Sorprende, in Ritratto di donna al mare con bambino, di Francesco Macciò (puntoacapo, 2025) come l’autore, pur profondamente legato alla tradizione letteraria italiana, sperimenti combinazioni musicali nuove, che frastagliano la compattezza metrica del testo. «Un lungo processo di elaborazione, destinato a stratificazioni successive, ha portato alla luce questo volume in una partitura che pensavo finalmente definita e pertanto definitiva”, scrive l’autore nella premessa, confermando che il libro, come ogni vero libro, non risponde solo al desiderio e al progetto di chi lo costruisce ma anche all’imponderabile, alla necessità di togliere, cancellare, sostituire, trasfigurare. «D’altra parte, in queste vicende e per quelle cose, mi è parso sempre disappropriato e pretenzioso, persino a distanza ravvicinata, il possessivo “mio”».
Nove le sezioni del libro: Ritratto di donna al mare con bambino, Riquadri in chiaroscuro, Dialoghi con il padre, Rapsodie in principio di voce, Nel cristallo di questa stanza, Velocità, Autunnale, Il mondo tra parentesi, Numerologia. Titoli evocativi, che generano rapsodiche incursioni. Inizio questa nota (ogni “nota” ha il dovere di risuonare) con una poesia che mi ha spinto a diverse riletture: «Si comincia sempre dal mezzo./ Nel mezzo non sono mai bianche/ le pagine. Sono tutte già scritte.// Parole dette da altri,/ congegni da smontare/ e ricomporre come una voce/ dentro le voci. Come le cose/ a picco in un punto, in un’idea.// Le stesse cose a sbreghi/ e suture. Le cose stesse/ nel bianco di ogni colore». Come separarsi dall’immagine rocciosa delle “cose a picco in un punto”? Dalle cose immerse “nel bianco di ogni colore”? Il poeta non si nasconde: antepone, alla musicalità dei versi, la forma, scabra, di un pensiero dolente sull’esistenza. E, più oltre: «Mette il mondo tra parentesi/ in minutissima grafia,/ traccia quel segno che rimane / per potersene andar via». Non so quanto voluto, ma il riferimento immediato va alla micrografia di Robert Walser, capace di addensare in un foglio fitto di parole indecifrate un racconto o un romanzo. Un “mondo fra parentesi” è sempre il regno del poeta, il suo segno è l’occasione per fuggire il prevedibile regno delle cose. Le cadenze di Macciò ci propongono, a inizio libro, una visione dove la pienezza dello sguardo è la consapevolezza di una irrimediabile malinconia: «È già tutto dentro di me/ il tuo viso che sfiorisce,/ il mistero di insetti come nuvole/ che offuscano il sole,/ quest’albero di foglie dure/ che non ci appartiene/ e i suoi grandi fiori bianchi/ dove risorge il mondo in un niente/ e diventano mie/ le tue scarne parole». Il dettato del poeta ha una sua sobria, classica solennità, dove domina la dolorosa litania del ricordo: «Neppure una virgola resterà di noi/ come di nessun altro/ nel dissesto di questa terra»; «Se soltanto potessimo scoprire/ nel profilo scavato dei monti/ quell’orizzonte che non conosciamo…»; «Nel suono di una sola nota/ un alfabeto immaginario/ disegna nell’aria la forma/ di un corpo che muore».
Ogni lettore ritaglia, in un volume di versi, il libro personale che si adatta alle sue più intime emozioni. La voce del poeta, se è sincero colloquio con se stesso, ci parla di una verità sacra e vera per tutti, dove madre, padre, giochi, infinito, nostalgie, nomi, misteri, formano la materia comune di un viaggio “al termine della notte”. «Tutto è segretamente qui/ come un fascio di cartilagine,/ un osso ostile, come i boschi,/ le sorgenti, i volti che vegliavano/ sicuri su noi bambini e sembrava/ non dovessero mai avere fine». Permane innegabile, in Macciò, una virgiliana nostalgia, un suo intimo lacrimae rerum, la sensazione di un implacabile svanire. L’autore è consapevole che la tessitura delle parole è il mosaico di un dolente e ripetuto andare: «Non è che un ricordo, un calco/ di vertebre in frantumi/ quel posto sotto la pensilina/ tra i bidoni dei rifiuti/, un posto di scambio dove qualcuno/ qualcuno ha lasciato/ un bastone da passeggio,/ un ricettario,/ una giacca come una vela/ Forse la vita – quia teritur -/ anche la vita come la terra/ è di chi la ama, di chi la consuma»». Il “posto di scambio” ci avverte di un destino comune, ma “una giacca come una vela” è il segno preciso della speranza. Leggere il libro di Macciò è osservare/udire una partitura i cui tempi non sono prevedibili: ora vibra l’andante con moto della nostalgia, ora il presto agitato dell’indignazione: «Nasce sempre intorno al fuoco/ la poesia: è compassione, ribellione,/ è nel vento e nel silenzio…». Non mancano fenomeni di identificazione con i “dannati” della terra, con le vittime dei lager: «Nella luce ambrata/ scorgo il simulacro di un corpo/ magro che sembra il mio/ o quello di un mio antenato/ drenato nelle cartilagini,/ nel talco delle ossa, anch’io/ come lui uomo chiodo/ disceso dalle balze d’Appennino/ in queste basse zone di città/ e di pianura». Ma prevale, nella poesia di Macciò, la fermezza della disperata speranza, che proprio attraverso le parole, spesso viste come schegge o macerie, prende voce e forma nel tono dolce e sapienziale del discorso: «”Non devi avere paura:/ non finisce qui la terra,/ c’è ancòra altra terra/ sotto il mare, e ci sono/ radici, scogli, erba,/ paesi nuovi da esplorare.// Si dice che sulla terra/ si appoggi, non si sa come,/ tutta l’acqua e sul fuoco/ l’aria e il fondo del mare…”».
Il libro si chiude con i guizzi delle Numerologie finali, brevi, ironiche, serissime litanie-enumerazioni, che riportano la poesia al suo essere parola che evoca parole, senza obblighi di discorso, messaggio, suono. Citiamo almeno Sette, che conclude il libro: «I colori dell’arcobaleno/ Le meraviglie del mondo/ Le note musicali/ Le grandi isole di plastica/ I vizi capitali I metalli/ I veli della danza/ Le sfere celesti/ Le arti liberali/ I giorni della creazione/ I Sacramenti Le virtù/ Le stelle dell’Orsa/ Le Pleiadi Le vocali/ I mesi del pianto di Orfeo/ Le vertebre cervicali/ I colli di Roma I chakra/ I bracci della Menorah / Le porte di Tebe/ I nani di Biancaneve/ Gli attributi di Allah/ Gli dèi della felicità/ I sigilli dell’Apocalisse/ Gli uomini d’oro/ I dolori di Maria/ Le vite dei gatti/ Quelle di mia madre/ Le foci del mare/ I magnifici…/ miei lettori…»
Ma l’ironia di Macciò, che avvicina il pianto di Orfeo alle vertebre cervicali, le vite dei gatti ai magnifici lettori, non deve indurci in inganno. La tessitura del libro, che procede per sequenze diverse come un poema musicale, è un lungo compianto che non ci avvicina a qualche improbabile futuro ma ci rende viva linfa del passato, recente e remoto, nei suoi nodi di dignità e di dolore. I Lirici greci, tradotti da Salvatore Quasimodo, sono lo sfondo non troppo segreto a questa poesia essenziale, asciutta, commossa, che mette i suoi timbri al servizio di una ferrea grazia espressiva: «Ritornerà anche ciò che amiamo/ nel prodigio di un’altra forma./ Soltanto la polvere/ preserva ogni traccia, / ogni cosa che ricade in se stessa/ e disseccandosi scompare».(M.E.)
