MOVENZE ANOMALE. Piero Zino

Alberto Giacometti

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La musica di Wagner permette all’”abito immaginativo” di Baudelaire di indossare il drappo serale, il solo tramite il quale è consentito entrare nella sfera del sogno.

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“In materia d’arte non ci sono minuzie” afferma Baudelaire e nulla, tanto meno la correzione delle bozze, dovrebbe sfuggire a questa regola.

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Un’opera letteraria può anche essere in grado di imitare quei rettili le cui caratteristiche morfologiche permettono di conservarsi pressoché integri ogni qualvolta una parte del corpo gli viene troncata. Nella prefazione allo Spleen di Parigi, Baudelairesembra tenere conto di questa regola anatomica quando scrive che, pur spezzando il corpo di un’opera “in molteplici frammenti, […] ognuno di loro può stare da solo”.

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Quando si compie un miracolo in letteratura? Quando un filosofo veste i panni del narratore. “’Filosofia narrativa’ era l’ideale di Schelling”, fa notare giustamente Scholem.

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Nella foresta ancora vergine della critica Friedrich Schlegel avanza a colpi di machete. I frammenti sono i rami spezzati che si lascia dietro nel procedere.

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Cosa vi è di più umano del corpo di Odradek, un rocchetto rivestito “soltanto di frammenti, sfilacciati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati fra di loro e di qualità e colore più diversi”?

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Per scorgere la scrittura, l’occhio dovrebbe avere le stesse componenti dell’inchiostro.

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Lichtenberg sostiene che il ruolo del frammento deve essere quello di “lente di ingrandimento” su di un intero sistema speculativo.

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Le frasi, i modi di dire del passato sono scolpiti nelle pareti rupestri del linguaggio.

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In La tentazione di esistere Cioran si spinge a formulare una sorta di graduatoria fra coloro che hanno avuto un rapporto di sintonia con la morte. “Un attaccamento quasi passionale” fu quello che ebbe Keats, un atteggiamento “sensuale della morte” lo attribuisce a Novalis, ma nessuno come Kleist era “dotato per la morte”. Scrisse prima di uccidersi: “Un vortice di beatitudine mai presentita mi ha afferrato…”.

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Il tempo dello scrittore è quello che gli serve per portare a termine il libro; quello del lettore è tutto il tempo che viene dopo.

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Guido Morselli chiamava la sua Browning 7,65 “la ragazza dall’occhio nero”.

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Per George Eliot Goethe è “l’ultimo uomo universale a camminare sulla terra”.

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Il legame carnale che uno scrittore può avere con la sua opera è ben evidenziato da Walser quando scrive, a proposito di Kleist, “[…] Per terra, in camera sua, giacciono i manoscritti come creature orribilmente abbandonate da padre e madre”.

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“Al migliore della sua stirpe”. Questa frase, che Kafka annota nei suoi diari, è quella che i discendenti di Kleist fecero scolpire sulla tomba del loro avo, nel centenario della morte.

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Nell’estate del 1966 Giorgio Agamben partecipò al seminario che Heidegger tenne a Le Thor in Provenza. “[…] Non posso togliermi dalla mente l’incontro con Heidegger, che, nella mia vita, che pure si avvicina alla fine, non ha ancora cessato di avvenire”. Al culmine di questo toccante ricordo egli oggi può forse ancora udire il filosofo che “legge in tedesco, a voce bassa e commossa”, una poesia di Hölderlin.

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Chi pensa alla scrittura come a un torrente in piena, ripensi alle parole di Kafka: “La lampada accesa, la casa silenziosa, il buio esterno, gli ultimi istanti della veglia mi conferiscono il diritto di scrivere, sia pure quanto vi sia di più misero.”

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Leggendo i Diari di Kafka si ha l’impressione di aggirarsi tra cumuli di macerie ma, al tempo stesso, non si avverte l’urgenza di abbandonare quei luoghi per ritrovarsi al cospetto di edifici integri o addirittura abbelliti dai vasi sui balconi.

