MARGINALIA. Ercolani, Zuccarino

[Quarta di copertina]

I testi inclusi nel presente volume, realizzati lungo un arco temporale ampio (dal 1993 al 2021), evidenziano come un’amicizia possa esprimersi anche tramite letture critiche, con le quali i due autori scandagliano e illuminano a vicenda i rispettivi lavori. Trovare le chiavi che dischiudano le porte dei testi altrui significa intuire gli stessi abissi nel mistero della scrittura, ma al tempo stesso compiere un’esplorazione nitida, acuminata, immune da identificazioni proiettive. Ogni testo è un cristallo che, grazie all’atto critico, si trasforma in magnete, generatore di irradiazioni nuove. Un libro come Reciproche consonanze non solo produce, ma esige queste irradiazioni. Due “schegge” tratte dal volume confermano la vicinanza etica che, in trent’anni di conversazioni e riflessioni, ha potuto stabilirsi fra gli autori. «In conclusione, quanto si delinea nel libro di Zuccarino non è il fascino intrigante e letterario di una scrittura critica, qui immune da ogni sorta di narcisismo stilistico, ma semmai la nitidezza e il rigore con cui viene espressa un’idea: l’artista, per essere tale, deve lavorare ai confini di se stesso e dello scacco della propria opera, portando la sua ricerca a un eccesso anche sgradevole di verità e di consapevolezza, benché la scrittura sia, come sempre, finzione. In quest’ottica, il critico non rassicura nessuno, non definisce nulla, e ci conferma che il testo non è mai un suolo fermo ma una superficie che nasconde abissi» (M. E.). «Ercolani, da parte sua, ritiene corretta una posizione intermedia, che rifiuti l’integralismo della ragione senza però lasciarsi catturare troppo dalla follia, perché sia nell’uno che nell’altro caso l’accesso all’attività creativa rischia di essere impedito. […] Per chi intende fare arte, si tratta dunque di accettare un momentaneo esodo dal mondo rigidamente controllato dalla razionalità, senza però perdersi in maniera durevole nella dimensione dell’irrazionale» (G. Z.).

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Interrotti, mai compiuti*

I frammenti di Giuseppe Zuccarino, i suoi marginalia (le rare pagine che egli scrive, non più di cinque nel corso di ogni anno) ci guidano verso una zona d’ombra della scrittura critica, dove il lettore ha occasione non tanto di ampliare la conoscenza di un testo quanto di seguire le “illuminazioni” che il critico dissemina – su autori, opere, destini – come un viaggiatore che, nell’attimo della frase scritta, raccoglie la scheggia suggestiva, l’annotazione di rilievo. Si tratta di un lavoro delicato e severo, da incisione o bassorilievo, che è lui stesso a descrivere: «La scrittura frammentaria è legata, in fin dei conti, alla maniera stessa che l’uomo ha di riflettere e di fissare le proprie idee sulla carta: “Non c’è pensiero che sia, per sua natura, l’ultimo pensiero possibile. Noi siamo sempre interrotti, mai compiuti” (Paul Valéry)». Questa “incompiutezza” determina il percorso dello scrittore di frammenti, ma non ne insidia il rigore, al contrario lo accentua, anche dove i temi sono spesso instabili, magmatici, traversati da ferite e da slanci. Scrive Zuccarino: «È giusto che il critico punti soprattutto sulla lucidità, ma deve farlo sapendo che potrà raggiungerla solo in parte. Essa, infatti, sarà sempre insidiata dal non-sapere, dall’incertezza, dai desideri, dai timori. Persino dalla follia, di cui Foucault (in una conferenza pubblicata postuma) dice che “è una funzione autonoma e costante del linguaggio nei riguardi di se stesso – come la critica – come la morte”». Se tra le funzioni del linguaggio dominano la follia e la morte, l’indagine del critico è razionale e irragionevole, dominata da un amore assoluto per la parola in cui si struttura ed esplode il linguaggio: «La scrittura frammentaria, in quanto si nutre di altri testi, rispecchia il meccanismo stesso della lettura». Il lettore di frammenti si trova così impegnato, iniziando la lettura, in un gioco di rifrazioni e di specchi che lo guida verso i libri amati, ma lo trascina anche dentro una sottile, anomala inquietudine. «I frammenti nascono talvolta in forma manoscritta, affidati al foglietto volante o al taccuino. Si tratta di un modo per suggerire il legame col corpo di chi scrive, ma al tempo stesso la loro apertura sull’imprevedibile».