*Francesco Macciò, Ritratto di donna al mare con bambino, note di Giuseppe Conte, Fabio Pusterla, Davide Conrieri, puntoacapo editrice, Pasturana, Alessandria 2025.
La tua domanda mi tormenta fin dall’inizio. Essere schiavi è l’inizio di tutto il dolore umano. Quando si è asserviti a teorie o a persone, si comincia a impazzire, proprio per combattere quelle prigioni. Da qui l’istinto di fuggire, l’ossessione del nomadismo. Ascoltare sì, ma non assentire al mondo come se ne fossimo solo gli specchi. Vivere da monaci in esilio, fuori dal mondo non per troppo tempo, solo per il tempo che decidiamo noi: il tempo della misura adeguata a costruirci un temenos interiore, una riserva sacra dove nessuno potrà entrare: una stanza munita del giusto vento dove saremo al riparo dall’oltraggio che il mondo attua sempre, società contro individuo, uomo contro uomo. Saremo noi ad aprire la porta della stanza, non gli altri a forzarla: un bambino può fantasticare solo all’interno di sé, cominciando ad erigere la sua fortezza interiore con la giusta dose di empatia e di equilibrio, e quell’intenso desiderio di bellezza che purifica dai più oscuri legami. La malattia mentale non è solo sintomo da cui guarire, non è mai difetto o lacuna, ma lotta spasmodica contro l’ordine rigido del discorso (potresti impararlo anche tu, senza scomodare Freud o Foucault). La psichiatria non è una scienza esatta ma un viaggio fluttuante nelle tenebre.
Nel gennaio del 1889 Nietzsche è giudicato clinicamente pazzo e le sue invettive filosofiche appaiono, allo sguardo dei lettori futuri, non come tappe di un nuovo ordine filosofico ma come anamnesi. In un aforisma di Aurora scrive: «Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali; e ciò vale in verità per i novatori in tutti i campi». Con Nietzsche il desiderio di essere folli entra nella storia della filosofia e la necessità di un pensare oltre, fuori dai bordi della ragione, diventa sostanza fondante del pensiero, come le categorie del discorso. Ma chi sprofonda definitivamente nella malattia mentale rischia di perdere quella che è la vera fiamma della follia, di trovarne le braci carbonizzate negli archivi di una letteratura psichiatrica destinata a ripetere formule logore, riti asfittici. L’idea del folle, se non viene offuscata dall’uso prolungato degli psicofarmaci, è e resta quella di una chiesa incomparabile, dalle guglie altissime, che rende immune dai pensieri meschini degli altri: una cattedrale personale inscritta nei segreti di un sapere che niente ha in comune con gli altri saperi perché è un lampo che sconfina fuori dalle terre ragionevoli.
Antonin Artaud, nei suoi Cahiers de Rodez, scrive “C’est la recherche d’un monde perdu / et que nulle langue humaine n’intègre”. Lo scrittore francese parla di un mondo perduto, di una lingua che non può integrarlo. Le teorie antropologiche dello psichiatra Binswanger sono davvero diverse dalle parole del folle Artaud? Ogni uomo è alla ricerca di un mondo perduto e irriconciliabile, come io stesso rivelo in molti racconti autobiografici e fantastici, parlando di sospensioni e di vertigini. Come scrive, nei versi della Nona Elegia, Rainer Maria Rilke: «Quest’essere / stati una volta, anche una volta sola, / quest’essere stati terreni pare irrevocabile». Rilke parla da una prospettiva angelica, ma essere terreni è una responsabilità precisa. La stirpe umana ha meritato un giudizio, quello sì, irrevocabile, sulle proprie non perdonabili colpe. Lo scrittore deve lottare, libro dopo libro, perché tutte le guerre che ha visto esplodere in tutti gli angoli del mondo, da Serajevo a Bagdad, da Sétif a Bassora, non vengano cancellate dalla memoria collettiva come dall’indifferente commento di un cronista corrivo al potere.
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“Di fronte a molti uomini parlai ad alta voce con un istante di una delle loro altre vite”: questa frase di Une saison en enfer trafigge da sempre ogni poeta. Hai fatto bene a chiedermi se il ragazzo di Charleville è uno dei miei scrittori prediletti. Non potrebbe non esserlo. Rimbaud, il vero nomade, gioca con la necessità di essere le proprie vertigini, con il pericolo di viversi oltre lo spazio e il pensiero. I calessi, i mostri, i misteri, le moschee, le officine, le pitture idiote, i titoli da vaudeville, sono “la patria d’ombra e di gorghi” che il poeta raggiunge, e da cui non si allontana. Con Une saison en enfer la lingua poetica è eternità che si ritrova e mare dissolto nel sole. Il sarcastico Rimbaud sposta le frontiere del noto in avanti, verso ciò che di inaccessibile e di sovversivo predispone per noi. Prepara scritture future, che prima di lui erano impensabili. Le rende possibili. L’uomo che scrive “credevo a tutti gli incantamenti” è lo stesso che scrive “Adesso posso dire che l’arte è una sciocchezza”. Come pochi altri classici della poesia, Rimbaud non è leggibile in modo conclusivo. La sua incursione nel mondo della letteratura è una meteora disgregante, un’intrusione che disarticola domande e risposte, un furore freddo e grottesco che imbarazza la magia stessa della scrittura. Come accade con Céline: la sua feroce disubbidienza ai canoni del pensiero comune è attuale sempre. Se è vero che lo scrittore vendeva benissimo i suoi libri antiproustiani, sghembi e geniali, bombe verbali annidate nell’armonica bellezza della lingua francese, è altrettanto vero che, con la sua aria da iroso e debosciato clochard curava gratis pazienti poverissimi. E lo faceva a bassa voce, senza i proclami antisemiti che torcevano la sua lingua massacrata dalle pause iperboliche, dai puntini di sospensione.
Essere non come Rimbaud e Céline ma essere accanto a loro ci rassicura: perdersi è inevitabile, ma nella strada giusta. Come accade a chi scrive quando sceglie certe scie, nella storia, dove non abitano solo i suoi libri ma intere generazioni di esseri perduti.
L’esperienza del deserto è stata, per me, dominante. Tra cielo e sabbia, tra il Tutto e il Nulla, la domanda è bruciante. Brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto. Non solo si sente ciò che non si potrebbe sentire altrove, il vero silenzio crudele e doloroso perché sembra rimproverare persino al cuore di battere; ma capita anche, per esempio quando si è sdraiati sulla sabbia, che di colpo un rumore insolito ci incuriosisca; un rumore come quello di un passo umano o animale, ad ogni istante più vicino, oppure che si allontana, o pare allontanarsi, mentre in realtà segue la sua strada. Dopo un lungo momento, se davvero ci si trovava nella sua direzione, sorge dall’orizzonte l’uomo o l’animale che il nostro udito ci aveva preannunciato. Il nomade avrebbe saputo identificare quella «cosa viva» prima di vederla, subito dopo che il suo orecchio l’aveva percepita. Questo perché il deserto è il suo luogo naturale.
Così come il nomade ha fatto col suo deserto, anch’io ho cercato di circoscrivere il territorio bianco della pagina, di farne il mio autentico luogo; al modo dell’ebreo, che da millenni si è appropriato il deserto del suo libro, un deserto in cui la parola, profana o sacra, umana o divina, ha incontrato il silenzio per farsi vocabolo, ossia parola silenziosa di Dio e ultima parola dell’uomo.
Ma il deserto è assai più di una pratica del silenzio e dell’ascolto. È un’eterna apertura. L’apertura di ogni scrittura, quella che lo scrittore ha il compito di preservare.
Apertura di ogni apertura.