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Nel saggio di Alberto Savinio Maupassant e l’”Altro” lo scrittore francese emerge dai fondali marini come una statua rivestita da una spessa patina di incrostazioni, che nasconde i tratti e le forme della figura ma, al tempo stesso, la rende più preziosa.

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L’Europa, una “vecchia donna intanfita” come la definisce Nietzsche.

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Ci vuole un fascio di luce molto potente per rischiarare quello che Novalis chiama “il corpo d’ombra” che è dentro di noi.

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Esistono scrittori come Cioran capaci di stabilire contatti soltanto con quei personaggi che esprimono i pensieri e atteggiamenti più negativi, di rivolta, barbarici che possa racchiudere in sé un essere umano. A partire da Nietzsche, liquidato come nient’altro che “una somma di atteggiamenti”, per passare poi ad una mistica come Angela da Foligno, capace di “andare nuda per città e piazze, con pezzi di carne e pesce appesi al collo” inveendo contro se stessa, per poi sentirsi affine all’imperatore Tiberio “perché non amava nessuno”, oppure a un solitario come Swift, “pamphlettista di un’altra era, che precede l’uomo”.

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Nel ritratto che Munch fa di Nietzsche, ad essere messo a nudo più che l’aspetto esteriore è il pensiero del filosofo. Le ondate di colore – un giallo reso opaco dalla presenza del grigio unito a un blu intenso – sembrano fuoriuscire dalla sua mente; il viso in posizione di tre quarti e la prominenza delle sopracciglia e dei baffi rendono ancora più intensa la profondità dello sguardo. Inteso in questo modo il quadro potrebbe rivelarsi come un vero e proprio “esperimento di chi è rivolto alla conoscenza”, secondo le parole che Nietzsche stesso pronuncia nella Gaia scienza.

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L’ingresso di Cristo a Bruxelles di Ensor è l’emblema della parodia corrosiva sui belgi e Baudelaire rincara la dose nel cogliere i tratti del brussellese “scuro, informe, dalla bizzarra conformazione delle mascelle”.

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Il corpo di “The Ram” Robinson interpretato da Mickey Rourke nel film The Wresler di Darren Aronofsky è un corpo pieno di cicatrici, rallentato dalla fatica, preso a calci dalla vita. Ciò nonostante, egli vive grazie alle ferite di cui il suo corpo è pieno, che finiscono per diventare la condizione necessaria del suo stesso vivere. Quando egli si lancia per l’ultima volta dalle corde sull’avversario disteso al tappeto sembra aver raggiunto il perfetto dominio di tutti gli organi del proprio corpo, di averne assunto la padronanza assoluta. Volendo dirla con Cioran “diventerebbe esso stesso coscienza, e smetterebbe di svolgere il suo ruolo di corpo”.

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In Shame del regista Steve McQueen Brandon, interpretato da Michael Fassbender, è un giovane uomo d’affari totalmente asservito al sesso, fatto di incontri occasionali con prostitute e di continue masturbazioni. È un individuo che vive un erotismo sempre mediato da uno schermo che, di volta in volta, vediamo essere quello del PC, delle finestre che diventano luogo di voyeurismo, del denaro che permette al corpo di essere oggetto di acquisto. Costui altro non è ormai che un automa continuamente immerso in un ‘brodo’ di esperienze sensuali, la cui frenesia copulatoria mostra fino alle fondamenta la condizione alienata dell’uomo odierno, vanamente protesa alla ricerca di un mondo che possa dirsi quantomeno plausibile.