Chi cercasse in questa scrittura una traccia autobiografica resterebbe deluso: o meglio, dovrebbe capire che la biografia dell’autore è tutta racchiusa nei libri che sceglie di leggere o di cui gli piace scrivere. Non è una forma di pudore, ma una precisa volontà di rappresentare ossessioni a cui è estraneo il peso dell’io. «I frammenti sono radicalmente diversi dalle annotazioni diaristiche, dunque sarebbe vano cercare in essi aneddoti biografici o confidenze personali. Dell’esistenza di chi li scrive, essi registrano piuttosto gli intervalli, gli interstizi, le crepe. Ma, come osservava Canetti, ciò può essere di qualche interesse per il lettore: “Si direbbe che le crepe appartengano a tutti, così ciascuno può prendersi senza cerimonie la propria parte. Non c’è da dolersi per la perdita […] di una certa unitarietà immediatamente percepibile, poiché la vera unità di una vita è segreta ed è tanto più efficace là dove involontariamente si cela”». Il preciso invito di Zuccarino è quello ad uscire da sé: vedere il proprio mondo moltiplicarsi è una soluzione, felice e infelice, possibile in modo riflessivo attraverso la lettura e la scrittura dei libri.

«Gli scrittori, tranne rare eccezioni, si affaccendano per se stessi o per nulla, giacché i libri che pubblicano sono destinati al più profondo oblio. Vale per loro la frase di Blanchot: “Scrivere è andare, attraverso il mondo delle tracce, verso la cancellazione delle tracce”». In questo frammento è racchiusa la poetica dell’autore: lavorare serenamente, senza inutili illusioni ma con estremo rigore, alla propria traccia scavata nella sabbia, che presto sarà cancellata. Non sarà mai fuori luogo parlare, per Zuccarino, di una scrittura sempre ostile alla vanità narcisistica che è un rischio implicito in ogni scrittura personale. Come scrive Edmond Jabès: «Per te, e solo per te, il dolore dei ceri, l’inno alla roccia, la carta inviolata del segno». In altre parole, la riservatezza del dolore e la necessità del silenzio. Di questo silenzio, il critico è uno dei massimi interpreti, sia sul piano dell’oralità che in quello della scrittura: «Discorso orale e scrittura sono situati su piani diversi, nel senso che risulta impossibile improvvisare a voce ciò che, in maniera più precisa e meditata, si fissa sulla carta. In tal senso, è esatta l’asserzione di Char (citata da Roger Laporte): “Ciò che scriviamo, non possiamo dirlo. Se potessimo dirlo, non lo scriveremmo”». Ma intorno a questo silenzio ricco di parole si continua a ragionare.

In uno dei suoi frammenti più originali Zuccarino, citando Benjamin, arriva a formulare una delle sue principali dichiarazioni di poetica. Ascoltiamolo: «Nel 1934 Walter Benjamin si era sottoposto a uno dei suoi vari esperimenti con le droghe, nel caso specifico la mescalina. Sotto l’effetto di essa (secondo quanto riferito da un testimone, Fritz Fränkel), Benjamin aveva proposto “di variare l’interrogativo piuttosto irrilevante di Amleto, ‘Essere o non essere’, in ‘Rete o mantello’, questo è il problema”. In un certo senso, c’è del vero in tale frase. Noi infatti siamo di solito imbrigliati dalle necessità e abitudini della vita quotidiana come da una rete. È solo nei momenti migliori che riusciamo a dominarle, volgendole ad un fine diverso. Allora ci sembra che le circostanze si pieghino al nostro volere, e che possiamo avvolgerci sovranamente in esse come in un mantello». Ecco che il critico qui ci guida con nitidezza verso la mèta: se la scrittura è un’arte del segreto, da praticare nei confini di un foglio e di una stanza, dentro la propria immaginazione e il proprio pensiero, questo “segreto” non è un dolore subito e tormentoso, ma una possibilità da sviluppare, una speranza dispiegata nella non-speranza, una forma di magia che la scrittura, nelle sue volontarie e involontarie metamorfosi, pratica di continuo, così come si onora una promessa formulata a se stessi.