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Il deserto
«La parola d’origine è parola del deserto; oh deserto della nostra parola», scriveva reb Aslan.
«Non c’è luogo per chi è condotto dai propri passi verso il luogo natale;
come se nascere non fosse altro che andare verso la propria nascita.
Il mio avvenire è la mia origine», diceva.
«Non vi è più possibilità di ritorno per chi si è inoltrato nel deserto. Venuto da altrove, l’altrove è il suo orizzonte geminato.
Sabbia è la domanda. Sabbia è la risposta. Il nostro deserto è illimitato», scriveva reb Semana.
In ciascuna mano teneva un po’ di sabbia: «Da una parte, le domande; dall’altra, le risposte. Le une e le altre hanno lo stesso peso di polvere», diceva anche.
Creare è trasformare il futuro nel passato di ogni atto.
Con regolarità esemplare, l’ebreo riprende il proprio cammino volontario verso il deserto; va incontro a una parola rinnovata che è divenuta la sua origine.
«Creando, tu crei l’origine in cui ti inabissi», scriveva reb Samua.
«L’origine è abisso».
reb Behit
*
– Se Dio ha parlato nel deserto, è per privare di ogni radice la Propria parola, affinché il Suo legame privilegiato sia costituito dalla creatura. Noi faremo della nostra anima un’oasi nascosta, diceva reb Abravanel.
– E cosa faremo della Sua parola scritta? – chiese il discepolo.
– Trasformeremo i suoi vocaboli di fuoco in un libro di fuoco inconsumabile, rispose reb Abravanel.
Ma reb Hassoud, i cui discorsi e commenti, per via della loro arditezza, erano di solito accolti male dagli esegeti, intervenne e disse:
– Errante è la parola di Dio. Ha come eco la parola del popolo errante. Per essa non c’è oasi, né ombra, né pace, ma solo l’immensità del deserto assetato, ma solo il libro di questa sete, il fuoco devastatore del fuoco che riduce in cenere tutti i libri, sulla soglia dell’ossessiva illeggibilità del Libro tramandato.
«Cos’altro abbiamo fatto, se non metterci indefinitamente in questione, interrogando persino il ronzio della mosca? In questo consiste il nostro umile merito, ma anche la sorgente della nostra disperazione», scriveva reb Feroush.
«In quale momento straziante della nostra impotenza ci occorrerà imporre al libro l’arresto della nostra lettura?
Io chiudo gli occhi. Mi rifiuto di andare oltre.
Che il libro possa infine liberarsi dalle nostre catene», aveva annotato.
* * *
Il dopo-deserto
Il fuoco partecipa della ricchezza come della miseria, della foglia come del seme, della stella come del ciottolo.
Il deserto fa paura al fuoco.
«La Parola di Dio, che è di fuoco, un tempo fu parola effimera e localizzata, perché il deserto le impedì di propagarsi; ma da dove deriva il fatto che essa risuoni ancora nell’universo, come il grido stesso della vita? È che il deserto l’ha respinta», scriveva reb Basri.
«E l’universo, colpito dalla folgore di El, polvere d’oro su sabbia d’oro, si stenderà da ultimo nel deserto per un sonno eterno.
Così, per istinto, abbiamo appreso che Dio era la morte», aveva scritto reb Assayas.
E altrove: «Ah! diffida di quella divina Parola di vita, poiché sorge dalla nera gola della morte. Ed è alla tua morte che s’indirizza.
Da vivo, non avrai mai altro che il presentimento della Parola di Dio».
«Sento la voce lontana di Dio, diceva reb Toueta. Entro, passivo, nella morte».
Tutte queste teste senza colli.
Tutti questi colli senza spalle.
Tutte queste spalle senza torsi.
Tutti questi torsi senza polmoni.
Tutti questi polmoni senza ventri.
Tutti questi ventri senza anche.
Tutte queste anche senza gambe.
Tutte queste gambe senza piedi.
Tutti questi piedi senza terra.
Tutti questi libri senza titoli.
Tutti questi titoli senza fogli.
Tutte queste pagine senza frasi.
Tutte queste frasi senza parole.
Tutte queste parole senza lettere.
Tutte queste lettere senza inchiostro.
Tutto questo inchiostro senza notte.
Tutte queste notti senza sonno.
… questo sonno senza risveglio.
… questo risveglio senza sole.
E reb Ayad disse: «Che cos’è il deserto se non la prova della completezza, la morte nella morte quotidiana?».
E Yukel disse: «Solitudine delle nostre teste cadute, delle nostre spalle disfatte. Solitudine dei nostri torsi, dei nostri polmoni schiacciati. Solitudine delle nostre anche spezzate, delle nostre gambe immobili. Solitudine dei nostri mattini e delle nostre notti; dei nostri occhi fuori dalle orbite e delle nostre mani senza braccia; della nostra lingua e dei nostri libri.
Oh, Sarah, come potrebbe un corpo fatto a pezzi sapere di essere stato, una volta, un corpo e come potrebbe aspirare a riunire le proprie parti disperse? Quale mezzo dovrebbe inventare per riuscirci? Quale parte di sé avrebbe una forza sufficiente per prendere l’iniziativa?
L’unità non è che ardente desiderio di unione e la totalità non è che frammenti elettivi esposti alla frantumazione.
Solo il deserto – forse perché questo dopo-mondo, come un cancro non ancora scoperto nel corpo rigoglioso dell’universo, quest’ineluttabile fine di tutte le fini di un mondo che rinasce, ma condannato – è stato e non potrebbe che essere per sempre, accanto al cielo, accanto al vuoto celeste – come si è a ridosso della luce che ci restituisce all’ombra e della notte che ci restituisce all’aurora –, da un orizzonte all’altro, che il legame supremo con la morte».
– Cosa c’è di più insolente della morte? chiedeva reb Eliaram al suo maestro reb Saada.
– Forse il dopo-morte, l’avvenire sfrontato della nostra tanto temuta assenza, gli rispose il maestro.
«Il deserto è sempre la distesa recuperata dei nostri deserti.
Oh, morte dopo la morte.
Oh, fuoco prima della fiamma.
Il deserto non sarebbe altro che l’estrema somiglianza col libro bruciato che, nella sua eternità, ogni granello di sabbia, per l’istante che s’immobilizza, eleva al trono», diceva.
(Traduzione di Giuseppe Zuccarino)
* I tre brani, tratti da E. Jabès, Le Soupçon Le Désert (Le Livre des Ressemblances, II), Paris, Gallimard, 1978, pp. 56, 123-125 e 133-135, sono stati pubblicati in “Scriptions” seconda serie, 5, 2020, a cura di Luisella Carretta.
Da Dalì. Ci fa vedere tre quadri minuscoli, ma sta qui il merito di questo pittore, poiché i suoi quadri, che hanno la dimensione d’una cartolina, fanno l’effetto di essere molto più grandi perché sono concepiti come grandi quadri. Uno può spalmare di pittura una tela di dieci metri quadrati e non produrre in definitiva che una miniatura ingrandita; il che è accaduto così spesso ai pittori ufficiali. Dalì fa tutto il contrario. Mette il cielo e la terra in uno spazio ove non starebbe una mano. La più bella fra le pitture che ci mostra rappresenta quattro personaggi in riva al mare. Due uomini vestiti di grigio sono sdraiati sulla sabbia; accanto, una governante seduta e vista di spalle; vicino a lei un ragazzetto in blu, con una braciola in testa. Quella braciola, mi dice il pittore con gravità, è derivata dall’idea contenuta nella storia di Guglielmo Tell, storia che tradurrebbe, sembra, il desiderio soffocato del padre che sogna di uccidere il proprio figlio. Uno degli uomini sdraiati sulla sabbia è Lenin. La governante accanto porta un abito lilla le cui pieghe sono eseguite con un senso quasi allucinatorio del rilievo. Osservando quei personaggi si finisce con l’avere l’impressione che essi sono rimpiccoliti, non dal pittore ma da una distanza enorme e che si vedono attraverso un potente cannocchiale. Dalì ci fa vedere poi un certo numero di disegni ove quella che si potrebbe chiamare l’ossessione della carne è chiarissima. Non si tratta che di orologi di carne, di cosciotti diventati violini, di braciole-rivoltelle, di stomachi mutati in cuscini.