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Tetsuo: The Iron Man del regista giapponese Shinja Tsukamoto mette in primo piano, nei suoi accenti più estremi e deliranti, il corpo-macchina. Un anonimo impiegato si trasforma in un grumo di materiale ferroso, che si impossessa progressivamente del suo corpo, gli procura dolori terribili ma, al tempo stesso, un irrefrenabile desiderio sessuale che culmina in un amplesso in cui egli provoca la morte della fidanzata con il pene trasformatosi in un trapano a fresa. Completamente divorato dal metallo e in preda alla follia, si scontrerà con un rivale in una lotta titanica dove alla fine si assiste alla creazione di una enorme scultura formatasi tramite la fusione di quei due corpi mostruosi in un inestricabile groviglio di tubi, cavi, guaine metalliche che, fotogramma dopo fotogramma, assume la forma di un fallo. Ma nelle movenze stilizzate e rituali, negli sguardi intrepidi e penetranti dei contendenti emergono ancora i tratti che furono dei samurai, perenne omaggio al maestro Kurosawa.

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Il corpo contemporaneo, quello che il cinema più intelligente scava e mette in luce, non è il corpo armonioso e trionfante dell’iconografia classica e in particolare della scultura greca – “drogato di geometrie platoniche”, secondo Deleuze – ove a fare da guida è il concetto di limite e di finito, quel “nulla di troppo” che segue quasi come un ammonimento il “conosci te stesso” dell’oracolo delfico. Mentre il corpo classico, levigato fin nelle più intime pieghe, sinonimo di movimento puro, ha espulso il tempo, il corpo contemporaneo è in grado di muoversi solo se si innerva su delleprotesi, come il Tetsuo di Tsukamoto, oppure è estenuato e preda di continui deliqui come quello di Justine in Melancholia. E quando il lottatore di wrestling interpretato da Rourke prova a cambiare vita lavorando in un supermercato, vede nei clienti i propri fantasmi e finisce per demolire gli scaffali della merce.

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Nella vita molti degli accadimenti giungono inattesi, a fari spenti. “Non ho avuto sentori”, si legge in una poesia di Kavafis; alle volte non si avvertono neppure “i colpi di chi è lì a murare”. E quando si pensa ancora di fare parte di una rete di rapporti, ecco che “a mia insaputa, dal mondo mi hanno chiuso fuori.”

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Scrivere con regolarità su un taccuino vuole dire obbedire a una inclinazione arcaica, simile a quella del collezionista di libri e di altri oggetti antichi e rari che hanno la particolarità di essere inutili, proprio in quanto sfuggono alla tirannia dell’utile. Le frasi che riempiono i taccuini hanno la stessa valenza degli oggetti – rarità preziose oppure cascami, poco importa – che il collezionista accumula in una stanza apposita (il taccuino è quella stanza, le frasi sono quegli oggetti). Si può arrivare a identificarsi completamente con i propri taccuini, dai quali non ci si separa mai e vi si trasferisce i propri piccoli pezzi da collezione: conchiglie e sassolini colorati che la corrente spiaggia a intervalli regolari.

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Il taccuino è indispensabile quando si visita una mostra, in quanto i testi che spesso fanno da supporto alle opere esposte non di rado ne rappresentano le indispensabili appendici. Davanti ai quadri del pittore belga Paul Delveaux, come non prendere nota di frasi come questa: “Per Delveaux il treno è la vita”, a cui poi si ripensa una volta sedutisi nello scompartimento di un treno in attesa della partenza. I suoi treni non sono mai in movimento e verrebbe da aggiungere che l’atmosfera che si respira è quella statica e sonnolenta delle stazioni di provincia. Probabilmente non è errato pensare che egli non avrebbe dipinto uno solo di quei treni, se anche allora ci fosse stato il divieto di fumo nelle carrozze.

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Il taccuino sul quale scrivo permette all’inchiostro di scorrere fluido sulla carta molto liscia, di un bianco lievemente opaco. “Pochi sono riusciti, al pari di Chagall, a rappresentare l’universo ebraico con altrettanta naturalezza e profondità”.

