DA LUOGHI DISABITATI. Massimo Barbaro

Raccogliere pagine è un atto di pietà. Bisogna avere pietà per il proprio passato. Si stendono veli sui volti, si lavano corpi., li si lascia al loro destino di dissoluzione nel migliore dei modi possibili (ove si può). Sarebbero, sono, gesti inutili, ma carichi di una forma tutta particolare di affetto rispettoso; l’affetto che non è più possibile; che viene consegnato ad un’istanza superiore, avvolto nel rispetto che ne conserverà le forme, e forse il ricordo.

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Da Aporie

Scopro di non saper più parlare. Di smarrire le srade. Di voler condividere (senza sapere bene cosa). Ciclicamente, sento di dover uscire dal deserto, che non è quello della solitudine e del silenzio. Tanto vale tornare. Uscire?

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C’è stato un tempo in cui il nulla prorompeva in mezzo all’essere come una bestemmia, sconvolgendo le fondamente e portando distruzione. Poi c’è sttato il tempo del nulla vissuto come rimedio all’essere nei momenti di tempesta. Ora il nulla si sovrappone all’essere, e questo si mescola al nulla, spingendo le estreme possibilità della loro indifferenza. L’essere è il nulla, nulla è. E ora ciò avviene semplicemente, senza il sacrificio estremo dell’essere e senza il suo temporaneo appannamento. Impersonalità. Inpermaneneza. L’essere non è, naturalmente. Tutto è privo di senso, con una levità, una leggerezza inaudite….

COMICO ASSOLUTO E IRONIA. Giuseppe Zuccarino

1. Charles Baudelaire ha dedicato un importante saggio al tema della comicità, De l’essence du rire1. In esso, il poeta esordisce in maniera inattesa, specie se si considera la propensione all’umorismo (espresso perlopiù tramite l’ironia) che trapela da molti suoi scritti. Egli infatti formula un’energica condanna morale di quel particolare comportamento umano che è costituito dal riso. A suo giudizio, l’atto di ridere non si addice a una persona saggia, che dunque dovrebbe astenersi da esso, come pure dagli spettacoli mondani e dalla concupiscenza. Assumendo una prospettiva di tipo cristiano, il poeta chiama in causa il peccato originale e sostiene che «il riso umano è intimamente legato all’evento di un’antica caduta, di una degradazione fisica e morale. […] Nel paradiso terrestre, ossia nel luogo in cui all’uomo sembrava che tutte le cose create fossero buone, la gioia non consisteva nel riso»2. Se l’atto di ridere non è ispirato da Dio (si dice persino che Gesù non abbia mai riso), lo sarà dunque dal suo opposto, vale a dire dal Diavolo: «Ciò che basterebbe a dimostrare che il comico è uno dei più chiari segni satanici dell’uomo e uno dei tanti semi racchiusi nella simbolica mela, è l’accordo unanime dei fisiologi del riso sulla causa prima di questo fenomeno mostruoso»3. Tuttavia, mentre secondo i fisiologi il riso deriva dalla superiorità, il poeta corregge tale teoria dicendo che non è in causa una superiorità effettiva, ma solo il fatto di credersi migliori degli altri, idea di per sé diabolica.

Ciò riguarda anche la letteratura: «La scuola romantica, o, per meglio dire, una delle sottoclassi di essa, la scuola satanica, ha ben compreso la legge primordiale del riso; o perlomeno, anche se qualcuno non l’ha intesa, tutti, persino nelle loro più grossolane stravaganze ed esagerazioni, l’hanno sentita e applicata con esattezza. Tutti i miscredenti da melodramma, maledetti, dannati, fatalmente segnati da un ghigno che giunge loro fino alle orecchie, restano nell’ortodossia pura del riso. E d’altronde, sono quasi tutti nipotini legittimi o illegittimi del celebre viaggiatore Melmoth, la grande creazione satanica del reverendo Maturin»4. Il riferimento è a un’opera del pastore protestante Charles Robert Maturin, opera che costituisce un classico esempio di romanzo gotico inglese5. Melmoth è un personaggio che, cedendo l’anima al diavolo, ottiene in cambio la possibilità di condurre un’esistenza plurisecolare, cosa che lo fa sentire al tempo stesso infelice (in quanto egli sa che quasi certamente, al termine del suo percorso, lo attende la dannazione eterna) e privilegiato rispetto ai comuni mortali. Dunque la sua sinistra risata è «la conseguenza necessaria della sua doppia natura contraddittoria», e proprio in quanto costituisce «l’espressione più alta dell’orgoglio, adempie perpetuamente alla sua funzione, lacerando e bruciando le labbra di colui che ride»6.

Secondo Baudelaire, un discorso in parte analogo vale per l’uomo in generale, poiché in lui il riso «è nel contempo il segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita, miseria infinita rispetto all’Essere assoluto di cui egli possiede il concetto, grandezza infinita in rapporto agli animali. È dall’urto perpetuo di questi due infiniti che si sprigiona il riso»7. La satanica idea di superiorità agisce però anche, e soprattutto, nei confronti di altri esseri umani. Il poeta ricorda in tal senso un esempio banale: chi ride vedendo qualcuno che inciampa e finisce a terra, lo fa perché si ritiene più abile di lui. «Non è l’uomo che cade a ridere della propria caduta, a meno che non sia un filosofo, un uomo che abbia acquisito, per abitudine, la forza di sdoppiarsi rapidamente e di assistere da spettatore disinteressato ai fenomeni del proprio io»8. Esiste anche un’evoluzione storica del senso del comico: «L’elemento angelico e quello diabolico funzionano in parallelo. L’umanità si eleva, e acquista per il male e la comprensione del male una forza proporzionale a quella che ha acquisito per il bene. Di conseguenza, non mi sorprende che noi, figli di una legge migliore delle leggi religiose antiche, noi, discepoli privilegiati di Gesù, possediamo più elementi comici dell’antichità pagana»9.

2. Conviene aprire qui una breve parentesi. Come si è visto il poeta, in questo come in altri testi, sembra voler fare professione di fede cristiana, ma se si considera l’insieme dei suoi scritti, e specialmente le sue lettere (nelle quali egli ha modo di esprimersi con maggiore libertà), emerge un quadro assai più variegato e complesso. Certo, può capitare che Baudelaire dichiari: «Io sono un cattolico incorreggibile» o, in un’altra occasione, che definisca Les Fleurs du Mal un libro che «partiva da un’idea cattolica»10. Ma in questa seconda missiva, indirizzata alla madre, pur dicendo di aver pregato molto negli ultimi mesi, precisa anche di non sapere a chi si fosse rivolto: «Ho pregato! in ogni momento (chi? quale essere definito? non ne so assolutamente nulla)»11. E alla medesima destinataria confida: «“E Dio!”, dirai tu. Con tutto il cuore (con quale sincerità, nessuno può saperlo meglio di me!) desidero credere che un essere esterno e invisibile si interessi al mio destino; ma come fare per crederci?»12.

Anche altrove ricompare la stessa ambiguità. Così Baudelaire racconta che, quando aveva dichiarato al suo amico Paul Chenavard di essere «sempre stato un fervente cattolico», il suo interlocutore era scoppiato a ridere, dato che «non aveva mai fiutato il cattolico sotto Les Fleurs du Mal»; il poeta, amante dei paradossi, aggiunge scherzosamente: «Anche a voler supporre che quell’opera sia diabolica, esiste forse – si potrebbe dire – qualcuno che sia più cattolico del Diavolo?»13. Non a torto, dunque, gli capita di ammettere: «Io sono un cattolico molto sospetto»14. Anzi, quando progetta di scrivere un libro nel quale vuole prendere di mira i molti difetti del popolo belga, cosa che senz’altro susciterà contro di lui reazioni ostili, in un momento di esasperazione dichiara: «Esprimerò pazientemente tutte le ragioni del mio disgusto per il genere umano. Dopo che sarò rimasto assolutamente solo, cercherò una religione (tibetana o giapponese), giacché disprezzo troppo il Corano, e quando sarò in punto di morte abiurerò quest’ultima religione, allo scopo di mostrare con chiarezza il mio disgusto per la stupidità universale»15.

