo di rinascita, è dato nei molti riferimenti che innervano la prosa in un tentativo costante di riemersione: “La fessura del soffitto che si affaccia sul cielo aperto, e ricorda la debole fontanella dei neonati, mi porta l’immagine dell’infinito”; “Nella città labirintica (…) l’abitante si occulta in posizione fetale”; e prima ancora: “Un bambino prende in mano foglio e matita e traccia, al centro, a caso, uno scarabocchio: è il segno di un groviglio. Lì sul foglio, come sulla superficie terrestre, sembra piatto. Ma basta alzare lo sguardo, e la profondità emerge”. Rinascita come riemersione quindi, che inverte il senso della premorte sostituendo al tramonto del sogno l’alba di un sole sorgente (“Sempre il tramonto, mai l’alba”), di cui Notte alta è anche metaforicamente tramite nel suo porsi esattamente a metà – Venere occulta – nello spazio palindromo che separa l’ultimo raggio della sera e il primo del mattino.
Il processo di rinascita si compie dunque nella scrittura, intesa nella sua capacità di porsi come “punto di equilibrio” fra forme, a iniziare da quella elementare, ma geroglifica, etimologicamente intesa e quindi sacra in radice, di un bambino, perché “Imparare l’alfabeto è un rito che libera forze per poi trattenerle, snodarle e annodarle, almeno per l’attimo della frase”. Si tratta di un percorso, quasi <reiniziatico>, in cui il comporsi dell’equilibrio che fonda la rinascita è interpretazione di quello scarabocchio che, come detto, si può comprendere solo alzando lo sguardo, in un’acquisizione elementare e sorprendente che lo ri-vela “sulla chiocciola, sulla conchiglia, in certi insetti, nel disegno della tela del ragno, nelle orbite planetarie”: nell’infinitesimale e nell’infinitamente grande. Ma anche nel corpo, ad esempio nelle forme annodanti di un <ombelico-omphalos>, che “dopo la nascita, si richiude come un sigillo”, o in quelle dell’orecchio che “ci unisce alle vibrazioni dell’universo” e infine nelle forme del cervello, che “comprende tutte le memorie” e richiama nella forma lo <stilema> delle città in cui viviamo, che fin dall’antichità “viste dall’alto (…) assomigliano a tele di ragno”. Si tratta, a ben guardare, di forme vorticanti ellittiche sinusoidali, mai pure, mai chiuse, sintesi di forme, di tensioni, di diverse energie (“Divino è l’inizio di un vortice che semina suoni”), in cui la scrittura, ma sarebbe meglio dire: la ri scrittura di Notte alta sviluppa con i suoi segni la difficile relazione fra punto e linea in cui si in-scrive la realtà (punto come “centro” o “neo bizzarro”, linea come orizzonte o “linea curva” sulla cui cima “si vede il possibile”), risolvendo in immagini e in un <surplus di senso> le forme sempre in tensione del quadrato e del cerchio con cui si apre il testo. L’equilibrio che ne deriva, proprio in quanto rinascita del corpo in questa esperienza di premorte, si esprime anche attraverso il contrasto e il relativo ricomporsi dei sensi predominanti della vista e dell’udito, che il gesto stesso della scrittura mette a sintesi e che ricorrono ora nella loro nuda valenza di organi naturali, occhio e orecchio, ora nella funzione dello sguardo e dell’ascolto, ora come “meravigliosa luce” e “grembo sonoro”, pozzo “claustrale” che “cattura quaggiù, nel suo piccolo cerchio finito, l’infinito” o dove risalgono le “voci di demoni solitari che abitano cavità acquatiche” di cui parlano “certe fiabe”. Soprattutto, ribaltandosi sul vissuto di chi scrive, lo stesso equilibrio diventa necessariamente equilibrio fra un passato che “lega ma orienta” e un futuro che è “distacco per andare verso, sempre più disorientati”: coordinate sulla mappa del tempo che si possono individuare solo volgendosi, con un movimento che richiama la torsione natale con cui la vita si dipana da dentro a fuori. La soluzione dell’equilibrio passa così nella sublimazione di un distacco vissuto come <perdita> e reinterpretato in un nome, il proprio, che si fa identità, forma come sintesi con l’“altra me stessa”: “Prendo quella parola, quel suono che mi somiglia e lo seppellisco sotto un albero, vicino alle radici”. Si tratta di un gesto ancora una volta <re-iniziatico> e ancora una volta ossimorico, che parte dal passato e propizia visioni, anche se non si sa più “se dal mondo che si è disfatto o da quello che arriverà”. Ma poco importa, perché ciò che si abbandona ora “è una ragione minuscola quanto un’orma di animale vista dall’alto di un monte” e la sensazione che resta al risveglio è quella di “una misteriosa, struggente bellezza. Nostalgia del grembo sonoro di mia madre o annuncio di un altro universo – illimitato – che mi viene incontro” come la meravigliosa luce di quel sole al tramonto che sembrava invece attesa. E non lo era. Forse era luce d’alba, quella che già si vede a Notte alta. “Qui anche la mia anima sembra ferma. Trattengo l’anima come il respiro. Dopo che se n’è volata via, questo respiro che cos’è?”