*I testi sono tratti da: Julien Green, Diari 1928-1934, traduzione di Libero de Libero, Mondadori, Milano 1946.
*Da: Ilaria Palomba, Purgatorio, Alter Ego Edizioni, Viterbo 2025.
Mi sono innamorata di Thierry Metz, è stato Zadkiel a farmelo leggere, Zadkiel sa vedere la bellezza oltre questo male, lui non mi sente affatto malata, lui mi vede nell’estrema purezza, e nelle sue lettere ritrovo la vita che mi sfugge ogni giorno, quella che volevo eludere, e non si può, si può solo cadere in un piano inferiore; ma lui è la profondità e l’altezza, a ogni mio demone contrappone il celeste. Per lo più si perde sulla strada chi non desidera altro che un compenso; restano coloro che non chiedono, restano perché non hanno nulla da scambiare, o muoiono per questo? Quando le ombre bussano a tutte le pareti, so che ho bruciato uno stralcio di vita, che non potrò più stagnare in desideri appartenenti al prima, e so che questo viaggio è lungo, faticoso, infingardo. Bisogna bendarsi gli occhi e farsi legare come Ulisse per resistere al canto delle sirene. Non so in cosa credere, non so a cosa aderire, se non a un intimo sentire; all’amore, alla gratuità del dono. Ingiusto è ogni angolo di strada, è gratuita anche la condanna, ma il dono di essere vista, ascoltata – fosse pure da una sola persona – non posso dimenticarlo, non posso fingere non esista. Altro non è quasi umanamente accettabile, eppure, ho imparato a tralasciare. Il fango si sgretola al sole, l’acqua scorre, lì dove credi sia buio, è la sorgente.
*
Sto attraversando il deserto, da decenni, decenni, ora è la notte del corpo, l’anima rinasce dal fondo, sa sempre dove volgersi, vive altrimenti. Quando esco dall’ospedale non posso camminare a lungo, devo usare il girello, mi sembra di avere cento anni. Piango moltissimo, prego, litigo con la madre, la insulto dicendole di andarsene, sembra una statua di cera, ha una forza che mi atterrisce. Cerco conforto nella musica, chiusa in stanza, a letto, le impedisco di entrare. Il padre risponde insultandomi, appellandomi: Cretina, stronza, imbecille; la madre, imperturbabile, seguita a cucinare e a bussare alla mia porta serrata. Sfianca questo combattere, infine ti fai da parte come un animale morente, vai a metterti nel cantuccio, dici a tutti lasciatemi in pace, e i guardiani che stanno lì a scrutarti dentro, ad ascoltare le lacrime attraverso la porta, le telefonate notturne, a chiederti dettagli. Al mattino cerchi di andare in bagno ma è occupato. Dici ho i brividi, forse ho la febbre. Pure la febbre adesso, dice il padre. Se voi poteste lasciarmi in pace, dici, ma smuovi l’orgoglio cosmico, scateni l’offesa, il padre indossa il cappotto, dice me ne vado, lo vedi piangere, esci dal tuo murarti viva solo per buttarti sulle ginocchia, chiedere perdono, ricominciare a farti accudire come una neonata, soccombere in questa cura che non è cura, nelle parole che non vuoi ascoltare, hai bisogno di silenzio, di trascorrere un anno in silenzio, di capire cos’hai fatto, di perdonarti, o non farlo, ma capirlo da sola nel la tua stanza, nel tuo silenzio. Chi potrebbe vivere al tuo posto senza voler morire? L’altra sa cosa è giusto. Tu vai incatenata nelle strade. Resti agganciata alla stanza. Sei la stanza. Lei conosce il punto limite, è lì che vive, fuori dalle pareti. Tu sei in ospedale, non hai più trovato la via fuori, hai accettato la perdita, ti sei legata alla promessa di libertà offerta dall’altro, la prigionia. Hai paura del dolore, non vuoi più uscire. Lei attraversa la notte senza curarsi del corpo. Zadkiel ti telefona ogni notte, guardate insieme L’invitation au voyage di Germaine Dulac, senti il terrore di perderlo. L’amore più grande si serve dei corpi e li tra scende. È una beffa della materia, non conosce limiti. Tu cerchi di arginare il male e ti smargina, deborda. Provare a fare tutto come prima. Avvertire la trazione della materia. Ripiombare. Coprirsi. Dormire.
Marco Ercolani, Discorso contro la morte (dicembre 2008).
Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica (aprile 2015).
AA. VV., Robert Walser. La grazia e l’abisso, a cura di Marco Ercolani (aprile 2016).
AA. VV., Perturbamento, a cura di Marco Ercolani (novembre 2016).
Giorgio Galli, La parte muta del canto. Vite ritrovate di musicisti (novembre 2016).
Alfonso Guida, Diari del transito. Febbraio-marzo 2018 (giugno 2023).
Giuseppe Zuccarino, Linguaggio e follia (agosto 2023).
Marco Ercolani – Angelo Lumelli, Cento Lettere (2023) (ottobre 2023).
Arlindo Hank Toska, Emil Cioran. Scrittura dell’Irreparabile (ottobre 2023).
Chiara Romanini (La Valse), Ninfe (aprile 2024).
Marco Ercolani, Francesco Denini, Ground. Lettere sulla musica (ottobre 2024)
Marco Ercolani, Giuseppe Zuccarino, Reciproche consonanze (gennaio 2025)
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Serie «Isola delle voci», a cura di Lucetta Frisa
Luigi Sasso, Fuori dal paradiso (novembre 2005).
Flavio Ermini, Antiterra (marzo 2006).
Maurice Blanchot, Noi lavoriamo nelle tenebre (marzo 2006).
Giuseppe Zuccarino, Grafemi (aprile 2007).
Bernard Noël, L’ombra del doppio, a cura di L. Frisa, (aprile 2007).
Alain Borne, Poeta al suo tavolo, a cura di L. Frisa, (novembre 2011).
Giuseppe Zuccarino, Note al palinsesto (marzo 2012).
Ghérasim Luca, La Fine del mondo (Poesie 1942-1991), a cura di A. Riponi (marzo 2012).
Claude Esteban, Qualcuno nella stanza comincia a parlare. Poesie e prose scelte, a cura di L. Frisa (settembre 2015).
Giuseppe Zuccarino, Rifrazioni e altri scritti (marzo 2017).
Luigi Sasso, Vocazioni (novembre 2017).
Marco Mortara, La traccia delle cose assenti (settembre 2023).
Maurice Scève, Délie. Oggetto d’altissima virtù , a cura di L. Frisa(dicembre 2023).
Palabras del Sur. Otto poeti argentini contemporanei, a cura di M. Liberatore (gennaio 2024).
Francesco Marotta, Da un’eternità passeggera (aprile 2024).
Luigi Sasso, A fondo perduto (settembre 2024)
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Serie «Segni e visioni», a cura di Marco Ercolani e Lucetta Frisa.
Lucetta Frisa, Sulle tracce dei cardellini (una «flânerie»), disegni di Gianfranco Carrozzini e Giuseppe Pellegrino (settembre 2009).
Lorenzo Pittaluga, Al termine di noi. Poesie postume, acquerelli di Claudia Sansone (settembre 2009).