«Nella pratica dei frammenti non si può in alcun modo seguire una traccia prefissata o prevedere quel che verrà dopo. Viene da pensare alle parole del narratore in un romanzo di Auster: “Devo inventarmi la via a ogni passo, e ciò significa che non sono mai sicuro di dove mi trovo”». Zuccarino non è mai sicuro di dove si trova, ma è sempre sicuro di essere pronto a testimoniare per la propria libertà di scrittore: «È ovvio che la fissazione sul fatto di scrivere non costituisce, di per sé, una garanzia sulla qualità dei testi prodotti. Ma in molti casi, invece di costituire un difetto di cui sarebbe preferibile sbarazzarsi, è proprio l’opposto. Come diceva il critico d’arte Carl Einstein, “l’ossessione rappresenta una piccola chance di libertà”». Direi non piccola, se ha permesso a Zuccarino di attraversare decenni di scrittura restando vicino ai prediletti compagni d’arte, e rendendo sopportabile a se stesso la temibile e mediocre realtà, tanto avversata da Čechov. «Proust osservava saggiamente che “siamo tutti costretti, per rendere sopportabile la realtà, a coltivare in noi qualche piccola pazzia”. Forse scrivere è una pazzia non piccola, ma proprio per questo può rivelarsi tanto più efficace». E scrivere è raggiungere una propria idea di bellezza, attraverso l’ironica arte di parlare nel tacere, ironica ma eversiva, perché giudica con severa indifferenza le ipertrofie del linguaggio. Osserva Nietzsche: «La bellezza ha qualcosa da dirci, per questo restiamo in silenzio» (M.E.), (2020)

* I testi citati sono tratti da Rifrazioni e altri scritti (Novi Ligure, Joker, 2017) e da altri frammenti (2017-2019) inediti in volume.

La luce ustoria

Una delle caratteristiche dell’opera di Marco Ercolani consiste nella sua capacità di turbare la configurazione dei generi letterari. La cosa non stupirebbe se egli si richiamasse alla linea delle avanguardie, vecchie o nuove, ma è facile constatare che non è così, che la sua scrittura, pur non essendo né aulica né inamidata, resta sostanzialmente classica. E tuttavia Ercolani ha pubblicato romanzi, racconti e saggi che non sono mai esattamente tali, che a un esame ravvicinato si rivelano qualcosa di più composito o spiazzante.

Ciò vale anche per un libro come Sentinella, che solo in prima approssimazione potrebbe essere definito una raccolta di aforismi1. Certo, se riteniamo che l’aforisma sia caratterizzato in primo luogo dalla brevità, possiamo dire che il volumetto rispetta appieno la regola, poiché l’autore sembra proporsi di condensare le frasi, anzi la frase (visto che perlopiù i testi ne comprendono una sola), nel minor numero possibile di parole. Tuttavia proprio quest’estrema condensazione finisce col condurlo vicino a un’espressione di tipo poetico, che ricorda ad esempio i versi aforistici di Char o le sentenze liriche di Jabès, ma senza affatto imitarli direttamente. Del resto, nessuno scrittore autentico è davvero imitabile: come nota Ercolani, «gli stili sono strumenti accordati da interpreti diversi»2.

Per cominciare ad entrare nel libro, conviene interrogarne lo strano titolo. L’immagine della sentinella compare a più riprese nel volume, persino nei luoghi più esposti e strategici, ossia l’inizio e la fine. Nell’aforisma di apertura (che è poi, come accade non di rado, anche un micro-racconto) si legge infatti: «Disegno sul muro, con temperini spuntati, città inutili e favolose, composte di nuvole o di foglie. Di quelle città, dove sono sveglio e dove dormo, sono io la sentinella», mentre l’aforisma conclusivo si limita a ribadire: «Sono io la sentinella»3. L’uso della prima persona evidenzia come Ercolani si identifichi in quella particolare figura, ma ci mostreremmo ingenui se credessimo di sapere in anticipo cosa essa rappresenti per lui. La sua sentinella, infatti, è sì ligia a un dovere, obbedisce ad un ordine interiore, ma ignora ogni disciplina di tipo militare. Accadeva la stessa cosa anche in un precedente libro, Il mese dopo l’ultimo4, dove era in causa il personaggio di un soldato che solo ignorando gli ordini ricevuti e abbandonando il posto assegnatogli riusciva a trovare la propria vera strada. Analogamente, qui possiamo leggere: «La sentinella ha il dovere non di proteggere dal fuoco ma di esporre alle fiamme», oppure «la sentinella aprirà le porte della casa che custodisce, se sarà necessario, e sarà sostituito dal ladro»5. Dunque il suo ruolo non è affatto quello di garantire il mantenimento dell’ordine, ma all’opposto di destabilizzare sé e gli altri: «La sentinella è in bilico, sulla soglia, come all’inizio di una catastrofe che prevede due destini opposti: essere placata dalla logica del delirio o diventare irrequieta materia di forme»6.