Melzo, fine giugno 2025
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Lucetta Frisa, da Notte alta
La prima immagine che mi si presenta è un luogo chiuso da mura ma senza tetto, forse un chiostro: ci piove di striscio, da destra, un raggio di sole. Questo taglio obliquo della scena indica l’ora in cui mi trovo. È il tramonto, e la sua luce, densa del giorno trascorso, è sul punto di disfarsi.
Cosa nasconde quel luogo? Non so se ha la forma di rettangolo o di cerchio. Mi sembra rettangolare, l’occhio può riposare ai quattro angoli e non vorticare su se stesso, conosce già un ordine. È una geometria occulta che allude che allude a uno spazio sacro, mi separa dal mondo, crea esterno e interno. Questo luogo dove nulla manca, dove sono in pace, mi attrae irresistibilmente; avanzo e intorno a me la forma rettangolare si dissolve, e mi sento al centro di qualcosa di circolare. Non alzo gli occhi, non voglio null’altro; al centro può esserci un pozzo, nel pozzo acqua limpida o torbida, oppure nulla, un vuoto nero. Mi attrae come scovare una tana d’animale, qualcosa di palpitante che non si mostrerà mai.
So che sono qui perché mi sono umiliata, spogliata dii tutto, e mentre mi avvicino bisbiglio una preghiera. La mia voce non è voce imperiosa di cacciatrice ma richiamo seduttivo di chi chiede insieme assoluzione e amore. Io so che il mio occhio fissa quel punto, che la mia mente è lì, la mia anima è ricaduta lì; con pazienza imparo a congiungermi e morire nel mio oggetto d’amore.
Sono in questo assoluto non luogo che esiste in me prima di me, in una profondità dove mi attende, immobile, l’altra me stessa; ostile, inadeguata al mondo, sempre me l’ha sottratto.
Il mio sguardo verso il centro è calmo e dritto; vedo infine il mio desino e lo amo, amo il nulla e il démone che lo abita.
Guardo questo vuoto ma non vi precipito, lo tengo a distanza, insensibile, come chi cammina a piedi nudi su sassi e fiamme e non si ferisce né brucia. Guardo e resto serena. Scrivo guardando questo punto, comprendo quel nulla in me. Scrivo perché scrivendo posso simulare mille e una volta questo attimo che precede la morte.
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Al centro del pozzo c’è qualcuno. Certe fiabe parlano di voci, démoni solitari che abitano cavità acquatiche; questo démone, una volta riconosciuto e addomesticato, conduce il viaggiatore dentro il pozzo; poi, improvvisamente, sparisce.
Raggiungere il destino è chiudere un cerchio, fare coincidere la propria esistenza con il suo invisibile progetto, cioè il ragno con la tela, il viaggiatore col viaggio. È punto di quiete e di estasi – che è fermezza di sguardo – inflessibile ma amoroso.
Non voglio indugiarvi troppo; solo quell’attimo è il senso, ciò che viene dopo è cronaca o maniera.
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Mare, spiaggia e un orizzonte vuoto – il sole basso, al tramonto. Piedi nudi sulla spiaggia ancora tiepida, sabbia tra gli alluci e io che mi dico affréttati a riempirti gli occhi di tutta questa meravigliosa luce. È il sogno ricorrente del tramonto, fatto fin da piccola. Sempre il tramonto, mai l’alba.
Ora, mare e pioggia si sono concentrati in un unico punto, tutto quello spazio dilatato si è contratto in questa clausura, in questo cerchio stretto, e tornerà a dilatarsi per qualcun altro quando io non potrò più guardarlo.
La mente lo ha raggiunto: piano piano dovrà convincere il corpo a morire, perché al corpo, per morire, occorre molto pù tempo; la mente giunge al traguardo per prima e si mette in attesa. Giorno per giorno lo aspetta…
– “Coloro che esportano la democrazia”, si sente dire da queste parti.
– Non so a cosa ti riferisci.
– Perché siete qui?
– Siamo finiti fuori rotta, gli Dei ci hanno traditi.
– Sei un bugiardo. Perché parli solo tu e gli altri tacciono?
– Loro sono abituati così. Eseguono i miei ordini e basta.
– E adesso che si fa qui dentro tutti insieme? Questa grotta non è attrezzata per ospitare uomini piccoli come voi.
– Abbiamo bisogno di viveri e provviste prima di imbarcarci.
– Cosa mi darete in cambio?
– Il nostro silenzio.
– Spiegati meglio.
– Non riveleremo a nessuno di essere stati su quest’isola.
– E se non vi liberassi?
– Vedo che hai un occhio solo. Quando ci scateniamo siamo come uno sciame di insetti che colpiscono da tutte le parti. È così che annientammo Argo, che di occhi ne aveva cento. Saresti tu, se mai, a non poterti liberare di noi.
– Prendete quello che vi serve e andatevene subito, allora.
– Io e i miei uomini non abbiamo tutta questa fretta di rimetterci in mare; un po’ di riposo ci farebbe bene. E poi con quella mola lì possiamo dare una bella affilata alle spade.
***
Spogliatoio della terna arbitrale nello stadio Santiago Bernabeu di Madrid, dopo la finale di Coppa dei Campioni.
Stasera il tuo è stato un arbitraggio sontuoso, José! Preciso e impeccabile nelle decisioni lo sei da sempre, ma l’eleganza e il modo in cui ti rivolgevi ai giocatori avevano qualcosa di veramente ispirato. Ti ho potuto osservare con attenzione da bordo campo; dopo tutte le partite che abbiamo arbitrato insieme, a questo punto te lo posso confessare: sei il migliore.