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Nel catalogo delle opere che lo scultore Valeriano Trubbiani ha dedicato a Giacomo Leopardi è riprodotta un’incisione intitolata Entro dipinta gabbia. La gabbia in oggetto altro non è che il “palazzo avito” dei conti Leopardi e, appollaiato sul balcone, un grosso uccello fissa lo sguardo verso il basso nel punto dove compare il viso dolente del poeta sulla soglia del portone di ingresso dell’edificio, dalla cui sommità ad arco si allungano le punte di una inferriata pronte ad abbassarsi per impedire qualsiasi tentativo di fuga. Questa immagine ci invita a paragonare Leopardi a un Gulliver rinchiuso in un ambiente lillipuziano, gigante prigioniero di un popolo di nani.

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Il segno distintivo del cinema di Mario Bava sta nei colori: brillanti, lucidi e smaltati come quelli che la Pop Art usa per le sue creazioni artistiche. Nel 1956 Richard Hamilton realizzò il collage Che cosa rende le case di oggi così diverse, così attraenti, ove i due aggettivi si addicono a molte delle pellicole di Bava e gliene rendono il giusto omaggio.

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Può accadere che la scelta delle cartoline che riproducono opere d’arte fatta prima di entrare nelle sale di una mostra occupi tempo ed energie addirittura maggiori di quelli che saranno impiegati nella visita stessa, poiché l’intento di chi le acquista non è soltanto quello di soddisfare il gusto personale, ma anche di tenere conto delle preferenze di coloro ai quali verranno spedite, dal momento che il piacere del dono è alla base della ricerca. Perciò si richiede grande attenzione e pazienza da parte di chi le sceglie, ed è allora che il corpo è immerso nel proprio immaginario, adattato, nel segno di Barthes, “alla gioia di classificare”.

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Benjamin giudica come “atroce” la condizione di solitudine che attanaglia Baudelaire lungo tutta la sua vita. Va aggiunto che la solitudine edifica, essa soltanto, l’autorità dello scrittore.

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Il rapporto tra le città e la scrittura è consolidato nel tempo. Le parole viaggiano a milioni nei messaggi inviati dai telefoni cellulari e la città odierna – sono parole di Italo Calvino – “è quella su cui aleggia un pulviscolo di scrittura che non si sedimenta né si calcifica”.

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Quando lo sfacelo di tutto l’immenso reame di cui è signore si profila agli occhi del Gran Khan, la curiosità che suscita la descrizione di città improbabili e meravigliose fattagli da Marco Polo sembra essere la sola cosa in grado di preservarlo dalla disperazione e dal desiderio di suicidio. Avanzi di scrittura in un mondo ormai da tempo condannato alla rovina, “le città invisibili” saranno, forse, tutto ciò di cui resterà una qualche traccia quando anche l’ultima vicenda sulla terra avrà conosciuto il suo epilogo.

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Nelle pagine de Il Parini ovvero della gloria Leopardi delinea il profilo dei lettori ideali i quali, quando vengono a trovarsi nella “congiuntura” più favorevole “leggono, creano in sé mille moti e mille immaginazioni, errando in un delirio dolcissimo, e quasi rapiti fuori di sé”.

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Il concetto che sta alla base di buona parte dell’arte moderna è quello di ‘deformazione’. “Il mio grande desiderio è di imparare a fare delle deformazioni, o inesattezze o mutamenti del vero; il mio desiderio è che vengano fuori, se si vuole, anche delle bugie, ma bugie che siano più vere della verità letterale”, scrive Van Gogh in una lettera. In altri termini, si tratta della stessa strada percorsa da Poe nel racconto Ligeia, ove cita un’affermazione di Bacone che dice: “Non vi ha squisita beltà senza qualche stranezza nelle proporzioni”.

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“Come uno scarico di immondizie”, Borges definiva la sua prodigiosa memoria in grado di accumulare tutto ciò che leggeva.

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A volte accade di trovarsi in sintonia con lo scrittore argentino Enrique Larreta al quale – sono parole del connazionale Alberto Manguel – “ogni frase suggeriva un’infinità di idee e immagini e lui, smarrito nei mondi creati dalla sua mente, smarriva il filo della lettura.”