Luigi Sasso, Tutti i nomi del mondo, disegni di Marco Locci (settembre 2009).
Paola Mongelli, Della visione inquieta, con un testo di Dario Capello (ottobre 2009).
Serena Olivari, La furia di quel piccolo niente. Poesie 1991-2007, acquerelli dell’autrice (giugno 2013).
Sylvie Durbec, Chaussures vides – Scarpe vuote, disegni dell’autrice, copertina di Bastien Ridard. trad. di L. Frisa (dicembre 2013).
Alice Marinoni, E voleva le ali ai piedi, testi di Gianluigi Bellei, Viana Conti, Marco Ercolani, Luisa Figini, Mirella Marini, Luca Patocchi, Anik Zanzi, poesie di Lucetta Frisa, acrilici e ricami dell’autrice (dicembre 2013).
Ilaria Seclì, La sposa nera, fotografie di Anthony Boistel e dell’autrice (febbraio 2016).
Silvia Comoglio, sottile, a microchiarore!, dipinti di Oddino Gagliardi (aprile 2018).
Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Elio Grasso, Massimo Morasso,
Luigi Sasso, Giuseppe Zuccarino
A margine è il titolo di due incontri che si terranno alla Biblioteca Universitaria il 18 e il 20 febbraio 2025. Tali incontri, nei quali si intende ripercorrere l’itinerario della rivista “Arca” e della collana “I libri dell’Arca” (esposti in Biblioteca dal 5 al 28 febbraio 2025), riguarderanno la memoria (quella di una sotterranea Genova letteraria) ma anche il futuro. Non si tratta infatti di cercare oggetti del passato da archiviare, bensì di continuare un viaggio fra testi, curiosità, sogni e progetti, richiamando scritture che ne evocano altre, presenti o future. Ma di questo viaggio letterario, che ha avuto luogo a Genova dal 1992 a tutt’oggi, cosa resta? Poeti, narratori, critici, saggisti, cosa hanno tentato di fare, e in quale punto della loro strada si trovano? Quali vie hanno già percorso e quali intendono percorrere, all’interno di una ricerca che è anche un’ipotesi di libertà? Ciò che accomuna gli scrittori coinvolti nel “progetto Arca” è una visione del mondo attenta ai nodi segreti dei destini e delle scritture.
Tutto nasce, alla fine del 1992, dal desiderio condiviso di realizzare una rivista che ospitasse testi rari e di qualità. Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Elio Grasso, Giuseppe Zuccarino, si incontrano per realizzare tale progetto, e più tardi ai primi redattori si aggiungerà Luigi Sasso, mentre a Elio Grasso subentrerà Massimo Morasso. Intanto, perché il nome “Arca”? L’arca è una nave che custodisce, preserva, salva. Quindi la prima idea è quella di “salvare” (pur nella consapevolezza che nulla si salva in arte, e tutto è destinato a perdersi). Ma cosa? Scritture che siano degne di essere salvate.
Partiamo dall’inizio. I testi da noi tradotti e scelti erano affidati a buste, sulle quali era stampato il logo ARCA (idea dell’editore Franco Pirella, a partire dal segno di Ugo Nespolo). Le buste, dal 1992 al 1996, venivano spedite a quaranta amici. Questa è stata la prima serie di “Arca”, tutta artigianale, un atto clandestino di cultura, letteratura, amicizia, con testi da scoprire o riscoprire. Sono seguiti trent’anni di un’avventura letteraria comune, con soste e ripensamenti, ma sempre alla ricerca di linee espressive condivise. “Arca”, però, è anche un progetto utopico, perché rivista e libri esistono, sì, ma all’interno di un mondo segreto, ignoto ai più, non allineato, refrattario alle luci pubbliche dei palcoscenici letterari, e molte delle pubblicazioni di allora sono ormai introvabili. Occorre tener presente che quando nacque “Arca”, nel 1992, i social media non esistevano e non si navigava nel web.
Dopo i primi 40 numeri (spediti ad altrettanti amici), ci siamo organizzati in maniera tale da poter pubblicare una rivista tradizionale, benché prodotta in un numero di copie limitato a 100. La nuova “Arca” si presentava suddivisa in varie sezioni: Segnali (traduzioni da classici antichi e moderni), Destini (storie e opere di artisti), Variazioni (temi per noi significativi), Sinopie (testi critici e teorici sulla pittura), Graffiti (interventi visuali di artisti).
Alla traduzione si è affiancata la volontà di mettere in evidenza certi “destini artistici” che ci parlavano per originalità, potenza, unicità, come quelli di Alberto Giacometti, Louis-René des Forêts e Henri Michaux (il primo è oggi universalmente noto, ma gli altri restano ancora patrimonio della sola élite culturale). Infatti non ci attrae un Picasso celebre e potente,, ma piuttosto un Giacometti che scava e rimpicciolisce. Non siamo sedotti dalla visibilità del successo, ma dall’oscurità della follia e del dubbio (Artaud, Walser, Kiš). Per fare un ulteriore esempio, se volessimo chiamare in causa il surrealismo, non parleremmo del vate Breton, ma di scrittori estromessi da quel movimento, come Artaud, Leiris o Char.
I temi prediletti di “Arca” sono la follia (alla quale vengono dedicati due fascicoli, intitolati rispettivamente Arte e follia e Dalla febbre al limite: l’arte necessaria), oppure lalettera e il diario, considerati come generi letterari strettamente legati al segreto, all’intimità. Alle traduzioni, ai destini artistici, ai temi, si affiancano dei “segnali”, vale a dire prose e poesie di autori contemporanei. Anche in questo caso, però, la scelta non cade su autori celebri, ma su personalità defilate, libere, bizzarre. Non ultimi fra gli interessi di “Arca”, ci sono i testi in cui artisti come Wols, Fautrier, Bacon o Tàpies riflettono sul loro lavoro.
L’idea dominante è quella di una letteratura libera e inattuale, che non occupi il centro del mondo, non obbedisca a ideologie e proclami, ma vibri di qualcosa che ci sorprende. Vivere il margine delle cose, come si propone di fare “Arca”,significa conoscere, ad esempio, scrittori come Edmond Jabès, che sono noti agli intellettuali ma non al grande pubblico. In “Arca” svolgono un ruolo dominante gli autori di area francese, anglofona o ispano-americana, e questo per scelta obbligata: nessuno di noi è specialista in altre lingue. La nostra intende essere un’avventura intorno all’abisso letterario, come lo è stata, in grande stile, quella di due classici del Novecento, Kafka e Beckett.
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E ora veniamo a “I libri dell’Arca”. Nel caso di questa serie di volumi, i redattori si sono ridotti a due, Marco Ercolani e Lucetta Frisa, ma il rapporto con gli altri collaboratori della rivista è rimasto intatto: ad essi, infatti, si devono molte opere o traduzioni che sono apparse nella collana. “I libri dell’Arca” sono suddivisi in tre sezioni: L’arte della follia, Isola delle voci, Segni e visioni. Lo spirito resta quello che aveva nutrito la rivista. In primo piano c’è l’attenzione verso la zona oscura della mente: basti pensare a lavori di Marco Ercolani come Il tempo di Perseo e Discorso contro la morte, o a un libro di Dieter Schlesak su Hölderlin (che mette in luce dettagli poco noti sulla vita del poeta), a volumi poetici e saggistici di Bernard Noël come L’ombra del doppio o Artaud e Paule, tradotti e curati da Lucetta Frisa (la quale ha riscoperto anche poeti francesi quasi del tutto inediti in Italia, come Maurice Scève, Alain Borne e Claude Esteban).