Non sono per niente d’accordo. La partita è filata via liscia, non c’è stato bisogno di fare quasi niente. Avrei preferito un gioco spigoloso, a tratti cattivo e poi, se il risultato fosse rimasto in bilico fino alla fine, mi sarei inventato un rigore e un’espulsione contro gli olandesi. Volevo a tutti i costi che perdessero.
Scusa, non capisco.
È esattamente come ho detto. Io e te siamo spagnoli, e i nordici non li sopporto. Come l’Ajax di questa sera; per non parlare poi dei tedeschi. Ha vinto il Milan, una squadra italiana. Loro sono latini, come noi. Quasi quasi quando esco, fermo un tifoso e mi faccio dare la sua sciarpa.
Sei impazzito, per caso?
No, non credo; almeno non ancora. Semplicemente sono stufo di essere arbitro: vale a dire imparziale, ragionevole, di buon senso, per bene. L’arbitro è colui che entra in campo pulito e ben pettinato e, al termine della gara, è più o meno ancora così. L’arbitro migliore è quello che non incide, quello che non si vede. Questo ci viene ripetuto da quando abbiamo iniziato questa professione. Ma io un mestiere ce l’avevo già, ero e sono un manager commerciale. Quando decisi di diventare arbitro lo feci, in qualche modo, per misurare il mio senso del dovere, la mia propensione verso una giusta causa. Ma a partire da adesso non sarà più così. Voglio diventare l’arbitro più scorretto, anzi il più corrotto che sia mai esistito!
Abbassa la voce. Ci sono i membri degli organi federali al completo nello stadio; se qualcuno passa e ti sente siamo rovinati.
“Sulla terra saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genìa è indistruttibile, come la pulce di terra”. Hai mai letto Nietzsche?
Spiacente, ma le mie letture si limitano a Tex. Comunque, io adesso esco di qui e vado a cambiarmi in un’altra stanza; quando sarai ritornato in te avvisami.
Stai tranquillo, non dovrai più sentire questi sproloqui. Ho deciso che quella di stasera è stata la mia ultima partita.
Ecco, questo è lo sproloquio più grosso fra tutti che ho sentito finora. Forse te ne sei scordato, ma l’anno prossimo ci sono i mondiali. Quando saprà che vuoi ritirarti, la nostra federazione ti costringerà a cambiare idea a costo di fare intervenire la guardia civil.
Già, i mondiali… beh, allora sarà il caso di restare un altro annetto.
Vedo che ti è tornata la ragione. Adesso usciamo e andiamo a mangiarci il gazpacho che fanno alla taberna che c’è qui dietro allo stadio. Josè, questa è una giornata memorabile.
Josè Maria Ortis de Mendibil (1926-2015) è stato un arbitro spagnolo. Considerato uno dei più affidabili fischietti internazionali, nel 1969 diresse la finale di Coppa dei Campioni fra Milan e Ajax finita 4 a 1 per i rossoneri.
***
Alle prime luci dell’alba, nei pressi del santuario di Poseidone Ippio a Colono due filosofi si scambiano il saluto.
– Dimmi, ti hanno sempre considerato un filosofo?
– Sì, ma a differenza di quanto i più sono portati a pensare, non mi è mai piaciuto farne un vanto; perlomeno non al cospetto della comunità, ecco.
– Eppure eri famoso già ai tempi in cui tutti ti ricordano al fianco di Socrate.
– Questo non posso negarlo. Però, le volte che riuscivo a fare un salto al mercato di prima mattina per incontrare gli amici, alcuni dei quali non sapevano proprio niente di filosofia, e insieme si rideva e si scherzava… beh, quelli rimangono i ricordi più belli della mia vita.
– E al ritorno a casa ti dedicavi anima e corpo ai tuoi scritti?
– Sì. Però, sai, lo facevo con animo leggero, quasi per divertimento. Oggi il lavoro che dà serenità è considerato disonorevole; i sapientoni che passano le loro giornate barricati all’interno dell’Accademia se ne vergognano.
– Ti confesso che ciò che sto sentendo è sorprendente.
– Arrivo a dirti che scrivere le Sentenze era l’aspetto meno filosofico della mia vita. La parte più filosofica consisteva nel vivere semplicemente come la maggior parte di coloro che incrociamo tutti i giorni nell’Agorà o per le vie di Atene. Allora era così; oggi non più.
– Noialtri filosofi ci sentiamo i membri più degni della città, ma forse soltanto perché abbiamo alle spalle una carriera che ci rende tali o, per dir meglio, crediamo che basti a renderci ciò che siamo.
– Questo che hai appena detto è il punto vero della questione, mio caro amico. Noi, parlando delle nostre opere, siamo abituati a dire: ‘il mio libro, il mio commento, la mia storia’. Siamo convinti che tutto ciò che di buono accade fra queste mura sia merito nostro; esordiamo sempre con la frase “a casa nostra”.Io, invece, sono convinto che i veri protagonisti della nostra città non siamo noi, ma la gente umile.