Una volta che si sia compresa la funzione della figura eponima, non sorprenderà più il fatto che il volumetto di Ercolani rinunci a perseguire il sogno della «grande opera», quella che un tempo certi scrittori aspiravano a realizzare: «Oggi il Libro è svuotato, graffiato, smascherato anche delle ultime parole, che restano rapidi arpeggi sulle macerie»7. È sentinella chi sa che il tempo dell’opera suprema, dell’imponente e sontuoso edificio di parole, è trascorso, ma non per questo porta il lutto di tale perdita. Ercolani cita una frase di Kafka, secondo cui è «come se in una casa che sta per essere distrutta dalle fiamme ci si ponesse per la prima volta il problema della sua architettura»8. Solo quando lo scrittore capisce che non può più illudersi di costruire l’opera-mondo, il libro destinato a inglobare tutto, gli diviene possibile dedicarsi ad un compito meno ambizioso: riutilizzare le macerie e i tizzoni del palazzo incendiato per costruire un nuovo edificio, minuscolo ed essenziale. In tal senso, gli aforismi di Sentinella sono definibili come frammenti, essendo ciò che resta dopo il crollo storico della «grande opera».

Non è un caso che Ercolani parli anche delle «rovine dell’io»9. Occorre, però, capire bene cosa intende. Negli ultimi due secoli, sono stati molti i filosofi, gli psicoanalisti e i letterati a mettere in dubbio il carattere unitario della personalità individuale. Ercolani concorda senz’altro con l’opinione di Valéry, secondo cui «essere umani vuol dire sentire vagamente che c’è in ognuno qualcosa di tutti e in tutti qualcosa di ognuno. […] C’è di che passare dall’uno all’altro; e forse l’essenza stessa del vero Io è questa potenza di trasformazione»1010. Dunque la perdita dell’io chiuso su di sé equivale, a ben vedere, ad un’apertura di possibilità, in quanto dischiude la prospettiva di un io plurale. Non a caso Ercolani ama parlare con la voce di altri, praticando spesso il genere dell’apocrifo, con un’inventiva e una potenza che è lecito definire poetiche, se prestiamo attenzione a quel che asserisce Baudelaire: «Il poeta gode dell’incomparabile privilegio di poter essere, a piacere, se stesso e altri. Come le anime erranti che cercano un corpo, entra, quando vuole, nel personaggio di ognuno»1111. Tutto ciò ci viene ricordato, sia pure fuggevolmente, in Sentinella, dove leggiamo: «L’ossessione è mantenere la propria voce nel frastuono che la cancella, trasformandola in un’altra voce»; «restare suscettibili di trasformazione: questo è il segreto»; «scrivere per la gioia delle proprie maschere»; «eco di io multipli, l’io»; «è l’opera stessa a inventare l’io nel quale vuole esprimersi»1212.

Il privilegio concesso alla pluralità vale anche per i temi affrontati nel libro: incontriamo infatti minuscole schegge narrative, riflessioni sulla condizione dello scrittore, metafore poetiche che spesso celano al proprio interno implicazioni teoriche. A quest’ultima categoria appartengono (per limitarci a un solo esempio, fra i tanti possibili) le immagini, assai frequenti, relative alla luce. È vero che Ercolani stabilisce spesso un rapporto di interazione fra essa e il suo apparente opposto, vale a dire il buio: «Il punto più in ombra corrisponde al centro della luce più intensa»; «per chi esige una certa luce, l’ombra non sarà mai sufficiente»1313. Tuttavia ci imbattiamo qui in una particolare, e talvolta crudele, insistenza della luce. Scriveva Kafka nei suoi diari: «L’arte è un essere abbagliati dalla verità. Di vero non c’è altro che la luce proiettata sul viso, che arretra in una smorfia di sbigottimento»1414. Pur senza riprendere, come lo scrittore praghese, la tradizionale associazione tra la luce e la verità, Ercolani trova accenti molto simili ai suoi: «L’arte è uno stato di esposizione alla luce, un acuto scorticarsi, un perenne stordimento a cui dare voce con parole frantumate ed esatte»1515.