Quello che stiamo realizzando – in collaborazione e in armonia d’intenti con i responsabili delle edizioni Joker – è un lavoro da rabdomanti, attratti da libri che, per il nostro gusto, esigono di essere tradotti. Si tratta di opere caratterizzate da un perturbamento della bellezza classica, dalla ricerca di un tono poetico non allineato alla koinè dominante, ma ancora ricco di ombre e domande. Nella sezione L’arte della follia è uscito, un anno fa, Diari del transito, un libro-zibaldone di Alfonso Guida, poeta lucano che soffrì in passato di disturbi schizoaffettivi. Sono stati pubblicati anche dei volumi collettivi: Due ma non due (un catalogo di arte outsider), Perturbamento (un’antologia di prose e poesie il cui titolo riprende quello del celebre romanzo di Thomas Bernhard), La grazia e l’abisso (con saggi ispirati alla figura di Robert Walser). Si possono ricordare anche le riflessioni sulla poesia di Lumelli ed Ercolani (Cento lettere), i frammenti di Giuseppe Zuccarino (Grafemi, Rifrazioni e altri scritti), i saggi sulla letteratura di Luigi Sasso (Fuori dal paradiso, Vocazioni,A fondo perduto).
Ma perché pubblicare volumi estranei al mercato letterario? Il nostro intento è quello di sottolineare come la bellezza non sia un regno preordinato, confortevole, tranquillo, ma richieda il rischioso inoltrarsi in un territorio sconosciuto. Ciò che conta non è soltanto l’eleganza formale della scrittura, ma la sua intensità, il turbamento che provoca. Una letteratura senza gli anomali Lucrezio, Leopardi, Baudelaire, Kafka o Artaud sarebbe impensabile.
Per i libri della collana, abbiamo adottato un formato particolare, che ricorda quello di una rivista psicoanalitica genovese, “Fanes”. Ciascuno dei volumi si presenta come un elegante rettangolo bianco con il titolo in rosso e un particolare logo (già usato per la rivista “Arca”) che riproduce un antico sigillo. Il passaggio a “I libri dell’Arca” è stato per noi naturale. Dapprima, la rivista era un campo magnetico di libertà, ma poi sono subentrati il web e i blog, che hanno preso il sopravvento sui periodici cartacei, e abbiamo inventato una nuova rivista online “La foce e la sorgente” (titolo desunto da un verso del poeta Lorenzo Pittaluga, morto suicida a 28 anni nel 1995), che ha ospitato, dal 2018 al 2022, scritti e traduzioni in sintonia con le precedenti iniziative.
In conclusione, si può dire che tutti i testi pubblicati nell’ambito del “progetto Arca” costituiscono, barthesianamente, i “frammenti di un discorso amoroso”. Nel nostro caso, si tratta della ricerca di consonanze letterarie, di galassie parallele, utili a stimolare nuove avventure della mente. Per dirla con Federico García Lorca, il duende (ossia il folletto misterioso e ineffabile) della nostra storia è stata la comune suggestione per i punti oscuri ed enigmatici del pensiero o della poesia. E nonostante il passare dei decenni, è ancora viva in noi, parafrasando Bataille, l’idea della “comunità di coloro che non hanno comunità”: uno spazio, quindi, senza vincoli e ideologie, nel quale ci si possa sempre incontrare, oltre i limiti della vita e della morte, fra letture, appunti, scritture.
All’inizio del 1808, Clemens Brentano e Achim von Arnim fondano una rivista, destinata a durare solo pochi mesi, alla quale danno un titolo piuttosto singolare: «Zeitung für Einsiedler» («Giornale per eremiti»). La formula è spiritosa proprio in quanto appare intrinsecamente contraddittoria. Come dovrebbe essere – viene da chiedersi – un giornale, per poter sperare di suscitare l’interesse degli eremiti, ossia di persone che non si identificano con i valori correnti della società in cui vivono, e che hanno scelto la solitudine come forma di fedeltà alle proprie idee? Certo dovrebbe trattarsi di qualcosa di assai diverso, sia per la forma che per il tipo di notizie trasmesse, rispetto ai giornali consueti.
A un tale, improbabile, «giornale per eremiti» si è portati a pensare in relazione ad «Arca», i cui lettori sono appunto necessariamente rarissimi (vista l’esigua tiratura della rivista) e dispersi in vari luoghi, perlopiù periferici, della Tebaide letteraria italiana. I redattori, così come sono costretti ad essere selettivi nell’identificare, uno per uno, i propri lettori, sperano di esserlo anche nella scelta dei testi da proporre. Ecco perché, sui fogli racchiusi in buste che costituiscono i numeri, tutti monografici, di «Arca», si incontrano prose e poesie di autori di indubbio rilievo, che vanno da Shakespeare a Rilke, da Nerval a Blok, da Beckett a Michaux, per fare solo qualche esempio. Ad essi – visto l’interesse dei redattori per il nesso che unisce letteratura e arti visive – si affiancano a volte scritti di o su pittori (come Braque, Giacometti e Masson). Si tratta quasi sempre di testi mai tradotti nella nostra lingua, e scelti dunque nell’ambito di quella vasta serie di opere essenziali che troppo spesso l’editoria «ufficiale» sembra farsi un vanto di ignorare o trascurare.
Accanto ai nomi che è d’obbligo definire grandi ve ne sono però altri quasi sconosciuti, e questo non perché vi sia l’intento di equipararli ai primi o la speranza di farli brillare di luce riflessa, ma piuttosto perché – sarà bene precisarlo – una rivista come «Arca» ha un carattere essenzialmente privato, fondandosi su quella pratica ardua e gratificante che chiamiamo amicizia (e l’amicizia, come ricorda Pascal Quignard, «è l’unica vera società segreta»). Tra autori e lettori – ma i due ruoli sono tendenzialmente reversibili – si stabilisce dunque un dialogo, che serve a rendere conto delle rispettive esperienze di scrittura. È vero infatti che chi lavora ad «Arca» (al pari di chi la riceve) si pone consapevolmente nel ruolo dell’eremita, e dunque accetta di rendersi invisibile per i più, ma ciò non toglie che egli avverta la necessità dello sguardo, al tempo stesso complice e impietoso, degli amici. Come diceva una volta André Malraux, «è difficile, per chi vive fuori dal mondo, non andare in cerca dei suoi».
(1995)
«Arca», prima serie
Il mio incontro con Marco Ercolani è avvenuto nel 1990. Quasi subito, è sorta in noi la vaga idea di realizzare una rivista, idea destinata a concretizzarsi due anni dopo. All’epoca, in mancanza di un editore, avevamo deciso di organizzarci artigianalmente, scrivendo i testi al computer e facendone un certo numero di fotocopie, ciascuna delle quali veniva poi racchiusa in una busta da spedire agli amici. Dapprima, perfino gli involucri erano realizzati a mano, e i fascicoli prodotti in soli trenta esemplari. A partire dal n. 5, per abbreviare i tempi, abbiamo deciso di usare buste acquistate in cartoleria, su cui però abbiamo fatto stampare un logo con la scritta «Arca» (logo ideato da Francesco Pirella ricorrendo a lettere disegnate da Ugo Nespolo). Da quel momento la tiratura è aumentata, ma solo di dieci unità. Della prima serie di «Arca» sono usciti in totale, tra il 1992 e il 1996, quaranta fascicoli. La redazione comprendeva Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Elio Grasso e Giuseppe Zuccarino, ai quali poi si è aggiunto Luigi Sasso.