– Se potessi spiegarti meglio…
– Intendo dire che in tutto ciò che diciamo e scriviamo a comparire, prima di noi stessi con le nostre opinioni e i nostri ragionamenti, sono gli uomini a cui ci rivolgiamo e ai quali, consapevolmente o meno, rendiamo omaggio con i nostri scritti; saggi o sciocchi che siano poco importa. Mi auguro che non accada ma, se le nostre opere fossero tramandate alle generazioni a venire (lasciamo ai sofisti la prerogativa di costruire futuri maestri di cultura e di virtù), spero che i nomi dei personaggi che vi si trovano siano considerati quanto meno al pari dei nostri e di quelli dei luoghi che li hanno ospitati. Se ciò avverrà, credimi, sarà di giovamento a tutti.
***
Il Pittore – Anche stanotte non ho dormito.
Il Critico d’arte – Così hai potuto lavorare. Se ci pensi bene, la tua insonnia cronica è manna dal cielo. Un altro al tuo posto ha necessità di dormire, quindi non ha a disposizione tutto il tempo che hai tu e, di conseguenza, la possibilità di creare a ciclo continuo. I tuoi dipinti li puoi sfornare come il pane che esce dal forno.
Il Pittore – Perché parli così? Se non ti sei ancora reso conto della mia situazione, allora è arrivato il momento di dirtelo. Ho già provato due volte ad ammazzarmi. L’assenza di sonno costringe a uno stato di coscienza insopportabile; è come vegliare sul proprio cadavere. Voi ogni mattina avete a disposizione una nuova possibilità, un nuovo orizzonte, per squallido e meschino che sia. Noi, invece, non stacchiamo mai; usciamo all’alba come una lastra di metallo esce dalla pressa. Siamo prigionieri nel vortice del presente: giorno e notte affrontiamo sempre lo stesso inferno.
Il Critico d’arte – Scusami, a volte non so davvero perché dico certe cose.
Il Pittore – Dipingo da quando ero poco più che un bambino, eppure non ho ancora risolto uno solo dei problemi legati alla mia pittura. Astratto e figurativo, anziché trovare i giusti accordi, si scontrano continuamente. C’è come un muro che li divide, lo stesso che scorgono i miei occhi spalancati nel buio della camera da letto. È però in parte vero ciò che dicevi prima; l’insonnia mi permette di dipingere incessantemente e spero di morire prima che questa fiamma che ho dentro si spenga.
Il Critico d’arte – Se è così, allora continua a lavorare soltanto per te stesso. Io so per esperienza che, appena le operesi vendono, appena si dice di qualcuno che è sulla strada del successo, è finita, non resta più niente. Quelle si svuotano, perdono il loro universo e si allontanano inesorabilmente da chi le ha create, non gli appartengono più. Della fiamma cui tu accenni non si trova neppure la cenere.
Il Pittore – Farò in modo che ciò non mi accada, stanne certo.
Due giorni dopo questo incontro, il 16 marzo 1955 Nicolas de Staël si gettò dal balcone della sua casa di Antibes. Di lui Cioran scrisse che “le opere degli ultimi anni testimoniano una febbre, una apocalissi interiore che esigeva il coronamento della morte”.
***
Recanati, estate 1987. Lo scultore Valeriano Trubbiani ha appena concluso l’allestimento delle sue opere in occasione del centocinquantesimo anniversario della morte di Leopardi.
Povero uccellino dai tratti dolci e dall’anima indecisa, povero uccellino che trascina una gamba rotta. Catene opprimenti lo configgono al suolo, lui come questi enormi ruminanti, i cui musi costretti in museruole d’acciaio protendono verso l’alto le loro sofferenze. Legati a corde robuste, esseri alati oscillano sospesi alla torre; i loro occhi cerulei come quelli del poeta trasbordano nel verde metallico del cielo, tratteggiato di nuvole bianche disposte in linee sottili.
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La finestra della mia stanza che affronta i venti … Monotona dolcezza della vita patriarcale. Da mio padre mastro ferraio che riparava zappe, erpici e falci ho imparato un mestiere che poi mi è stato detto essere arte; le prime sculture le realizzai nella sua officina. Avvolto nell’aria impregnata dall’odore del ferro, tra le scintille delle saldatrici elettriche smontavo telai di finestre, che poi combinavo con oggetti raccattati nelle discariche e lungo i fossi di Macerata. “Macchine belliche” hanno chiamato quelle prime sculture, come questi topi e queste rane posti gli uni di fronte alle altre per darsi battaglia; e pazienza se Leopardi non se li è immaginati così. Io la sua testa me la immagino come un vulcano che sta per esplodere.
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Avevo accettato di partire … Mai mi ero piegato a sacrificare alla mostruosa assurda ragione. Nel 1963 partecipai alla Biennale di Parigi dove vidi per la prima volta le opere di Christo, che mi mettevano allegria e Pierre Boulez che ripeteva come un mantra “Schonberg est mort!”. Io tra me dicevo “Che ci faccio in mezzo a questi qui”. Di libri in vita mia ne ho letti pochi, ma quei pochi mi sono rimasti dentro. Quando lessi i Canti Orfici, pensai subito che la vita raminga di Campana fosse simile a quella di un “nevrastenico” come me. Anch’io sono stato sballottato per anni da una clinica psichiatrica ad un’altra e quando ero là dentro e mi capitava di guardare oltre le sbarre di una finestra tutto mi era indifferente, tutto era come il pantano dopo una nevicata e allora, anche se solo per un attimo, provavo il sollievo di chi è sereno e senza brutti pensieri.