Sarebbe vano accusare Baudelaire di contraddirsi, poiché egli ha sempre rivendicato il diritto di farlo, anche in materia di religione. Scrive ad esempio in un’altra lettera: «Non ho mai avuto la pretesa di non contraddirmi. Il solo orgoglio che io mi conceda è quello di sforzarmi di esprimere qualsiasi cosa in maniera bella. Un’anima sinceramente attratta dalla verità, ma molto sensibile, può essere sballottata dal cattolicesimo al misticismo, dal manicheismo al magismo, senza che il pubblico, purché gli venga servita la sua pastura di divertimento, abbia il diritto di interessarsene! […] Se anziché fare una letteratura d’innovazione, più o meno suggestiva, io mi presentassi come filosofo o come professore di morale, voi avreste evidentemente il diritto di esigere da me più logica e più chiarezza»16.

3. Ma torniamo al saggio De l’essence du rire. Senza voler seguire in dettaglio tutte le argomentazioni presenti in esso, è giunto il momento di approssimarsi al punto che ci interessa maggiormente, ossia alla distinzione attuata da Baudelaire fra due diversi modi di intendere la comicità. Del primo egli ha già illustrato il meccanismo, ma il secondo è qualcosa di diverso. Si tratta di quel «riso vero, riso violento, alla vista di oggetti che non sono un segno di debolezza o di disgrazia nei propri simili. È facile intuire che intendo parlare del riso provocato dal grottesco. Le creazioni favolose, gli esseri la cui ragione o legittimazione non può essere tratta dal codice del senso comune, eccitano spesso in noi un’ilarità folle, eccessiva, che si traduce in spasmi e deliqui senza fine. È evidente che bisogna distinguere, e che qui c’è un grado ulteriore. Dal punto di vista artistico, il comico è un’imitazione, il grottesco una creazione»17. Secondo Baudelaire, all’origine del riso c’è sempre l’orgoglio, ma se nel caso del comico esso consiste nell’idea di superiorità di un uomo su un altro uomo, nel caso del grottesco riguarda l’idea della superiorità dell’uomo sulla natura. Si tratta di una tesi, a prima vista, strana ed enigmatica, perché di certo essa non ha nulla a che vedere col fatto, evocato in precedenza, che l’uomo si considera situato più in alto rispetto agli animali. Anche se qui Baudelaire non lo indica in maniera chiara, il grottesco implica due caratteri essenziali: la totale libertà immaginativa – che consente di prescindere da ciò che è realisticamente possibile, inserendo nella narrazione elementi fiabeschi o assurdi – e l’ironia. Quest’ultima richiede, in colui che la adotta, una certa capacità di sdoppiamento psichico. È ciò che è stato suggerito da Paul de Man a commento del passo baudelairiano: «Quando il concetto di “superiorità” si continua ad usare anche se l’io ingaggia un rapporto non con altri soggetti, ma con ciò che non si può neppure definire un “io”, allora la cosiddetta superiorità designa semplicemente la distanza che è elemento costitutivo di ogni atto di riflessione. Superiorità e inferiorità divengono dunque pure metafore spaziali per indicare una discontinuità e una pluralità di livelli, all’interno di un soggetto»18.

Mentre il comico è più facile da capire da parte della massa, il grottesco richiede particolari doti di intuizione, e pertanto rappresenta un grado più elevato rispetto a quello della semplice comicità. Ma in ogni caso sempre di umorismo si tratta, sicché Baudelaire propone di definire «comico significativo» il comico nella sua forma ordinaria e «comico assoluto» il grottesco19. Secondo il poeta, «l’uomo che finora ha meglio inteso tali idee, e le ha messe parzialmente in opera nei suoi lavori sia di pura estetica sia di carattere creativo, è Theodor Hoffmann. Egli ha sempre mantenuto ben distinti il comico ordinario da quello che definisce comico innocente»20. Se Baudelaire, come sembra, sta alludendo a un passo del romanzo hoffmanniano La principessa Brambilla, allora occorre ricordare che in quel testo un personaggio, il pittore tedesco Franz Reinhold, parlando con Celionati (un imbonitore di piazza che nel contempo è un principe), dichiara: «Voialtri italiani vi abituate più facilmente di noi allo scherzo nudo e crudo; ma vorrei però cercare di spiegarvi la differenza che, secondo me, c’è fra il vostro e il nostro scherzo, o piuttosto fra la vostra e la nostra ironia. […] Non crediate, mastro Celionati, che io non abbia gusto per quel carattere burlesco che si ritrova solo nell’aspetto esteriore delle cose, e non riconosca al vostro popolo una forza eccezionale nel richiamare in vita questa scherzosità. Ma perdonatemi, Celionati, se dico che, per rendere sopportabile questo carattere scherzoso, è indispensabile una certa dose di serenità, serenità che io non riesco assolutamente a trovare nei vostri personaggi comici»21.

Qui, però, le cose si complicano. Innanzitutto, la formula «comico innocente» usata da Baudelaire non compare nel testo di Hoffmann: è stato il traduttore francese dell’epoca, Théodore Toussenel, a rendere l’espressione tedesca «reine Scherz» (scherzo nudo e crudo) con «l’innocence de la plaisanterie» (l’innocenza dello scherzo)22. Va detto che l’idea stessa di una comicità innocente è in contraddizione con la teoria baudelairiana secondo cui alla base dell’umorismo si trova sempre un diabolico senso di superiorità. Inoltre, nel passo di La principessa Brambilla appena citato, «scherzo» e «ironia» vengono usati come sinonimi. Anche se non ha sviluppato, al pari di altri romantici tedeschi (primo fra tutti Friedrich Schlegel) una complessa concezione dell’ironia, Hoffmann è pienamente consapevole dell’importanza di quest’ultima: «Chi può negare l’ironia insita nel fondo della natura umana, l’ironia che condiziona l’essenza stessa della nostra natura e da cui irradiano lo scherzo, la battuta di spirito, la burla? […] Lo spasimo di dolore, il grido straziante della disperazione, si sciolgono in una risata di piacere: del meraviglioso piacere nato appunto dal dolore e dalla disperazione. La piena conoscenza di quello strano organismo che è la natura umana potrebbe dunque essere ciò che noi chiamiamo “umorismo”; e quindi l’essenza profonda dell’umorismo (che, a mio avviso, si identifica perfettamente con la comicità genuina), si definirebbe da sé»23. Hoffman sembra voler assimilare lo spirito ironico e quello comico, ma a ben vedere ciò non equivale a sminuire il primo dei due elementi. Altrove, infatti, egli non manca di chiarire che «peculiare, esclusivo degli spiriti profondi è il senso dell’ironia»24.

Già Hegel aveva rilevato, sia pure per condannarla, l’unione in Hoffmann di grottesco e ironia: «Specialmente oggigiorno è venuta di moda quella interna e inconsistente lacerazione dell’animo che passa per tutte le più spiacevoli dissonanze e che ha prodotto un umorismo del macabro e una grottesca ironia, in cui E. T. A. Hoffmann, per esempio, si trovava a suo agio»25. Non sorprenderà dunque il fatto che certi lettori abbiano identificato la nozione baudelairiana di «comico assoluto» non tanto con il grottesco, quanto piuttosto con l’ironia. Così Paul de Man ha scritto che il poeta «dedica parecchie pagine del suo saggio alla distinzione tra un senso semplice della commedia […] e ciò che egli chiama “le comique absolu” (con il quale designa quella modalità che, in altri passi del suo saggio, chiama ironia)»26. Ancor più perentorio è stato Giorgio Agamben, nell’asserire che Baudelaire, «in un breve scritto che porta il titolo, apparentemente anodino, De l’essence du rire, ci ha lasciato un trattato sull’ironia (che egli chiama: comique absolu27.