Il titolo della rivista, «Arca», implicava due concetti, che si potrebbero illustrare con altrettante citazioni. Nel 1936, Walter Benjamin aveva pubblicato in Svizzera, con lo pseudonimo di Detlef Holz, un’antologia di lettere, Uomini tedeschi, il cui significato era riassunto nel motto iniziale: «Dell’onore senza gloria / Della grandezza senza splendore / Della dignità senza mercede». Sia il titolo che il motto risultavano provocatori, in un periodo in cui il nazismo era ormai saldamente al potere in Germania. Il libro comprendeva una scelta di missive scritte da autori illustri (come Lichtenberg, Goethe, Hölderlin, Keller, Büchner), ma anche da personaggi assai meno noti. Sulla copia del volume inviata all’amico Gerschom Scholem, Benjamin aveva scritto la seguente dedica: «Possa tu, Gerhard, trovare per i ricordi della tua gioventù una celletta in quest’arca che ho costruito allorché il diluvio fascista cominciò a salire». Nel nostro caso, non esisteva un simile intento politico, ma soltanto l’idea di salvare il salvabile, sia pure in maniera provvisoria. Il secondo concetto evocato dal titolo della rivista è quello dell’arca intesa invece come spazio, al tempo stesso, protettivo e creativo. L’idea si trova condensata in una frase di Roland Barthes: «L’Arca è un mito felice: l’umanità può prendervi le sue distanze nei confronti degli elementi, vi si concentra e vi elabora la coscienza necessaria dei propri poteri».
Nel 1995, avevo cercato di chiarire lo spirito della rivista in un brevissimo testo, scritto per la presentazione di «Arca» in una libreria genovese. Oltre ai nomi citati in quella vecchia pagina, tra gli autori tradotti si possono ricordare Stéphane Mallarmé, Osip Mandel’štam, Antonin Artaud, René Char, Maurice Blanchot e Michel Foucault. Occorre accennare anche a un esperimento effettuato nel corso dell’anno successivo, quello terminale della prima serie. È consistito nel produrre un esile opuscoletto dalla copertina blu, che avrebbe dovuto inaugurare dei «Quaderni dell’Arca», limitatisi in realtà a quell’unico numero. I romantici tedeschi, nel secondo dei sei fascicoli della celebre rivista «Athenaeum» (pubblicata tra il 1798 e il 1800), avevano inserito una raccolta di 451 frammenti, dovuti ai fratelli Friedrich e August Wilhelm Schlegel, ma anche a Novalis e Schleiermacher. La paternità di ogni singolo frammento non veniva indicata, così che molti di quei brevi testi rimangono ancor oggi di attribuzione incerta o sconosciuta. Noi avevamo deciso di riproporre, in una forma decisamente ridotta al minimo, la stessa operazione: i redattori di «Arca» (Ercolani, Frisa, Grasso, Sasso, Zuccarino) e alcuni loro amici (Donatella Buongirolami, Annamaria Carrega, Renato Urciuoli) avevano scritto, ognuno, sette frammenti. I nomi degli autori figuravano sul frontespizio, ma i frammenti venivano proposti in ordine sparso e senza firma individuale, nell’intento di sottolineare l’idea di un progetto comune, progetto che avrebbe poi trovato un’espressione più chiara e significativa nella seconda serie di «Arca».
Rileggo les Nouvelles du soir di Jaccottet. Per curiosità, a proposito dell’immagine per cui il poeta non può voltarsi a guardare indietro, se non vuole trasformarsi in una statua di sale, apro uno dei libri dell’Electa sui personaggi della Bibbia. Il caso vuole che sia il volume giusto, e che si apra proprio su Sodoma e Gomorra. Vi si narra la storia della moglie di Lot, che, girandosi indietro, ci rimane di sale, ma casualmente si presenta anche il quadro di Luca di Leyda sul seguito della storia, ossia su Lot e le figlie.
Nello stesso giorno rileggo la prefazione al Théâtre et son double di Artaud, e poi La mise en scène et la métaphysique. Non la ricordavo più. Tutto il ragionamento del potere del simbolo al di là del discorso si basa sulla descrizione del quadro di Lot e le figlie di Luca di Leyda.
Ammiro il disegno del Caso, il lavoro di cesello: e soprattutto la sua insensatezza! Forse il potere simbolico è proprio questo?
Ancora, nello stesso giorno, per caso:
Schwob: Croisade des enfants: voce di Gregorio IX:
Toutes choses sont égales devant le Seigneur. La superbe raison des hommes ne vaut pas plus au prix de l’infini que le petit œil rayonné d’un de tes animaux. Dieu accorde la même part au grain de sable et à l’empereur. L’or mûrit dans la mine aussi impeccablement que le moine réfléchit dans le monastère. Les parties du monde sont aussi coupables les unes que les autres, lorsqu’elles ne suivent pas les lignes de la bonté ; car elles procèdent de Lui. Il n’y a point à ses yeux de pierres, ni de plantes, ni d’animaux, ni d’hommes, mais des créations.
Giorno capolavoro: misura di insensatezza preziosa del caso. Trovare un senso.
L’opera di Jacques Demy nel corso degli anni Sessanta, da Lola fino all’appendice americana di Model Shop, si configura come un sistema chiuso, in cui ricorrono non soltanto gli stessi temi e motivi, ma espliciti rimandi, citazioni interne, riprese integrali di piccoli frammenti narrativi, che rinviano da un film all’altro come se si trattasse di “seguiti” sotterranei, in cui a svilupparsi non è una storia, ma le possibili relazioni tra una serie di elementi di tale sistema.
E’ qualcosa che va molto al di là di una normale continuità tematica, stilistica o linguistica “d’autore”: è la sensazione di essere sempre nello stesso luogo, di ripercorrere tutte le infinite strade che incrociano determinati punti (come per magico riconoscimento), di assistere alle continue variazioni di una storia che potenzialmente è sempre identica.
Si è spesso accennato a Demy come a un narratore finissimo ma non robusto: esile e accurato nella sua ricerca dell'”atmosfera”, nell’attenzione alla scenografia, ai costumi, ai colori, nella sua particolare attenzione al dettaglio non in funzione del filo narrativo principale, ma quasi come depistamento verso altri possibili intrecci marginali. Ed è questa infatti la narrazione che interessa Demy: che non ci racconta solo una storia, quanto l’articolazione, le variazioni e gli spostamenti di un sistema. E i nessi fondamentali di questa macrostoria sono proprio quelle ricorrenze di cui si parlava: il continuo ritorno, la ripresa, i parallelismi, i raddoppiamenti.
Di questi elementi ricorrenti ve ne sono a più livelli, e con diversa importanza in relazione all’intreccio. Tra i più risaputi, i marinai. A volte sono protagonisti, come Frankie in Lola o Maxence in Les demoiselles de Rochefort, ma soprattutto sono presenze, bianche macchie che percorrono le strade e le storie, a gruppi o solitari, chiassosi, malinconici. La loro presenza è anche in relazione a un tema fondamentale di Demy: la precarietà di una situazione, la necessità di partire all’improvviso, la lontananza (anche Castelnuovo nei Parapluies e Lockwood in Model Shop devono partire per il servizio militare). Sono forse i suoi temi più intimi: la precarietà, l’assenza, l’attesa, tutta la gamma di sfumature legate alla “provincia” di Demy, dove ogni partenza è una perdita definitiva, ogni ritorno un dolce miracolo. Ma questa presenza tematica dei marinai si manifesta innanzitutto in termini figurativi, macchie di bianco in movimento, balletto di effimere giovinezze, continuo tentativo di stabilire rapporti sempre precari con le persone.