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Ora sono qui insieme a Leopardi, dove lui è nato ed è vissuto come dentro una gabbia. L’ho voluto rappresentare così in questa litografia, lo sguardo che indaga da dietro il portone del suo palazzo, l’inferriata ancora sollevata ma pronta ad abbassarsi con un movimento improvviso e pesante, irrevocabile. Sulla ringhiera del balcone è appollaiato un uccello, il cui sguardo sembra ammiccare di sotto; il collo è proteso, le ali stanno per aprirsi. Volerà via, oppure si lancerà verso una preda già rassegnata? La mia mente però non è capace di restare per troppo tempo ferma a pensare, cerca sempre un pretesto che la allontani dai soliti vecchi fantasmi.
***
– Anche oggi Witold mi ha chiesto con insistenza di procurargli del veleno o una pistola.
– E tu che hai fatto?
– Per distrarlo ho provato a raccontargli la storiella che fece scattare nella mente di Cartesio l’idea su cui si basa il discorso del metodo, cioè quando vide il suo gatto rubargli gli occhialini dallo scrittoio.
– Ha sempre amato la filosofia, soprattutto adesso che si trova in questo stato. Dice che è l’unica cosa che abbia il potere di mobilitare lo spirito umano.
– Proprio così. Sono giorni che non parla d’altro.
Rita, la moglie di Gombrowicz – Pensate che ieri ha voluto a tutti i costi tenermi una lezione su Kant, nonostante faticasse terribilmente a respirare. Ogni qualvolta interrompeva il discorso per riprendere fiato, pensavo non sarebbe più riuscito a proseguire. Pur soffrendo in modo indicibile, era molto lucido nel suo argomentare. Ricordo le parole che ha detto alla fine, mentre la bocca gli si storceva per il dolore. “La nostra coscienza si pone dei problemi e alla filosofia tocca tentare di risolverli. È fatale”. Quest’ultima frase l’ha pronunciata come per farla ricadere appositamente su di sé, come fosse una sentenza.
– Adesso dov’è?
La moglie – È da ore che segue la diretta dello sbarco sulla luna. Quando mi sono alzata dalla sedia per venire qui mi ha afferrato per un braccio e, senza distogliere lo sguardo dallo schermo, mi ha passato questo foglietto.
– Vuoi leggercelo? – “Se Copernico ha fermato il Sole e fatto muovere la Terra, adesso comprendiamo che tutte le scoperte e le conquiste non sono solo fatti esteriori ma rivoluzionano completamente la concezione della coscienza, della relazione tra soggetto e oggetto, dunque dell’uomo e dell’universo”.
Il 24 luglio 1969 lo scrittore polacco Witold Gombrowicz moriva nella sua casa di Vence, poche ore dopo il rientro di Apollo 11 dalla missione lunare.
***
Papa Damasio – Ti ho nominato mio segretario perché tu potessi avere libero accesso alle Sacre Scritture, non per vederti oziare nei porticati o perché passassi ore appiccicato a questi antichi rotoli.
Girolamo – Con tutto il rispetto, Santità, sapete bene che avrei preferito continuare a esercitare il mio ufficio sacerdotale. Ora che mi avete affidato la traduzione e il commento anche dell’Antico Testamento, non ho più tempo per nient’altro.
Quello che chiami ‘altro’ sono Omero e Cicerone, vero? Credi che, mentre dormi o sei a spasso nel chiostro, io non legga tutte le pergamene che tieni qui?
So di essere prima di tutto un buon cristiano.
Se ti accosti ai libri mondani rinneghi la vera fede.
Allora dovrete fare in modo che mi allontani da questi che per voi sono ‘libri mondani’.
E come, secondo te?
Risarcendo nella giusta misura il tempo che passo chiuso in questa stanza.
Come osi parlarmi con tanta impudenza!
Non è impudenza la mia, Padre Santo, ma accortezza. L’altra notte ho sognato di essere al cospetto del trono divino e la voce che da lì proveniva mi diceva che, se apprezzo più gli scrittori pagani di quelli cristiani, è anche a causa di colui che non paga abbastanza i miei servigi. Ho ragione di pensare che il castigo del quale sarò fatto oggetto possa coinvolgere anche voi. Non credete che un accordo tra noi due ora qui possa rendere meno impervia la strada per il Paradiso?
Dio ha creato il mondo con tutte le Sue creature, e Suo Figlio ha corretto con il Proprio sangue i nostri errori. Mio buon Girolamo, tu hai avuto il grande privilegio di ascoltare un suggerimento dal Cielo e non è certo mia intenzione ignorarne i sacri dettami. Avrai ciò che meriti in termini di denaro non prima, però, di avermi descritto per bene le otto parti in cui è diviso lo scudo di Achille.