4. Prima di tornare a soffermarsi su Hoffmann, Baudelaire ci tiene ad allargare il discorso, fornendo degli esempi utili a far comprendere la sua distinzione fra i diversi tipi di umorismo. Infatti, essa può essere formulata in base a un criterio di tipo filosofico – come quello che il poeta ritiene di aver adottato nell’evidenziare la differenza tra il comico significativo a quello assoluto –, ma anche prendendo in considerazione le qualità specifiche dei singoli autori o delle singole nazioni. Così in Francia, paese in cui si tende a privilegiare la chiarezza del pensiero e non si esita a sottomettere l’arte all’utilità, «il comico è di norma significativo. Molière è stato, in questo genere, la migliore espressione»; persino Rabelais, «che è il grande maestro francese nel grottesco, conserva in mezzo alle sue fantasie più enormi qualcosa di utile e di ragionevole […]. Quanto al comico dei Contes di Voltaire, che è essenzialmente francese, esso trae sempre la propria ragion d’essere dall’idea di superiorità ed è, in tutto e per tutto, significativo»28. Se si spingesse il comico ordinario all’estremo limite, si otterrebbe quello che Baudelaire definisce il «comico feroce». Ma a suo avviso, per trovare esempi di quest’ultimo, occorre spostarsi dalla Francia all’Inghilterra. Egli ricorda di aver assistito, in un teatro parigino, a una pantomima eseguita da attori inglesi, che ha prodotto su di lui una forte impressione. Scrive in proposito: «Mi è sembrato che il segno distintivo di quel genere di comicità fosse la violenza, e cercherò di darne la prova tramite alcuni frammenti dei miei ricordi»29. Nota in particolare che, in quello spettacolo, il personaggio di Pierrot non somigliava affatto a quello, pallido e misterioso, interpretato in Francia dal celebre mimo Jean-Gaspard Deburau: «Il Pierrot inglese arrivava come la tempesta, cadeva come un sacco di stracci, e quando rideva, il suo riso faceva tremare la sala […]. In questa singolare pantomima, tutto veniva espresso con un impeto travolgente; era la vertigine dell’iperbole»30. L’appetito sessuale del personaggio non viene dissimulato, e altrettanto può dirsi per un’altra sua compulsione: la cleptomania. Così, oltre a fare delle sfacciate avances a una serva intenta a pulire, egli la deruba non solo di ciò che ha nelle tasche, ma anche di tutti gli attrezzi che sta usando (spugna, scopa, secchio con l’acqua). Il culmine della pièce si raggiunge quando Pierrot viene ghigliottinato: «La testa si staccava dal collo, una grossa testa bianca e rossa, e rotolava rumorosamente davanti alla buca del suggeritore, mostrando il disco sanguinante del collo […]. Ma ecco che, di colpo, il torso scorciato, mosso dalla monomania irresistibile del furto, si drizzava e faceva sparire vittoriosamente la propria testa, come se fosse stata un prosciutto o una bottiglia di vino, e […] se la ficcava in tasca!»31. Ecco dunque come appare a Baudelaire il feroce umorismo inglese.

È invece la Germania ad offrire, secondo lui, i migliori esempi di comico assoluto. Ovviamente, il posto d’onore spetta alle opere di Hoffmann: «Se si vuole comprendere bene la mia idea, bisogna leggere con cura Daucus Carota, Peregrinus Tyss, Il vaso d’oro, e soprattutto, innanzitutto, La principessa Brambilla, che è come un catechismo di alta estetica. Ciò che distingue in modo così particolare Hoffmann è la mescolanza involontaria, ma qualche volta deliberata, di una certa dose di comico significativo col comico più assoluto. Le sue concezioni comiche più soprannaturali, più fuggevoli, e che somigliano spesso a visioni dell’ebbrezza, hanno un senso morale assai visibile: viene da credere di avere a che fare con un fisiologo o con un medico di manicomio fra i più perspicaci, che si diverta a rivestire di forme poetiche la sua profonda scienza»32. Non è un caso se, per esemplificare questa conoscenza della mente umana, viene citato La principessa Brambilla, romanzo in cui figura il personaggio di Giglio Fava, giovane attore affetto da un’alterazione psichica che lo fa oscillare fra la propria personalità e quella di un altro. Celionati spiega appunto al pittore Reinhold che è in causa «una malattia che si può considerare come la più rara e nello stesso tempo la più pericolosa che ci sia, e che può essere guarita solo per mezzo di un arcano, il cui possesso presuppone un’iniziazione magica. Questo giovane soffre infatti di dualismo cronico. […] – Scommetto, – disse Reinhold, – che mastro Celionati col suo dualismo cronico non intende altro che quella strana mania per cui il proprio Io si scinde in due, sicché non si riesce più a stabilire la propria personalità»33. Celionati conferma, ma precisa che le due parti in cui si è separato l’io sono in costante disaccordo fra loro.

Giglio Fava fa ridere proprio perché non è consapevole del suo stato di dissociazione mentale. Ben diversa, secondo Baudelaire (che così conclude il proprio saggio), è la condizione dello scrittore: «Gli artisti creano il comico, e poiché ne hanno studiato e raccolto i diversi elementi, sanno che se questo o quell’essere è comico, lo è solo in quanto ignora la propria natura; allo stesso modo, per una legge inversa, l’artista è tale solo a condizione di essere duplice e di non ignorare alcun fenomeno della propria doppia natura»34. La frase che abbiamo appena letto potrebbe far pensare che ancora una volta egli voglia sottolineare un senso di superiorità nei riguardi delle altre persone. Tuttavia non si tratta tanto o soltanto di questo: infatti, quando il poeta evoca le capacità autoriflessive proprie dell’artista (e in particolare dell’ironista), lo fa sovente per indicare un processo intellettuale più subìto che voluto.

5. Il tema della duplicità, e della necessaria coscienza di essa, è essenziale in Baudelaire, e si presenta nei suoi testi sotto forme diverse. Recensendo il libro di un amico, egli scrive: «Esiste un capitolo di Buffon che è intitolato Homo duplex, di cui non ricordo più esattamente il contenuto, ma il cui titolo breve, misterioso, gravido di pensiero, mi ha sempre fatto immergere nella fantasticheria, e ancora adesso […] si presenta bruscamente alla mia memoria, e la provoca, la confronta al pari di un’idea fissa. Chi fra noi non è un homo duplex? Voglio parlare di coloro il cui spirito è stato fin dall’infanzia touched with pensiveness. Sempre doppio, azione e intenzione, sogno e realtà; sempre l’uno che nuoce all’altro, l’uno che usurpa la parte dell’altro. […] L’intenzione abbandonata durante il cammino, il sogno dimenticato in un albergo, il progetto stroncato dall’ostacolo, la disgrazia e le infermità che spuntano dal successo come le piante velenose da un terreno grasso e trascurato, il rimpianto commisto all’ironia»35.

La compresenza, nell’animo umano, di tendenze contraddittorie, può anche essere espressa in termini morali e religiosi: «In ogni uomo ci sono, ad ogni istante, due postulazioni simultanee: l’una verso Dio, l’altra verso Satana. L’invocazione a Dio, o spiritualità, è un desiderio di salire di grado; quella a Satana, o animalità, è una gioia del discendere. È a quest’ultima che devono essere ricollegati gli amori per le donne e le conversazioni intime con gli animali: cani, gatti, ecc. I piaceri che derivano da questi due amori sono appropriati alla natura di questi due amori»36. Tale osservazione ci conduce al particolare ruolo che esercita l’ironia baudelairiana quando ad essere in causa è quell’oggetto privilegiato della sua poesia che è costituito dalla donna. Egli aveva persino progettato di scrivere, per collocarlo a chiusa della prima edizione di Les Fleurs du Mal, un componimento provocatorio sul tema: «Io preparo, e spero che sarà finito in tempo, un bellissimo Epilogo per Les Fleurs du Mal. […] L’Epilogo (indirizzato a una signora) dice all’incirca così: Lasciatemi riposare nell’amore. – Ma no, – l’amore non mi riposerà mai. – Il candore e la bontà sono disgustosi. – Se volete piacermi e rinnovare i desideri, siate crudele, bugiarda, libertina, crapulosa e ladra. E se non volete essere tutto questo, vi ammazzerò, senza collera. Poiché io sono il vero rappresentante dell’ironia, e la mia malattia è di un genere assolutamente incurabile. – Come vedete, ne viene fuori un bel fuoco d’artificio di mostruosità, un vero Epilogo, degno del prologo al lettore, una vera Conclusione»37.