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Anche per Kafka il desiderio di evasione si traduce in mete esotiche, ma egli trasporta la grigia e monotona realtà fatta di strade brulicanti di tram e di carrozze che si scorgevano dalle finestre del suo ufficio in “campi di canna da zucchero e cimiteri musulmani.”

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“Chi non sa scrivere non s’immagina neppure che lavoraccio è: due dita scrivono e tutte le altre membra soffrono!”. Se tale sfogo appartiene ad un copista medievale, tuttavia la fatica dello scrivere va ben oltre le difficoltà che un’epoca come quella prospettava ai pochi che possedevano la tecnica scrittoria. L’impegno mentale al quale la scrittura sottopone non è affatto mitigato da una comoda scrivania o da una fibra veloce.

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Raphel maì…”.Nembrot, incatenato in fondo al pozzo, non smette mai di ripensare a ciò che un tempo fu Babele e la notte sogna di quando, issato sui ponteggi traballanti, seguiva passo a passo le fasi della costruzione e calcolava con esattezza i quantitativi di malta che occorrevano per ogni metro cubo di mattoni. Qualcuno ancora lo ricorda mentre discuteva con gli operai vestito come uno di loro, incurante del sole cocente o sotto il diluvio; soltanto la corporatura gigantesca lo distingueva dagli altri. Era necessario ultimare i lavori al più presto, perché correva voce che Dio avesse in mente di sommergere di nuovo la terra, ma la torre che stava sorgendo era così alta da poter mettere al sicuro fino all’ultimo abitante. “Riuniamoci tutti in questo luogo, così nessuno ci potrà fare del male”, amava dire quell’uomo infaticabile finché un giorno, con suo grande sgomento, gli uscirono di bocca parole che non riusciva a comprendere e l’unica frase che una volontà maligna lo costringeva a ripetere era: “Raphel maì amècche zabì almi”.

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Palinuro era caduto in mare ed era annegato per il capriccio di un dio. Voleva a tutti i costi condurre a destinazione la nave che trasportava l’eroe per il quale tutti avrebbero sacrificato la loro stessa vita, ma opporsi alla volontà di voialtri dèi è impossibile per noi umani. Ora, però, egli sa chi era realmente Enea; lo strumento perfetto nato dall’abile mente di un poeta, creato al solo scopo di dare lustro ad un impero tirannico. “Spero tu voglia ammettere, mio caro, – gli disse Ermes, che continuava a essere utilizzato come un piccione viaggiatore – che se ti trovassi nella stessa situazione di allora, questa volta lasceresti il timone e andresti a dormire al sicuro sotto coperta, così da non doverti più risvegliare sulle rive dell’Acheronte”. Con sua sorpresa, il nocchiero rispose che avrebbe cercato una nuova nave e un comandante altrettanto valoroso a cui offrire la propria esperienza, così da portare a termine la missione.

– Ci sarebbe il Titanic, che sta partendo proprio adesso -. Quel dio subalterno era troppo indaffarato e lo abbandonò in tutta fretta.

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Dopo essere stato tutto il giorno fuori a pascolare il suo gregge, Polifemo rientrò come tutte le altre sere che era già quasi buio ma, appena ebbe acceso la lampada a petrolio appoggiata sulla mensola dietro la porta di casa, vide sparpagliati sul pavimento quelli che, a prima vista, sembravano escrementi, ma ad uno sguardo più attento si rivelarono degli spaventati omuncoli in cerca di un riparo e di un po’ di cibo (“greci” si sarebbero fatti chiamare). Agli strani ospiti egli diede subito volentieri l’aiuto che chiedevano alloggiandoli nella stanza più calda e accogliente. In seguito, però, stancatosi della loro presenza, che pure continuava ad essere discreta e assai poco onerosa per il bilancio della sua attività agricola (quei minuscoli esserini, infatti, consumavano tutti insieme in un giorno il quantitativo di provviste che riusciva a mettere insieme in meno di un’ora di lavoro), li divorò ad uno ad uno, compreso colui che reputava il conversatore più arguto e più ricco di talento oratorio.