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Alberto Giacometti è nel suo atelier in Rue Hyppolite-Maindron 46, a Montparnasse, in mezzo a cumuli di oggetti ammassati alla rinfusa fra quei muri scalcinati. Un giorno disse che lì è come la parte interna del suo cranio. Sotto la finestra c’è un grande tavolo con dei flaconi di trementina vuoti, mucchietti di carta, tubetti di colore secchi, pennelli in disuso. Al centro della stanza piedistalli per sculture, con sopra dei lavori in corso d’opera. In un angolo, insieme a diverse figure in ferro, sta ancora sul cavalletto il disegno di una grande testa nera e informe. Il pavimento è cosparso di avanzi di creta e di gesso, ai piedi dei trespoli che reggono le sculture. Tutto testimonia di quel suo continuo, nevrotico gesto del fare e del disfare che già apparteneva agli antichi alchimisti, capaci di separare dal piombo della materia l’oro della figura umana.
È sera. L’oscurità avvolge la stanza rendendo più opache le sculture e più sfuggenti i contorni di quei corpi inanimati quando, all’improvviso, le orecchie dello scultore captano dei suoni. Prima un mormorìo sordo, compatto come uno sciame di api, poi via via le vibrazioni si fanno sempre più articolate fino a riprodurre parole e frasi scandite nel buio fattosi nel frattempo completo.
Una statua – La vita non deve trovare nessuna giustificazione per proseguire il suo corso; non ha bisogno di nessuna conoscenza per redimersi, nemmeno della materia più semplice.
Un’altra statua – Pensare equivale a lanciare dadi. È una folgorazione che ha bisogno di uno stile non sistematico, ma aforistico; come fossero lampi.
Giacometti – Ma che state dicendo, tutto ciò non ha fondamento. E poi non vi ho ancora finite. Questa è la cosa terribile: più si lavora a un’opera, più diventa impossibile terminarla.
Pronunciò quest’ultima frase a voce bassa, quasi nel timore di essere udito. Poi si avvicinò all’interruttore e accese la luce guardandosi intorno con aria stanca. Si accostò al quadro sul cavalletto e riprese a dipingere, ostinato, concentrandosi esclusivamente sulla testa.
– Va male, così male da non esserci più speranza.
– Non è vero. Stai facendo progressi.
Puntando una lampada sulla tela, vide che la testa si era fatta più lunga rispetto a prima ed era attraversata da linee grigie e nere, circondata da un alone di spazio indefinito.
Trascorsero dieci minuti.
– Guarda bene, adesso il naso è a posto. Hai fatto un altro passo avanti.
Sforzandosi di osservare con più attenzione, notava in effetti che la faccia adesso era meno nera, i lineamenti più spiccati e dietro le spalle lo spazio andava acquistando maggiore profondità.
– Che hai? – Mi prude una guancia; sono tutti questi colpetti di pennello che mi stai dando.
Continuò a lavorare per un po’ in silenzio, e più andava avanti più si accorgeva che le orecchie, la bocca e pure gli occhi assumevano sempre più quei contorni distinti che si possono vedere in un ritratto correttamente eseguito.
– Sei matto?
Passò due o tre volte sulla tela lo straccio sporco di creta. Poi girò di colpo le spalle, aprì l’uscio e si diresse verso il caffè senza dimenticare, lungo il tragitto, di dare una sbirciata alle edicole che riportavano le edizioni serali dei quotidiani.
***
INTELLETTO – La realtà va interpretata con lucidità e chiarezza. Le cose devono essere circoscritte e analizzate singolarmente una ad una, classificate e sottoposte a leggi oggettive. Separare, distinguere e analizzare: questo è il mio compito. Di un individuo non importa il suo vissuto, ma ciò che lo rende parte di un sistema universale.
RAGIONE – Le “cose” a cui tu fai riferimento devono essere sottoposte a tutta una serie di approcci che non arrivino direttamente ad un esito preordinato, ma che conducano alla meta attraverso gradi di complessità crescenti e tramite sviluppi che siano concatenati l’uno all’altro: da A a B, da B a C, ecc.
STUDENTE – Voi siete strumenti in mano alla tecnica. Quelli che hanno permesso alla civiltà – non certo quella gran cosa che ci hanno voluto far credere che fosse – di crescere e svilupparsi accumulando sapere scientifico. Produrre e immagazzinare dati al fine di aumentare le conoscenze negli svariati ambiti della scienza: questo è stato il vostro compito dall’alba della civiltà. Così strutturata, la società che avete contribuito a creare non permette l’affermarsi dello spirito.
SPIRITO – Dal momento che sono stato chiamato in causa, mi corre l’obbligo di intervenire in questa discussione. Comunemente mi si contrappone alla materia, all’immanente o, peggio, mi si paragona al misterioso e all’esoterico. Nulla di più distante dalla verità. Già a partire dalla più antica tradizione cristiana sono stato considerato la relazione che sta alla base della divisione. Avere una posizione spirituale nei confronti del mondo significa prima di tutto sentirsi unito all’altro in una forma originaria, che precede le successive diversificazioni in ambito politico, economico e sociale. Una vita vissuta nello spirito vuol dire, in prima istanza, ritrovare l’altro in me stesso e me stesso nell’altro. L’anima va uccisa in quanto ego contrapposto al noi; il chicco di grano deve morire per farsi messe.
AKIRA KUROSAWA – Chiedo il permesso di inserirmi nella vostra dotta conversazione, dal momento che con il mio Rashomon ho tentato di mettere a fuoco la realtà analizzando un fatto alla luce dei diversi punti di vista appartenenti a svariati individui. Confesso, però, di aver capito che niente di ciò che stavo facendo avrebbe avuto senso se non nell’attimo in cui mi resi conto che il neonato che avevo esposto alle intemperie nella scena di apertura strillava per il freddo e forse anche per la fame e che la cosa che andava fatta senza indugi era di metterlo al riparo e riconsegnarlo al più presto nelle braccia di sua madre.