L’idea viene abbandonata da Baudelaire, ma fornirà in seguito qualche spunto per un suo componimento poetico, L’Héautontimorouménos38. Com’è noto, la parola greca riprende il titolo di una commedia di Menandro, mantenuto anche nel libero adattamento che di essa è stato fatto dal poeta latino Terenzio. Alla lettera, si può tradurre «colui che punisce se stesso». La dedica della poesia, volutamente misteriosa, «A J. G. F.», dovrebbe essere riferita a Jeanne Duval, il cui nome anagrafico completo era Jeanne Gabrielle Florine Prosper39. Nelle prime tre strofe del testo, il poeta ostenta una spiccata, ma nel contempo voluttuosa, aggressività nei riguardi della donna: «Ti colpirò senza collera, / senz’odio, come un beccaio, / o come Mosè la roccia! / Farò dalla tua palpebra, // per dissetare il mio Sahara, / sgorgare l’acqua della sofferenza. / La mia brama, gonfia di speranza, / nuoterà sulle tue lacrime salate / come una nave che prende il largo, / e nel mio cuore, che ne sarà inebriato / i tuoi cari singhiozzi echeggeranno / come un tamburo che batte la carica!»40. Tale unione di ebbrezza e crudeltà si presta ad essere definita sadica. E conviene ricordare in proposito un’annotazione baudelairiana: «Quale orrore e quale godimento in un amore per una spiona, una ladra, ecc….! La ragione morale di questo godimento. Bisogna sempre rifarsi a de Sade, ossia all’Uomo Naturale, per spiegare il male»41.

Tuttavia il seguito del componimento rovescia in parte tale prospettiva, in quanto mostra l’azione dirompente che l’ironia esercita su chi la pratica: «Non sono forse un accordo / stonato nella divina sinfonia, / grazie alla vorace Ironia / che mi squassa e mi morde? // È dentro la mia voce, la stridente! / È il mio sangue, questo veleno nero! / Sono lo specchio sinistro / in cui si guarda la megera. // Sono la piaga e il coltello! / Sono lo schiaffo e la gota! / Sono le membra e la ruota, / e la vittima e il carnefice! // Sono del mio cuore il vampiro, / – uno di quei grandi derelitti / condannati all’eterno riso / e che non possono più sorridere!»42. Sarebbe erroneo voler scorgere in questi versi solo una deplorazione per gli effetti negativi dell’ironia, giacché anche in essi è presente un compiacimento di tipo sadomasochistico, come conferma un altro appunto di Baudelaire: «Sarebbe forse dolce essere alternativamente vittima e carnefice»43. Si sarà notato che, negli ultimi versi, il poeta presenta se stesso come un Melmoth redivivo, incapace di sorridere ma costretto a cedere a un terribile riso, un riso che «agghiaccia e torce le viscere»44.

Jean Starobinki ha dedicato un notevole saggio a L’Héautontimorouménos e alla poesia che le fa direttamente seguito nella raccolta baudelairiana, L’Irrémédiable45. Nel suo studio, egli evidenzia il rapporto che in Baudelaire si stabilisce fra l’ironia e la malinconia. Osserva ad esempio che quando, in L’Héautontimorouménos, il poeta parla di un «veleno nero» che circola nelle sue vene, sta facendo un riferimento preciso all’atrabile: «Nella tradizione della medicina umorale classica, la malinconia era definita appunto come un “veleno nero”. L’effetto corrosivo dell’atrabile, non più temperato dalla “dolcezza” dell’umore sanguigno, provocava danni all’intero organismo, a cominciare dal cervello»46. Anche i versi in cui il poeta si paragona a «un accordo / stonato nella divina sinfonia» si prestano ad essere interpretati in maniera analoga: «La dissonanza tra l’uomo malinconico e la musica del mondo (la musica mundana della filosofia rinascimentale) è la conseguenza della discordia intrapsichica nella quale l’Ironia personificata assume l’aspetto del nemico intimo»47.

Nella prima parte di L’Irrémédiable, ci viene presentata una serie di immagini angosciose, tra cui quella di «un Angelo, imprudente viaggiatore / tentato dall’amore del difforme, / che in fondo a un incubo enorme / si dibatte come un nuotatore», quella di «un dannato che scende senza lampada, / sull’orlo di un abisso il cui tanfo / tradisce la profondità umida, / eterne scale senza ringhiera», o ancora quella di una nave rimasta intrappolata nei ghiacci della calotta polare48. A tali simboli di una sorte funesta abilmente predisposta dal Diavolo, il poeta, nella seconda parte del suo testo, può contrapporre soltanto l’ironia con cui egli sa gettare uno sguardo disincantato su se stesso e sui propri peccati: «Un faro ironico, infernale, / fiaccola delle grazie sataniche, / gloria e consolazione uniche, / – La coscienza nel Male!»49.

Quest’ultimo verso della poesia, commenta Starobinski, tira le somme di ciò che precede: «“La coscienza nel Male” è la risultante di tutte le immagini allegoriche che la prefiguravano»50. Baudelaire considera infatti deplorevole che, nel suo tempo, i malvagi si dimostrino spesso inconsapevoli di essere tali, mentre in passato, perlomeno, ne avevano coscienza: «Il male consapevole di sé era meno orribile e più prossimo alla guarigione del male inconsapevole»51. Dunque, se nel poeta-ironista permane un senso di superiorità nei confronti delle altre persone, parrebbe che esso non sia più così diabolico, visto che coincide ormai con la capacità autoriflessiva di cogliere le proprie manchevolezze e di ammetterle. Ma a ben vedere anche in questo si cela pur sempre l’orgoglio, giacché, come aveva affermato Pascal, «è essere grandi riconoscere che si è miserabili»52.

1 C. Baudelaire, De l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastiques (1855; nuova versione 1857), in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 2024 (= Œ. C.), vol. I, pp. 825-842 (tr. it. Dell’essenza del riso e in generale del comico nelle arti plastiche, in Opere, Milano, Mondadori, 1996, pp. 1100-1121; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche). Nel 1857, il saggio funge da introduzione teorica per altri due studi dell’autore, dedicati rispettivamente ai caricaturisti francesi e a quelli stranieri.

2 Ivi, pp. 827-828 (tr. it. p. 1103).

3 Ivi, pp. 829-830 (tr. it. p. 1105).

4 Ivi, pp. 830-831 (tr. it. p. 1107).

5 C. R. Maturin, Melmoth. L’uomo errante (1820), tr. it. Milano, Bompiani, 1968.

6 De l’essence du rire, cit., p. 831 (tr. it. p. 1107).

7 Ibidem (tr. it. p. 1108).

8 Ivi, pp. 831-832 (tr. it. p. 1108).

9 Ivi, 832 (tr. it. p. 1109).

10 Lettera ad Alphonse de Calonne del 10 novembre 1858, in Correspondance, Paris, Gallimard, 1973, vol. I, p. 522 e lettera alla madre (Caroline Dufaÿs) del 1° aprile 1861, ivi, vol. II, p. 141 (tr. it. in Il vulcano malato. Lettere 1832-1866, Roma, Fazi, 2007, pp. 180 e 251).

11 Lettera del 1° aprile 1861, cit., p. 140 (tr. it. p. 250).

12 Lettera alla madre del 6 maggio 1861, in Correspondance, cit., vol. II, p. 151 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., pp. 256-257).