In Sentinella, la luce appare al tempo stesso aggressiva e salvifica: «Le luci. Minacciose, inesatte, violente. Poi precise, ma solo per individuare il precipizio»; «mi salva dalla morte una parola a cui non hanno tolto la luce. Apro gli occhi: scintilla come una lama»1616. Ciò che l’intensità luminosa preannuncia è anche l’incendio: «Centinaia di vecchie finestre, nel bosco, una casa circondata da alberi tutti coperti di carta d’alluminio. Un bagliore di specchi. Era la casa del costruttore visionario Clarence Schmidt, misteriosamente bruciata nel 1968»1717. Sono cose che possono accadere, ma vanno accettate, perché «sognare il fuoco significa disamorarsi di ogni architettura eterna»1818. L’incendio, infatti, non va visto solo come negativo: è in causa un «fuoco che arde e insorge, senza incenerire», e occorre saper sostare «nel chiarore dell’incubo, vicini alla stessa fiamma»1919. È questo il compito della sentinella, di colui che, come già sappiamo, «ha il dovere non di proteggere dal fuoco ma di esporre alle fiamme»2020.

Non dissimile è il ruolo dello scrittore, che ugualmente deve tenersi in prossimità di questa luce ustoria, praticando «una scrittura errabonda, vigile ma dormiente, disattenta ma lucidissima» e continuando senza mai desistere a «rileggere sogni già sognati. Comporre libri con vana ostinazione»2121. Certe volte si accorgerà di essersi eccessivamente accostato alla fonte di calore: «Questa fiamma brucia troppo forte qui, accanto alla mano, e non posso avvicinare le dita al foglio»; altre volte saranno i vocaboli stessi a rischiare di sparire senza lasciare traccia: «Se la luce che arriva sul foglio fosse tanto forte da cancellare le parole…»2222. Ma anche quando si trova costretto a confrontarsi con una pagina che sembra volergli opporre il proprio rovente candore, lo scrittore sa che tale situazione non durerà a lungo, perché «il foglio bianco nasconde parole non nate»2323, e spetta proprio a lui farle emergere (G.Z.), (2012)

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1 M. Ercolani, Sentinella, Bazzano, Carta Bianca, 2011.

2 Ivi, p. 13.

3 Ivi, pp. 6 e 74.

4 M. Ercolani, Il mese dopo l’ultimo, Genova, Graphos, 1999.

5 Sentinella, cit., pp. 8 e 9.

6 Ivi, p. 17.

7 Ivi, p. 13.

8 Franz Kafka, Frammenti da quaderni e fogli sparsi, in Confessioni e Diari, tr. it. Milano, Mondadori, 1972, p. 831.

9 Sentinella, cit., p. 10.

10 Paul Valéry, Mauvaises pensées et autres, in Œuvres, vol. II, Paris, Gallimard, 1960; 1993, p. 862 (tr. it. Cattivi pensieri, Milano, Adelphi, 2006, p. 126).

11 Charles Baudelaire, Les Foules, in Le Spleen de Paris, in Œuvres complètes, vol. I, Paris, Gallimard, 1975, p. 291 (tr. it. Le folle, in Lo Spleen di Parigi, in Opere, Milano, Mondadori, 1996, pp. 400-401).

12 Sentinella, cit., pp. 8, 46, 47, 48, 57.

13 Ivi, pp. 57 e 59.

14 F. Kafka, Gli otto quaderni in ottavo, in Confessioni e Diari, cit., p. 726.

15 Sentinella, cit., p. 10.

16 Ivi, pp. 9 e 74.

17 Ivi, p. 11. L’americano Clarence Schmidt (1897-1978) è un personaggio realmente esistito, un esponente dell’outsider art, costruttore di edifici realizzati con materiali di recupero.

18 Ivi, p. 45.

19 Ivi, pp. 13 e 27.

20 Ivi, p. 8.

21 Ivi, pp. 20 e 45.

22 Ivi, pp. 22 e 6.

23 Ivi, p. 45.

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I testi sono tratti da: Marco Ercolani, Giuseppe Zuccarino, Reciproche consonanze, I Libri dell’Arca, Joker, Novi ligure 2025.

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