***
Ho sonorizzato il film muto di Yasujiro Ozu Una locanda di Tokyo. Devo dire che mi è piaciuto fin dall’inizio. Sono riuscito a creare i primi accordi immediatamente sulle immagini di quella realtà urbana, fatta di caos e disordine. Si vedono cantieri con grandi ciminiere, fili montati malamente sui tralicci, grosse bobine di legno che servivano per arrotolare i cavi dell’alta tensione e su cui ora stanno seduti a parlare i due figli dell’operaio; poi ancora oggetti di ogni sorta abbandonati tra le erbacce ai bordi di stradine polverose. L’industrializzazione si sta facendo largo, ma in modo disorganizzato, che deve lottare con la natura. Accordarsi con una pellicola così lontana nel tempo e dai nostri modi di comunicare è difficile, e sarà per questo che mi sentivo al posto di Marco Polo quando descriveva le città al cospetto di Kublai Kan: gesti, salti, versi di animali, oggetti stravaganti che tirava fuori dalla sua bisaccia, sempre con la paura di irritare l’imperatore. Che era la stessa mia di fallire. Dove credo di essermela cavata è verso la fine, quando l’uomo incontra la madre della bambina nella locanda malfamata, dove lei lavora per poter far fronte alle spese necessarie per curare la figlia malata. Ho scandito con un ritmo sincopato le molte tazzine di sakè che quello buttava giù una dopo l’altra fino ad accasciarsi, mentre la donna scoppiava in un pianto irrefrenabile. L’inferno non è qualcosa che verrà, ma è quello che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Non possiamo cancellarlo, ma possiamo almeno interromperlo, come fa il vagabondo Kihachi che decide di rubare del denaro per farlo avere alla madre, consegnandosi poi alla polizia. “Così è stata salvata un’anima”, recita la scritta di chiusura e io non sarei stato in grado di comporre neppure un accordo in più.
Enrico Marià e Nuziale – Il canto che fa le veci dei cani latranti
Quando la carne ferita e la ferita psiche non hanno bisogno di dirsi con chiarezza, ma parlano, pulsano nei significanti musicali del poetare, siamo di fronte a un’opera creativa all’altezza dei grandi. Nel tessuto verbale dei versi di Enrico Marià non ci sarebbe bisogno di ravvisare significati, com’è il significante tanto saturo foneticamente da bastare al lettore per accusare la fitta al cuore, la rottura della scapola, l’incrinamento della vertebra. È nel verbo, nel significante, prima ancora che nell’immagine evocata, che Enrico Marià parla di noi. Traduce in versi i nostri movimenti convulsi durante le notti da pitbull, quando addormirsi è fatica ma stare svegli è dare corda alle ossessioni, alla morte che ci vive dentro, insondabile dimensione, non clinicizzabile, solo esistente come patina membranosa ad avvolgerci le iridi, col mondo deformato dalla morte che ci portiamo appresso, dai plurimi cadaveri che ci trasciniamo in quello che non è certo incedere, che certo non è cammino, ma è lo strisciare di certe lumache che si lasciano dietro parti di loro, parti di bava, morendo lentamente, smettendo. Tutti traduce Marià, se stesso compreso.
Nuziale, edito per La nave di Teseo (2025) si apre con l’esergo di Cortàzar. È Marià che parla attraverso il grande poeta e romanziere. È Marià che prega le maschere di cera degli dei affinché il volto ipocrita che mostriamo al mondo ci venga estirpato, finché non saremo tanto nudi da non poter fare altro che gridare il nostro vero nome, e non il destino che i padri ci hanno scritto sulla nuca.
È qui che vengo a perdonarmi
dove i caprioli si incastrano
nelle reti di protezione
subendo per liberarsi
l’amputazione delle zampe.
Le poesie di Marià, così come ne La direzione del sole, non hanno titolo. Forse, immagino, perché il corpus poetico raccolto è un unico guaire, un unico essere resuscitati, suddiviso in frangenti che appartengono allo stesso disegno.
Notiamo l’attenzione alla metrica, l’alternanza tra perfetti novenari e ottonari, con gli accenti sulla quarta oltre che gli ictus su ottava e settima.
Laddove per liberarsi dalle catene serve amputarsi le gambe, il poeta viene a perdonarsi. Ché c’è qualcosa da espiare, e quel qualcosa lo espieremo muovendo nei colori del mondo trascinandoci i nostri osceni moncherini. Lì ci perdoniamo, quando il sacrificio di un arto deputato al cammino il cammino permette. Il tema del dolore psichico, dell’espiazione, della mano che trae dal terreno un cadavere che nel terreno era infossato. Perché quel cadavere ha ancora da vivere, e deve vivere. C’è l’obbligo morale di esserci, che è anche l’obbligo estetico di chi è bello e – Nietzsche – tragico.