13 Lettera a Victor de Laprade del 23 dicembre 1861, ivi, p. 198.

14 Lettera a Charles-Augustin Sainte-Beuve, circa il 24 gennaio 1862, ivi, p. 221 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., p. 287).

15 Lettera a Narcisse Ancelle del 13 novembre 1864, ivi, p. 421.

16 Lettera ad Armand Fraisse del 12 agosto 1860, in C. Baudelaire, Nouvelles lettres, Paris, Fayard, 2000, pp. 30-31.

17 De l’essence du rire, cit., p. 834 (tr. it. p. 1111).

18 Paul de Man, La retorica della temporalità (1969), in appendice a Cecità e visione. Linguaggio letterario e critica contemporanea, tr. it. Napoli, Liguori, 1975, p. 271.

19 Cfr. De l’essence du rire, cit., p. 835 (tr. it. p. 1112).

20 Ibidem (tr. it. p. 1113).

21 Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, La principessa Brambilla (1820), in Romanzi e racconti, tr. it. Torino, Einaudi, 1969, vol. III, pp. 443-444.

22 Cfr. in proposito una nota di Antoine Compagnon in Œ. C., vol. I, p. 1514.

23 Le curiose pene di un capocomico (1819),in Pezzi di fantasia alla maniera di Callot, in Romanzi e racconti, cit., vol. I, p. 351.

24 Jacques Callot (1814), ivi, p. 7.

25 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica (lezioni edite postume nel 1835-38), tr. it. Torino, Einaudi, 1967; 1976, p. 250.

26 P. de Man, op. cit., p. 271.

27 G. Agamben, Un nulla che annienta se stesso, in L’uomo senza contenuto, Milano, Rizzoli, 1970, p. 89.

28 De l’essence du rire, cit., pp. 836-837 (tr. it. p. 1114).

29 Ivi, p. 837 (tr. it. p. 1115).

30 Ivi, p. 838 (tr. it. p. 1115).

31 Ivi, pp. 838-839 (tr. it. p. 1117).

32 De l’essence du rire, cit., p. 841 (tr. it. pp. 1119-1120). I primi tre testi narrativi hoffmanniani a cui Baudelaire fa riferimento sono, nell’ordine: La sposa del re (1821), in I confratelli di san Serapione, in Romanzi e racconti, cit., vol. II, pp. 855-898; Maestro Pulce (1822),in Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 519-649; Il vaso d’oro (1814), in Pezzi di fantasia alla maniera di Callot, cit., pp. 168-237.

33 La principessa Brambilla, cit., pp. 504-505.

34 De l’essence du rire, cit., p. 842 (tr. it. p. 1121).

35 «La Double Vie» par M. Charles Asselineau (1859), in Œ. C., vol. I, p. 885. Per quanto riguarda il naturalista Georges-Louis Leclerc de Buffon, il riferimento è a un suo testo del 1753 in cui, nel paragrafo intitolato Homo duplex, si afferma: «L’uomo interiore è duplice, è composto da due principi, diversi per natura e contrari per la loro azione. L’anima, principio spirituale, origine di ogni conoscenza, è sempre in opposizione con l’altro principio, che è animale e puramente materiale» (Discours sur la nature des animaux, Paris, Payot & Rivages, 2003, pp. 96-97). L’espressione in inglese proviene da un’opera autobiografica di Thomas de Quincey del 1845, in cui si legge: «Noi, i bambini, eravamo per costituzione caratterizzati dalla pensosità» (L’afflizione dell’infanzia, in Suspiria de profundis, tr. it. Milano, Edizioni Clandestine, 2024, p. 27).

36 Mon cœur mis à nu (1862-65), in Œ. C., vol. II, p. 486 (tr. it. Il mio cuore messo a nudo, in Opere, cit., p. 1422).

37 Lettera a Victor de Mars del 7 aprile 1855, in Correspondance, cit., vol. I, p. 312 (tr. it. in Il vulcano malato, cit., pp. 127-128).

38 Lo si veda in Les Fleurs du Mal (1861), in Œ. C., vol. II, pp. 73-74 (tr. it. L’Eautontimorumenos, in I fiori del male, Milano, Rizzoli, 1980; 2001, pp. 209-211).

39 Cfr. una nota di André Guyaux in Œ. C., vol. II, p, 1179.

40 Ivi, p. 73 (tr. it. p. 209).

41 Titres, projets et fragments, in Œ. C., vol. II, p. 966 (tr. it. Liste di titoli e appunti per romanzi e racconti, in Opere, cit., pp. 1505-1506).

42 L’Héautontimorouménos, cit., pp. 73-74 (tr. it. pp. 209-211).

43 Mon cœur mis à nu, cit. p. 480 (tr. it. p. 1415).

44 De l’essence du rire, cit., p. 831 (tr. it. p. 1107).

45 Cfr. J. Starobinski, Ironie et réflexion: «L’Héautontimorouménos» et «L’Irrémédiable», in La Mélancolie au miroir. Trois lectures de Baudelaire, Paris, Juillard, 1989, pp. 27-45 (tr. it. Ironia e riflessione: «L’Eautontimorumenos» e «L’Irrimediabile», in La malinconia allo specchio. Tre letture di Baudelaire, Milano, Garzanti, 1990, pp. 20-33)

46 J. Starobinski, op. cit., p. 32 (tr. it. p. 24).

47 Ivi, p. 33 (tr. it. p. 24).

48 Cfr. L’Irrémédiable, in Les Fleurs du Mal, cit., pp. 74-75 (tr. it. L’irrimediabile, in I fiori del male, cit., pp. 211-213).

49 Ivi, p. 75 (tr. it. p. 213).

50 J. Starobinski, op. cit., p. 45 (tr.it. p. 33).

51 Notes sur «Les Liaisons dangereuses» (1866), in Œ. C., vol. II, p. 936 (tr. it. Note su «Les Liaisons dangereuses», in Opere, cit., p. 1481).

52 Blaise Pascal, Pensées (edito postumo nel 1670), Paris, Gallimard, 2004, p. 106 (tr. it. Pensieri, Milano, Bompiani, 2000, p. 151).

I COLORI DEL NULLA. Marco Ercolani

Giovanni Castiglia, Pergamena brunita

**

Il nulla, di giorno, ha colori terrestri.

La mano ripete sonnambula

enigmi che non evocano risposte:

scrive.

Sui rami le dita urtano, cercano

gli strumenti che verranno.

Dopo l’ìncendio chi riconosce, fra gli sterpi,

il futuro Stradivari?

Chi, fra i rovi, sente rinascere

foglie illuminate, reali?

Il sole dell’aria rivela

uccelli che dentro quella strana luce,

da strani fori nella foresta,

riflettono noi, battendo le ali. (M.E.)

ALA. Nunzio

Ricordi di Nunzio (2024).

Cosa ricordo di quegli anni? A partire dal 1985 ho introdotto materiali nuovi nella mia scultura: nero fumo, pece, cera, piombo, legni lavorati con scalpello e sega. Ricordo Talismano, dove un cuneo in piombo dialoga con un fondo ligneo segnato dal carbone, Meteora, dove il taglio verticale della forma è mescolato a una componente orizzontale stabile. E L’Aperto (1987), dove il legno, bruciato per evidenziare venature e trasparenze, viene spogliato di ogni riferimento naturalistico per diventare rigorosa misura mentale. Allora Giuliano Briganti parlò di gusci di grandi testuggini marine trovati su una spiaggia deserta, corrosi dal vento e dalla salsedine. Altri titoli mi vengono in mente: Spleen, Conca, Granito.

Ma uno su tutti: Ala. Non è una vera ala, come quella che scolpii in quegli anni, nell’imminenza del suo fluttuare, ma la punta bruciata di un meteorite conficcato nella terra, che un giorno volò. Ma in quale giorno? La scultura, essendo composta di materia, si presta a rappresentare temi astratti: si crea, nel legno o nel bronzo, un contrasto felice con l’aria dei pensieri. Ciò che resta, dell’homo faber, è l’ustione del fuoco. Io, Nunzio, lo so.