I marinai sono tra le figure più vistose di questo universo di Demy, in questo continuo ritorno sui luoghi della sua opera. Prendiamo un’altra scena, quella di Marc Michel che pranza con la piccola Cecilia e sua madre in Lola: un pranzo distratto, con le due donne che ha incontrato casualmente in libreria. La scena verrà ripresa nei Parapluies: Marc Michel è a cena con Geneviève e la madre, che ha incontrato dal gioielliere. Là si era offerto di regalare un dizionario, qui di acquistare un collier: in entrambi i casi ha destato l’interesse della madre. Ma la conclusione è opposta. Se in Lola (che viene qui esplicitamente citata) lui se ne andava frettolosamente, nei Parapluies il pranzo è suggello al fidanzamento con Geneviève. Demy ha condotto il suo personaggio là dove era già stato, ma ha mutato il segno dell’azione: si ripassa per lo stesso luogo, imboccando però una strada diversa. Il regista sembra non voler accettare la condanna del narratore, per il quale raccontare una storia significa rinunciare a tutte le altre storie possibili. E costruisce i suoi film come un sistema di variazioni su continue ricorrenze.
Non a caso un suo tema centrale è quello della precarietà dei rapporti, una trama fittissima di partenze e di attese. Nelle città di Demy c’è ovviamente l’insofferenza della provincia, l’ansia di uscirne; ma c’è soprattutto un fortissimo senso dell’altrove, di un esterno che è anche assenza di un rapporto, fine assoluta di un legame. Partire significa spezzare un rapporto, totalmente: da qui l’ossessione della partenza, dell’assenza, e quindi l’attesa, la magia del ritorno. Quanto ritorni “impossibili” in Demy: Michel in Lola, Andy Miller (Gene Kelly) in Les demoiselles, il ricongiungimento tra Danièle Darrieux e Michel Piccoli sempre a Rochefort, tutti ritorni dall’oltre Oceano, quell’Oceano che sta di fronte a Nantes, Cherbourg, Rochefort, da cui giungono marinai che poi ripartono, amori perduti, quell’Oceano che però Demy cerca di non guardare dritto nella sua sterminata estensione. Demy dà le spalle all’Oceano, volge il suo sguardo all’interno, per ricucire le mille storie di precari e tenaci rapporti, si muove soprattutto nei bar, nei locali, nei negozi, dove si incontrano le traiettorie dei personaggi. Allora, lo spazio delimitato del Café Garnier di Rochefort può anche donarsi interamente alla luce, all’aria di giugno, al sole abbagliante, perché è il luogo degli incontri (o della loro scherzosa negazione, per Solange e Maxence), dove si intrecciano e si sciolgono i legami tra i personaggi, proprio sul limite dell’Oceano, dell’abisso, dell’assenza. Quel mare che può dimenticare tutto, ma che tutto può all’improvviso riportare, perché continuamente si rinnova, riconquistando sempre la propria verginità. E nei film più primaverili di Demy può riconsegnare magicamente ciò che aveva portato con sé.
Quanti ritorni, e quanti ricongiungimenti impossibili in Demy, tutti sottolineati nella loro fiabesca convenzionalità. L’unico ritorno “normale” (quello di Guy nei Parapluies) non sarà però atteso, perché il mondo di Demy sembra non conoscere ritorni normali, e la sparizione è sempre assoluta. La partenza e il ritorno sono del resto i due momenti narrativi di cui Demy sembra sottolineare in particolar modo la convenzionalità. Separazioni, ricongiungimenti: i nessi fondamentali dell’infinita variazione all’interno di un sistema (nella definizione, nell’invenzione continua di un sistema che non è un gioco narratologico ma ha innanzitutto un respiro interiore). Il finale di Lola, con Roland che si allontana solitario mentre passa l’automobile con Lola finalmente felice, ritorna in Les demoiselles de Rochefort: ma il segno è anche qui rovesciato, e Maxence viene chiamato a bordo della colonna di autocarri del luna-park viaggiante.
Demy accentua la convenzionalità di questi nessi, e lo fa soprattutto attraverso il rappoddiamento, che è una delle sue figure fondamentali. Le due Cécile di Lola, con i loro amori paralleli, dove però la piccola Cécile si trova ad essere non solo il “doppio” di Lola, ma anche di Roland (la delusione di un amore germinato da un incontro csuale, la fuga conclusiva ecc.). E poi le due sorelle gemelle di Rochefort, l’intrecciarsi di storie d’amore parallele nello stesso film; ma anche il più complesso rapporto tra la passione d’amore e quella per il gioco della Baie des anges, dove si sviluppa quel tema profondo del gioco d’azzardo che era stato accennato dalla madre di Cécile in Lola.
Parallelismi e raddoppiamenti interni ad un film che vanno ovviamente a intrecciarsi con quelli che rinviano da film a film. Sarebbe impossibile riprendere tutti i fili interni dell’opera di Demy, ricostruire minuziosamente la sensibilità morbida e sottilissima di questo mondo inquieto: un universo femminile in cui è assente la figura paterna, un mondo pervaso dall’inquietudine per una continuità e una sicurezza minacciate. Demy ricorda molto i poeti intimisti, in questo suo sistema costruito su infinite varianti attorno a piccoli nuclei, in questa sua dolce e appassionata esaltazione della convenzionalità, che si premura di avvolgere di tenero affetto.
Une chambre en ville ritornerà, dopo tanti anni, a visitare quei luoghi chiusi nella memoria: anche se altri film hanno proseguito la sua continuità “d’autore” (Peau d’âne è, a suo modo, un film perfetto, come testimonianza di una poetica), è con Une chambre en ville che torna a percorrere i luoghi di quel chiuso sistema interiore. Ritorna la galleria di Nantes, intreccio di traiettorie, di avvenimenti, di incontri ed agnizioni, di ricordi; e la “chambre” eredita la funzione teatrale di altri luoghi di Demy, del Caffé Garnier o del Casino, allo stesso modo in cui Danielle Darrieux si ricollega al personaggio di custode e spettatrice che era stato della barista di Lola, della portiera dell’hotel in La baie des anges, della madre di Geneviève nei Parapluies o di lei stessa, Yvonne, nelle Demoiselles (e come queste ultime è anche madre).
Demy ritorna, e rovescia ancora il segno dei tragitti dei personaggi, introduce il melodramma a violentare i luoghi della commedia con altre convenzioni, non meno amate. Ogni elemento che si aggiunge al sistema lo trasforma interamente, e Une chambre en ville getta cupi fasci di luce anche nelle zone più solari della sua opera. Michel Piccoli, marito impotente che getta le chiavi nel gabinetto e poi si sgozza, dà improvviso rilievo a certe ombre dimenticate: la lunga e gentile solitudine di Monsieur Dame, oppure l’anziano maniaco del Caffé Garnier. Les demoiselles de Rochefort, il film più luminoso e solare di Demy, è forse quello che più viene smosso da Une chambre en ville, dove l’intreccio si determina per la volontà di Dominique Sanda di percorrere il tragico ma assoluto Destino prefiguratole dalla cartomante: l’altro volto di quel Destino che avvolge luminosamente le esistenze primaverili di Rochefort, di quel desiderio di unità (di assoluto, di felicità, di ideale) che caratterizza tanti personaggi di Demy.
Nell’opera del regista francese ogni simbolo sembra possedere la sua parte di luce e la sua parte di tenebre, come in un ciclo rituale secondo Durand. La primavera ancor fredda di Lola, quella pienamente matura di Rochefort, l’autunno piovoso di Les parapluies de Cherbourg, il tragico inverno di Une chambre en ville: sono i simboli naturali di una continua oscillazione tra la serenità di un mondo idilliaco e un mondo notturno di solitudine e separazione. Un’oscillazione che passa sempre attraverso gli stessi luoghi, ogni volta inseguendo un diverso filo narrativo che inverte il senso delle traiettorie e ne rivela la qualità mitica. L’unica forma di possesso e di conoscenza risiede così in questo spazio immaginario, compreso tra l’assenza dell’amato e l’attesa di un suo ritorno: lo spazio della nostalgia dove si ricompongono le rette divergenti dei destini un tempo incrociatisi. (1983)