E poi c’è l’infanzia che noi, “figli dei cani”, non abbiamo mai avuto. Quel nugolo di anni che si muovono come moscerini vorticanti idioti attorno al neon. Inintelligibili nella loro forma individuale, i moscerini della nostra infanzia, pure, nell’insieme, disegnano il trauma di chi è stato abusato, di chi non è stato perdonato, dei bimbi a cui è stata tolta la voce e che, in seguito, per parlare, come Marià e tanti altri nostri consimili, hanno dovuto ad hoc costruirsi un linguaggio. Come Joyce: il padre alcolista non gli ha dato parola; Joyce, la parola, l’ha edificata. Così Marià. Che scrive:
Premio ultimo
donami indietro
trasparente a mia madre
perché per intossicazione
del corpo violato
nessuno sguardo può
l’amare come i bambini
che so amati, solo,
da certe angolazioni.
Più facile sarebbe stato, è Marià, se nostro padre ci avesse dato più baci. Ci avesse voluto meno identici a lui. Non ci avesse apposto la museruola affinché non potessimo mordere, laddove mordere era l’unica urgenza di noi, di noi lettori di Marià che viviamo come Marià, che da Marià ci sentiamo tradotti, di noi – di nuovo – figli dei cani.
Marià è uno Zarathustra che arranca. Che non scende dalla montagna, perché la discesa è faticosa, e le gambe, il profeta lo sa, non reggerebbero, il passo sarebbe un franare in detriti di ossa, perché di ossa e carne e sperma e sangue si parla sempre quando si ha a che fare con Marià. Fedele, in questo e in altro, a Cioran, che diceva: Tutto quel che esula da sangue e sperma è un pretesto. La poesia di Marià esautora l’orpello, abolisce il decorativismo, per giungere il più vicino possibile alla radice del male, che pure è da per sempre differita, perché iterata e scomposta nel tempo. Ma, profeticamente, Marià ci dice che dei cadaveri che si trascina avrà lo stesso sangue, il sangue intonato.
Così Marià:
Stimmate dei nomi
abiterò corpo lupo
di tutti i miei morti
il sangue intonato.
E, poi, le prime allusioni a quando fummo (perché il plurale è d’obbligo quando una voce così dolente riesce a raccogliere in sé il latrato di tutti noialtri cani) violati. Allusione leggera, che a fortiori risulta drammaticamente epifanica:
Con gli stracci e la candeggina
raccogliere il vomito dei cani
che mai, in ginocchio, mi era toccato
l’avere una cosa così bella d’amore.
Perché, dopo l’orrore inflitto, immeritato, che ci ha reso colpevoli, che ci ha ucciso, che ci ha resuscitato perché lo dicessimo, e lo dicessimo non solo per noi ma per tutti, il vomito dei cani è comunità, è una struttura sanitaria dove i figli dei cani non possono, non vogliono, non devono giudicarsi a vicenda, ma solo pulirsi con la candeggina quando uno di loro vomita il male.
E lo sa chi ha vissuto la vita guardando il cielo da finestre sbarrate. Peraltro, sempre arrugginite. Arrugginite sbarre a sezionare il cielo, a frammentarlo.
E poi Marià decide che l’allusione non è più bastevole.
La poesia si commenta da sé, e ho timore a parlarne.
Anche gli abusi
sono una relazione
e perché di mio padre
non posso rimanere incinta
è la felicità di morire
bellissima malattia
la morte privilegiata.
E poi:
Anti-luce, le linee del metadone
schiacciano sotto i denti le croste.
E sì, lo sapevo di non doverti ingoiare,
solo eri tanto buono e così mamma
non doveva le lenzuola e il pulire.
Nuziale, ad occhio attento, gode di struttura narrativa che, dopo la morte mostrata e il resuscitare, invita a un esserci che, nella sua vanità, può essere esteticamente bellissimo, e giustificante, se è vero ciò che diceva Nietzsche ne La nascita della tragedia, cioè che, intesi come fenomeni estetici, la vita e il mondo sono eternamente giustificati. L’esserci che Marià rivendica, la vita ammazzata che rivendica, la vita da non morto che Marià rivendica, si avverte tutta nella poesia che segue:
Nel disabitato qui, avere
il coraggio delle puttane
per morire l’anagrafe, il
disprezzo delle persone
che ci dovevano amare.
Ironico, sfogliando l’ultima pagina ho notato che al suo interno c’era la nuova terapia farmacologica decisa quando, in pronto soccorso, leggevo Nuziale. Ed era così bello che, in realtà, fosse Nuziale a leggere me. Delle volte ho l’impressione di non essere mai nato, ma che da morto mi abbiano tratto dalla fossa, costringendomi a un vagare zombi. Ma quando leggo, quando leggiamo, noialtri che dei cani siamo figli e fratelli, Enrico Marià, il più grande poeta che abbiamo, parla di noi, ci traduce, ci evita, come diceva Carmelo Bene, tutte le spiegazioni che ci ammazzano.
Potessi parlare tramite i versi di Marià, lo farei; di me ha già detto tutto.
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Marco Sbrana (26/03/2003) studia scrittura creativa presso la scuola Mohole a Milano, dov’è nato. È nella redazione di Zona di disagio e Evidenzialibri. Cura la rubrica settimanale di cinema per Odissea di Angelo Gaccione e collabora con il blog Scritture di Marco Ercolani. Ha scritto un romanzo sui disturbi mentali, inedito, e una raccolta di poesie di prossima pubblicazione. Cura il blog di cultura e critica cinematografica Carrello a seguire.