VITA DI UN POETA. Robert Walser

Hölderlin aveva cominciato a scrivere poesie, ma la funesta povertà lo costrinse a entrare come precettore in una casa di Francoforte sul Meno per guadagnarsi il pane. Ed ecco, là dentro, l’anima grande e bella nella situazione stessa di un lavorante qualunque. Fu costretto a far mercato della sua ardente aspirazione alla libertà, a reprimere la sua regale, colossale fierezza. Conseguenza della crudele necessità fu una tensione spasmodica, un pericoloso sconvolgimento interiore. Era finito in un’elegante, graziosa prigione. Nato per aggirarsi tra sogni e fantasie, per stare appeso al collo della natura, per trascorrere giorni e notti nella beatitudine del poetare sotto il fitto fogliame degli alberi amici, per conversare con i prati e con i loro fiori e guardare su verso il cielo contemplando il corteo divinamente lento delle nuvole, era entrato ora nella linda ristrettezza borghese di una casa agiata e si era sottoposto all’obbligo – tremendo obbligo per le sue energie ribelli – di condursi con costumatezza, giudizio e buone maniere. Provò un senso di terrore. Si vide perduto, svilito; e lo era in realtà. Sì, era perduto: giacché non aveva la meschina forza di rinnegare ignominiosamente tutte le sue stupende linfe ed energie che ora dovevano essere rinnegate e occultate.
Fu allora che crollò, che si schiantò, e da allora in poi fu un povero, miserando malato.
Hölderlin, che solo nella libertà poteva vivere, vedeva la sua felicità annientata perché aveva perduto la libertà. inutilmente tirava e scuoteva la catena che lo teneva stretto; tirandola, non faceva che ferirsi; la catena era infrangibile. Un eroe giaceva in ceppi, un leone doveva comportarsi con garbo e gentilezza, un greco di stirpe regale si muoveva nella stanza borghese dalle pareti anguste e basse che, graziosamente tappezzate, gli stritolavano il meraviglioso cervello. Fu infatti a quel momento che ebbe inizio il suo pietoso sconvolgimento mentale, quel lento, graduale, frantumarsi di ogni chiarezza. Da un disperare all’altro in un incessante disintegrarsi dell’anima fa paura e orrore, erravano, ondeggiavano i tristi pensieri. Era come se mondi celestialmente luminosi andassero silenziosamente, tranquillamente, lentamente in pezzi.
Fosco, greve, buio gli era divenuto il mondo, e cercando almeno l’ebbrezza nella fatuità e nell’illusione, così da dimenticare l’infinito dolore per la libertà perduta e da vincere la sua angoscia di leone asservito e incatenato, che va su e giù, continua disperatamente ad andar su e giù per la gabbia, ebbe l’dea di innamorarsi della gentile signora. Ciò valse a distrarlo, divenne opportuno per dare qualche minuto di sollievo al suo cuore annichilito, strangolato, soffocato.Mentre l’unica cosa che amava era quel naufragato sogno della libertà, s’immaginò di amare la signora della casa. Il vuoto del deserto circondava la sua coscienza. Se sorrideva, era come se per portarsi quel sorriso alle labbra avesse dovuto estrarlo faticosamente dal fondo di una caverna.Il desiderio di ritornare all’infanzia lo struggeva morbosamente, e per poter rinascere al mondo e tornare a essere un ragazzo si augurava la morte. “Quand’ero ragazzo…” scrisse. La stupenda poesia è ben nota. Mentre l’uomo in lui disperava e il suo essere sanguinava da tante piaghe dolorose, la sua natura d’artista, simile a una danzatrice dalle ricche vesti, si slanciava in alto, e proprio quando a Hölderlin pareva di precipitare in rovina, la sua musica, la sua poesia si facevano incantevoli, sullo strumento della lingua che parlava, egli cantò la devastazione, lo sfacelo della sua vita, in auree, mirabili note. Piangeva sui suoi diritti, sulla sua felicità distrutta, lamentandosi come solo ai re è dato lamentarsi, con un orgoglio, una sublimità che non conoscono l’uguale nel dominio dell’arte poetica.
Le mani potenti del fato lo strapparono dal mondo, da dimensioni troppo piccole per lui, lo spinsero oltre il ciglio dell’intelligibile verso la follia, nel cui benigno, diletto abisso, inondato di luce, popolato di fuochi fatui, egli sprofondò col suo peso di gigante, per assopirvisi in dolce, perpetua distrazione e oscurità.
“E’ impossibile, crédimi, Hölderlin,” gli disse la signora della casa “è inconcepibile quello che tu vuoi. Tutto ciò che pensi travalica i limiti del possibile e del lecito, tutto ciò che dici infrange ogni cosa raggiungibile, tu non vuoi, non puoi vivere bene. Per te il benessere è troppo piccolo, la pace della limitatezza troppo banale. Per te tutto è e diventa abisso, infinità. Tu e il mondo siete come un mare. Che posso mai dirti per acquietarti, quando tu respingi qualsiasi piacere come degno di disprezzo? Tutto quello che è piccolo e angusto ti confonde, ti fa ammalare; ma quello che è vasto e non delimitato ti spinge all’esaltazione o all’abbattimento, così da non lasciarti tregua né gioia. La pazienza non è degna di te, ma l’impazienza non fa che dilaniarti. Ti si onora, ti si ama e ti si compiange: in tal modo ogni godimento ti è negato. Che posso fare, poiché nulla ti rallegra? Tu mi ami? Non lo credo, debbo vietarmi di crederlo, e debbo desiderare che tu voglia vietarti di farmelo credere. Nulla ti spinge ad amarmi, altrimenti troveresti il modo di essere calmo, gentile e felice, sapresti essere paziente con te stesso e con me. Io non ho il diritto di credere di significare molto per te. Sii dunque mite, buono e savio. Quasi solo di te, ormai, ho paura, ed è un sentimento che mi affligge. Liberati dalla passione, dòminati. Quanta bellezza, grandezza, calore potresti mostrare se fossi deciso a vincerti! Ma l’audacia delle tue fantasie ti uccide, e il sogno che ti fai della vita ti rapisce la vita. Non potrebbe già essere grandezza il rinunciare alla grandezza?”. Così ella parlò. Hölderlin allora lasciò la casa, vagò ancora per qualche tempo nel mondo e infine piombò irrimediabilmente nella tenebra.

Da: Robert Walser, Vita di un poeta, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1985.

CHIACCHIERE

Chiacchiero con voi, oggi, per capire come (o perché) quarant’anni di scrittura, diciamo grosso modo 10.000-20.000 pagine, siano rimaste solo un mio progetto privato, un edificio innalzato per pochi e attenti amici, laterale a ogni forma di scrittura contemporanea anche considerata marginale. Ho voluto seguire il consiglio di Beckett: «Fallire ancora. Fallire meglio». Era questo il mio progetto? Potrei dire di sì, ma non sarebbe vero, vista la celebrità di Beckett e di molti autori altrettanto celebri, come Giacometti, nel descrivere la loro sconfitta.

C’era qualcosa, fin dall’inizio, di troppo “intimo” nella mia scrittura; qualcosa che riguarda meno la letteratura che la mia ossessione di un io-maschera, di un io-non-io che sondi le zone d’ombra della psiche. Le inevitabili conseguenze: l’enfasi sul non detto, la finzione che diventa vera, il potere del sogno, l’amore per generi “segreti” come lettere e taccuini, l’indagine “nella” follia.