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La levigatezza dei versi di Sandro Penna si mostra nella “lucida bianca porcellana” degli orinatoi sotto il sole estivo.

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“Gigantesco villaggio moribondo”. Così Kafka definiva Vienna, ma non molto diversa è l’opinione che se ne trae osservando le foto dei tetri edifici di alcuni quartieri di Praga.

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In uno dei Pensieri Leopardi scrive “che il malato in punto di morte non dà vera fede né a medici né ad amici, ma solo all’intima sua speranza, che gli promette scampo dal pericolo presente”. Singolare preveggenza la sua, poiché, stando alle testimonianze di chi gli fu accanto nelle ore che precedettero il trapasso, egli era convinto di poter superare quella che riteneva fosse una delle tante crisi dovute alla sua “asma nervosa”.

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Scrivere per Blanchot “è entrare nell’affermazione della solitudine, dove incombe il regno della fascinazione”.

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L’essenza della scrittura è nella sua estraneità rispetto a tutto ciò che fa parte del vivere comune.

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Se al di fuori dell’agire quotidiano si prospettassero possibilità ulteriori, presenti in un luogo dove i gesti e i pensieri, pur rarefatti e impalpabili, siano tuttavia perfettamente definibili, catalogabili e classificabili; se, cioè, si aprisse il confine di quello che Barthes definisce come “il territorio del Neutro, strano ‘colore’ che – pur non essendo al pari degli altri catalogabile – tuttavia è vivo e reale al punto da poter ‘macchiare’”?

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Seppure si sia convinti della bontà del detto di Plinio il Vecchio “Nulla dies sine linea”, forse è esagerato stare tutto il giorno sopra un frammento.

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Quando si costruiscono edifici nei luoghi dove prima ne sorgevano altri bisogna rimuovere con la massima cura le macerie e i calcinacci che ingombrano il terreno, in quanto una parte anche minima di questi potrebbe infiltrarsi negli ingranaggi dei macchinari edili con la conseguenza di ritardarne l’ultimazione. Abbiamo sotto gli occhi città che sorgono rapidamente sulle rovine di altre, distrutte in seguito a guerre e cataclismi di ogni genere; ma è lecito chiedersi se abbia senso continuare a costruire, dopo che sarà resa nota a tutti la sentenza di Brecht, secondo la quale di queste nuove città “resterà solo chi le traversa ora: il vento!”.

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La Donna in piedi di Alberto Giacometti proietta la propria ombra filiforme all’indietro di duemila anni, congiungendosi con L’ombra della sera nel museo etrusco di Volterra.

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Nella breve riflessione dal titolo L’automobile smitizzata Giacometti, interrogandosi sul significato di quello che è uno dei grandi oggetti di culto del ventesimo secolo e sul suo rapporto con l’arte figurativa, afferma che l’automobile, come quintessenza del finito e del perfetto, “non ha nulla a che vedere con la scultura”, dal momento che questa ha proprio nella non finitezza e nella precarietà la sua prerogativa più importante. Ma con l’irruzione della pittura astratta e concettuale, l’immagine dell’automobile si svincola dalla schiavitù dell’effimero per diventare essa stessa, anche se “arrugginita, ammaccata, rotta”, oggetto d’arte.

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Riferendosi alla sua opera, Giacometti afferma: “Quello che cerco di fare è soltanto riprodurre su tela o con la creta, quello che vedo”. Impresa, questa, titanica e impossibile, che lo respinge immancabilmente nel territorio dell’incompiuto dove però, ad attenderlo, ci sono Michelangelo e Cézanne.

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È noto che Giacometti non smettesse mai di disegnare, anche nei momenti in cui non si è soliti farlo, persino sui tovaglioli di carta del Caffè parigini dei quali era un assiduo frequentatore. La testa umana – sua autentica ossessione – l’aveva di fronte anche mentre fissava le uova sode sul tavolo del ristorante, così come la visione della realtà per lui era tale da potersi racchiudere tutta intera nel bicchiere posto lì accanto.