Ho ostinatamente continuato a identificarmi con vite e pensieri altrui, con “anime perse” da far tornare alla luce per un attimo – artisti, folli, poeti di oggi e di ieri, me stesso – e salvarmi con loro, riperdermi con loro. Un sogno donchisciottesco, consumato prevalentemente nella cripta virtuale dell’apocrifo, un sogno composto di scritture visibili che vogliono fantasticamente riparare soprusi e, con inchiostro simpatico, si mettono sulla scia di altre parole già dette o non dette, e spariscono, tornano invisibili. Un atto illuminista e onirico: correggere ferite, ingiustizie, orrori, silenzi,con lo strumento del sogno. È il mio caparbio “discorso contro la morte”.

Torcere il reale con un atto consapevole di immaginazione fantastica, simile a quello che compie Don Quijote nelle rovinose finzioni evocate dalla sua follia cavalleresca. Un atto che, di per sé, è sogno incompiuto, lacunoso, assoluto, interminabile; un attimo di equilibrio sull’orlo del precipizio, «un prodigioso equilibrio in uno stato di disastro ininterrotto, in un continuo franare», come scrive Michaux della follia. Un sogno del genere non può avere una vasta platea. Scrive Ruggero Jacobbi, saggista poligrafo: «Tieni sempre a distanza misurabile colui che scrive il saggio interminabile». L’industria editoriale deve tenere distanza autori come me, e finora lo ha fatto con successo. Magari si può sperare che «l’accumulazione quantitativa produca un sospetto di qualità incompresa» come scrive Umberto Eco del poeta torinese, poligrafo eccentrico, Augusto Blotto, ma questa è spesso una falsa speranza. Louis René-des-Forêts ci ricorda che l’opera fallisce quando perde il senso della sua impossibilità: in questo senso, e solo in questo, la mia scrittura borderline non è fallita perché resta ben salda nel regno del suo impossibile ed è classificabile solo come anomalia, come caso clinico. Quale sarebbe, allora, il mio “caso”? Potrei racchiuderlo in una sentenza di Novalis: «l’uomo è metafora». Vuole essere qualcosa di diverso da quello che è e non appagarsi, non soddisfarsi mai, ma essere all’interno di questo desiderio. Questo desiderio è il processo creativo, incompiuto, teso a raggiungere qualcosa di sempre ulteriore. Un processo che non ho mai smesso di sondare nelle mie prose e che salva l’artista e contemporaneamente lo rende folle: «una linea chiara nel caos», come suggeriva Roberto Bazlen.

E IL CORAGGIO COME LAME. Cristina Micelli

*I testi sono tratti da Battiti sottotraccia, Qudu libri, Gorizia 2025

BATTITI SOTTO TRACCIA

Prima necessità: esprimersi. Prima necessità: ammutolire. Da dove si inizia?

M.Ercolani, Sentinella

**

In piazza degli arbirri la corriera non passa

la pensiliina ha una fermata per lo sguardo

e una per le lettere maiuscole

sul muro di fronte la scritta Belli tutti

ravviva in un lampo il rosso della vernice.

Nel paese senza nessuno

i monti scendono dai sentiieri, con i piedi

tracimati delle radici, gli occhi bassi degli arresi.

**

Filtri, insetti, manganelli nei cervelli. Ciascuno

lontano dalla gioia, rintanato in cella propria.

Confinato il moto a cuore

il moto a luogo, il viaggio fra sogno e reale

spacciato il muro per la gabbia ideale

la colata di marmo sul viso. A ciascuno.

Stanno in fila e piove l’ordine delle gocce armate

il guardare basso fa quadrato sul selciato.

si pensa alle lettere in soffitta

malgrado ciò sto bene e spero il medesimo di voi.

**

E quando non sapevamo come fare ad evitare

i depositi di odio lungo le strade, stringevamo

pietre di ametista dentro le mani, ché le moltitudini

vibravano nonoostante il male. Quello fu il segnale.

Prendemmo appunti e il coraggio come lame

e con quello spirito lasciammo l’anno.

NESSUN PRECIPIZIO E’ TERRA D’APPRODO. Per Alfonso Guida

“Devi stare al tuo posto,/ seduto, senza sforzi,/ come il destinatario/ di un colpo di pistola”. Questi versi, che traggo dal nuovo volume di versi di Alfonso Guida, Diario di un autodidatta (Guanda, 2025), si adattano al ruolo del lettore di questo libro: l’attesa del colpo fatale. Chi si aspetta, leggendo, la formula inquietante o rassicurante del diario, resterà deluso: qui viene scoperchiato il multiverso del poeta in tutta la sua furente molteplicità. Qui viene convocato un mondo intero, fatto di nomi, visioni, stili, immagini, invettive. Il termine “convocazione” è adeguato. Il libro è un raduno di fantasmi, è i nodi del dolore di un uomo, appartato per vocazione interiore e collocazione geografica; un uomo del sud ancestrale che vive, da volontario recluso, nel paese di S. Mauro Forte, in terra lucana, immerso in uno stato di sfigurazione/trasfigurazione del reale, e che racconta di sé in modo tragico e stupefatto.

Guida ha avuto, dal destino, il dono di una follia aspra e illuminante che rende questa autobiografia in versi una cantata sacra e profana, un occhio sempre aperto verso l’abisso. Chi è ustionato da una storia di catastrofe mentale ne esce marchiato, gli occhi arrossati, la mente lucidissima, l’orecchio attento alle minime vibrazioni. “La lucidità è ingegno matematico./ La mente riposa dopo una lunga/ guerra di scacchi, un alterarsi acido/ di meningi. Sei stanco. Ti rallegri/ Crolli. La stanza corre via dagli angoli./ Sudi. Rifletti. Ascolti ciò impari” (Horror vacui). Niente sembra fermare l’inafferrabile, sfrenata parola del poeta. Il silenzio è la sua sentinella segreta. Il poeta crea tutto ciò che vede. C’è una notte invisibile in queste parole che non smettono di venire alla luce: notturne, sibilline, esatte. “Soffrirai le mie passioni, i miei demoni/ smarriti, le mie scritture sfibrate,/ le mie apparenze mascherate, le ombre/ libertarie, le indecenze svendute.// Soffrirai le mie speranze taciute,/ le mie disperazioni, le mie mute,/ le mie spoglie. Mia madre e mio padre. Orse/ di un buio indefinito, tu mozzato.// Soffrirai i miei spazi bianchi, i miei tempi/ sfuggiti alla parola…” Ma chi può fuggire questa parola che incalza, che assedia l’autore, che non gli consente pause? Se “nessun precipizio è terra d’approdo”, significa che il viaggio continua, oltre ogni caduta.

Questa poesia sfonda i limiti e va oltre: non chiede di essere classificata o giudicata. Il compito del critico non è più quello di comprendere un viaggio: è quello di immergersi in una incessante “parola in atto”, in un monologo suddiviso in stazioni-poesie, tappe di un calvario per il quale l’autore non sa trovare una fine. Chi legge si trova a vagare tra narrazioni prosastiche, incursioni biografiche, impennate sapienziali, e non sa dove inciamperà alla prossima pagina. “La strada non c’era, ma ho cominciato/ presto a camminare. Non c’era niente./ Solo un vuoto orrido da cui pendevo./ Questo sentirmi attinto da un coltello”. A volte, leggendo Guida, ci si sente incollati al flusso rovinoso che non ci mollerà. La domanda è: ma vogliamo proprio seguire questa avventura umana estrema, sapendo che ci porterà soltanto nel suo “cuore di tenebra”, e anche oltre questo cuore? Le sabbie mobili, che il lettore incontrerà non volendo separarsi da queste pagine, sono la soglia del discorso. Siamo, in modo evidente, davanti a una poesia drammatica e barocca che rifugge dal barocchismo del lessico e ci sprofonda, attraverso la lingua dei nomi e delle cose, nell’abisso meduseo che sempre temiamo. “La terra è un crollo, un abisso descritto/ dantescamente da Caproni. Inizia/ l’estasi, l’entusiasmo. T’incammini”.

Scrivo, oggi, di Alfonso Guida e mi torna alla memoria il verso, denso di solitudini, di Ugo Foscolo: “Tu sol mi ascolti, o solitario rivo”, oppure la sconsolata A me stesso di Giacomo Leopardi: “Non val cosa nessuna/ I moti tuoi, né di sospiri è degna/ La terra. Amaro e noia/ La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo”. Guida ci mette nel guado di un dolore che rifiuta conforti. Questi i versi conclusivi del suo libro: “Ti scrivo dal profondo dormiveglia/ di una tregua spaventata, sprovvista/ d’inclinazione alla pace o alla quiete, / stretta tra due rose di poche spine./ Mi sto allontanando. Vado lontano./ Mi allontano. Cerco. Divago. Indugio./ Sono una figura di troppi lati./ Sono io lo scavo muto di una pioggia/ riflessiva. Ti scrivo da una riva”. Ma questi versi non concludono, non scelgono nessuna direzione per “una figura di troppi lati”: ci mettono nel guado di una vita ancora da patire o da gioire: “Mi sovrasta una gioia di terra emersa”. Il poeta è sempre nudo, con il suo dono e il suo mistero, inattuale sentinella curva sul precipizio. “La verità ti accompagna nei secoli/ di una domanda, la stessa, impossibile/ da porre, muta, viva, come il fuoco/ di un tedoforo spartano o la lotta/ di un santo, chiuso in cella, col suo diavolo”. Il tema che Guida svolge è sempre legato alla sua vulnerabilità ontologica, alla sua inadeguatezza esistenziale. “Fuori traccia, il tema svolto. All’inizio/ mi sono confuso, sbagliando il compito./ Certo, ho dovuto fare un salto indietro/ fino al canto del mondo delle origini/ per staccarmi dal peccato di amarvi, / di amarvi a uno a uno, nel buio, come ognuno/ mi ha chiesto e ha voluto che fosse amato./ Mi sto accorgendo ora di aver sbagliato/ nel darvi sempre un senso e un imprevisto”.

Guida ha la capacità di sviare il lettore, di togliergli la terra da sotto i piedi. Ora usa un tono basso e volgare, ora un tono alto e sapiente, poi racconta il destino di un dannato della terra, infine convoca nomi e storie, reali e immaginate. Mischia le carte, ma non per ingannare. Al contrario: vuole essere fedele a una sincerità scomoda, ustoria, che brucia i confini fra i generi, inventando giravolte e precipizi. Guida fa sua la definizione di Char quando afferma che “la poesia è pericolo”: scrivendo, si rischia di morire ma non si accetta mai nessuna morte. L’interminabile monologo di tutti i suoi libri è lì a dimostrarlo. Il poeta si sente “avvenire”, è lira suonata, è l’’infinita passività dei morti”, direbbe Blanchot. Guida sa che non giungerà alla radice dell’albero delle sue voci: quella radice è inattingibile. Ma intanto quelle voci le esplora e le urla: “L’energia nera, dicono,/ delle case in cui hai urlato,/ delle case in cui solo/ per te sei morto e hai evaso/ la regola comune/ di cercare ben oltre/ le tue mura d’amore./ Qui sono posseduto,/ combattuto, disgiunto./ Qui sento che l’immagine/ del corpo mi traspare”; “Mi tormentava l’insonnia, la pena di non distinguere bene la strada. Procedevo alla rinfusa. Aspettavo la terra. Avevo perso, non la casa, ma la terra, parte di questa terra”.

L’eccesso espressivo è la colonna portante di questa poesia, incapace di placarsi neppure se attinge alla verità della propria esperienza. Una verità ne chiama subito altre: la figura disperata e proteiforme, cosmica e immanente, di Guida, se trovasse pace morrebbe. Ha, fra i poeti, alcuni compagni, non più vivi e mai morti: Beppe Salvia, Dario Bellezza, Amelia Rosselli, Mario Benedetti, Lorenzo Calogero. Anime strane che vanno e vengono dalla sua mente e dalla sua pagina. La brulicante molteplicità è il sisma vulcanico che deflagra nel libro di Alfonso, una molteplicità carica di parole furiose che, come ordigni, esploderanno, in endecasillabi e settenari, dal bianco sempre intatto della pagina. “Mi era astratto assillo la realtà./ Sfidavo l’acropoli – da funambolo”. Se dovessi trovare, per Alfonso Guida, un qualche sintesi espressiva, direi che è un uomo allibito dal suo vedere senza palpebre, un vedere che ignora la tregua. (M.E.)

**

Da Oniromanzie

Paradossi, parabole, il pensiero

tellurico di sapermi in attesa

di una riposta. Nessuna pretesa.

Nessuna tesa o illesa verità

di bandiera, di patria. Ma pietraia.

Lì abitavo. Lì morivo e crescevo.

Nella brughiera cupa, soleggiata

di un’antica terra fatta pietra,

durezza crivellata. Nessun lutto.

Nessuna felicità. Nessun dubbio.

Mi ritrattavo da ogni tesi, diatesi,

paradigmi di versi impersonali,

di verbi deponenti, verbi anomali.

Parlavo lingue di alieno – ufo – mostro.

Parlavo strambi linguaggi di vento,

vinti al vostro scherno, al mio astro in declino.

La scoperta del trauma del Doppio.

La scoperta di non essere solo,

mai del tutto uno e solo, mai isolato,

come da un 41 bis interno,

territorializzato al mio corpo intimo.

Mai uno e solo ognuno è dentro, scrivendo.

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Ponte Galeria

La tuta Agip del ragazzo albanese.

Pozzanghere di pioggia. Asfalto rotto.

Le medicine sbagliate. Il latino

di Santa Lucia. Maria Grazia. Gloria.

Finivo, all’alba, come uno spavento,

tra i corridoi e le serrande sbilenche

di un treno e Gabriella, che leggeva

Pasternak, parla dell’erba fitta

delle borgate e il sole alto alle sette.

Di amare circostanze. Mi parlava.

Rischiai l’espulsione dall’istituto.

La folla vedeva. Vedeva tutto.

Dal nero di un foglio millimetrato,

Vedeva nero straniero, buio caos.

L’AMICIZIA. Jean Dubuffet

A Jean Paulhan

sabato 11/3/1944

Caro signore,

è bello pensare che le cose veramente valide, le conquiste veramente valide non si pagano, non hanno prezzo. Una cena da Maxim’s va benissimo, è ovvio, o almeno dovrebbe, ma cos’è, per esempio, rispetto al guardare le foglie di un pioppo che stormiscono, o all’immergere la mano nell’acqua di un ruscello. O all’incontrare per strada un passante che vi accompagna e vi parla. Vi offre la metà della sua mica di pane. Parla piacevolmente bene talvolta (sovente): con arte. Parlare è un’arte, esattamente come dipingere. Gesticolare pure è un’arte. Quelli che lo fanno bene, come capita di vedere nelle locande di campagna, non lo fanno per caso, è un qualcosa di coltivato da costoro con grande cura, più volte ripetuto, messo a punto, fonte di grande gioia, un gioco, un graziosissimo gioco che delizia la vita di chi ci si dedica. Riguardo a vendere le sue chiacchiere… sarebbe piuttosto pronto a pagare affinché si stesse ad ascoltarle. È lui quello che si diverte di più nell’affare. Il mio piccolo gioco per me è esattamente così e intendo mantenerlo su questo piano, sicuro che sarebbe meglio distruggerlo anziché chiamarlo un giorno per nome: chiamarlo “arte” – una parola che non dovrebbe mai essere pronunciata, una parola che uccide nell’istante il suo oggetto. Di quest’opera, che sarei più contento io di offrirle che non lei di ricevere, e che si pone su un piano del tutto disinteressato a quello del prezzo, lei mi pagherà dunque, se vorrà, non in contanti, ma in natura, con la più preziosa derrata del mondo: l’amicizia.

*Il testo è tratto da: Jean Dubuffet, Piccolo manifesto per gli amatori di ogni genere, a cura di Alessandra Ruffino, Allemandi editore, Torino 2021.

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Immagine di Jean Dubuffet