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Nulla come le foto che ritraggono Giacometti nel suo atelier dà l’idea della creazione artistica come mero lavoro manuale. L’occhio dell’osservatore è attratto più dalla grande quantità di oggetti sparsi alla rinfusa tra quelle pareti scalcinate, che dalle opere presenti nella stanza. Gli avanzi di creta e di gesso sul pavimento, ai piedi dei supporti che reggono le sculture, sono muti testimoni di quel continuo e infaticabile gesto del fare e del disfare, che uno dei massimi conoscitori dell’opera di Giacometti, Yves Bonnefoy, paragona all’attività “dei veri alchimisti”, in grado di liberare “dal piombo della materia – quest’illusione – l’oro della presenza dell’essere umano a se stesso”.

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Tra le molte visioni oniriche presenti nell’opera di Jean Paul ve n’è una che egli cataloga tra “le immagini sensibili dell’orecchio” ed è quella degli uccelli chiusi in gabbia, che “cantano in sogno le loro lunghe canzoni”.

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Se per Holderlin l’atto della scrittura è equiparabile al “gesto del seminatore”, allora il primo passo sarà la consapevolezza di essere seme.

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Nella prefazione alle Lettere su Cézanne Rilke mette in evidenza il fatto che “è attraverso [Cézanne] che Rilke individua il varco oltre il quale stabilire la reciprocità tra le ‘cose’ e chi le guarda”.

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Dal Van Gogh di Artaud fuoriesce una scrittura fatta di colori a macchie violente; quegli stessi colori che, a detta dei medici che lo avevano in cura, il pittore a volte ingoiava.

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Nel libro, esattamente come fa il nuotatore, “occorre poterci mettere la testa dentro e sempre di nuovo fuori”, scrive Nietzsche.

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Lo scrivere come lavoro giornaliero, incessante, a volte anche monotono. Si deve procedere incuranti di tutto, come Cézanne al quale a volte succedeva di venire inseguito da bambini che gli tiravano i sassi.

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Riferendosi al castello dei sapienti della Commedia dantesca, Borges ne fa “un caso perfetto di uncanniness, di orrore tranquillo e silenzioso”. Anche il limbo dei sapienti è, dunque, un luogo di tormenti, pur se soltanto interiori, che vediamo apparire con evidenza nel pallore di Virgilio, in quanto “egli stesso è uno dei reprobi”. La schiera dei poeti che accoglie Dante – “parlano di letteratura, cos’altro potrebbero fare?” – sconta l’emarginazione e l’oblio.

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Gli antichi egizi non organizzavano un’orgia senza avere prima posto nel luogo convenuto qualche macabro emblema (per esempio uno scheletro), che ricordasse a tutti i presenti la fugacità della vita.

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Mentre si guarda un plenilunio vengono in mente le parole di Kafka, che definiva la luna “un dimenticato palloncino di carta stranamente colorato”.

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Gozzano vede l’India come il “vero cimitero del mondo”. Forse è da qui che nasce la sua attrazione per le città indiane e in particolare per Goa, definita come “la più strana, la più triste delle città morte”, cui insiste poco oltre – quasi a voler dare corpo a un’ossessione – “della morte nella città della morte”.

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Freud ammonisce che “né il poeta può sfuggire allo psichiatra, né lo psichiatra al poeta”. Come i diavoli di Malebolge, i loro corpi sono destinati a piombare avvinghiati in un lago di pece.

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Nelle pagine iniziali de La vocazione interrotta, Pierre Klossowski sottolinea il forte impatto che un’opera letteraria deve esercitare sul lettore: “Non si legge impunemente; consentire a una realtà fittizia è pur sempre sentire quella finzione in modo reale”.

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Ogni rivoluzione, grande o piccola che sia, procura scosse di cambiamento. Basti pensare al 1789 quando, alle bordate di artiglieria contro la Bastiglia, fecero eco a Bologna i tremiti delle zampe di una rana nel corso degli esperimenti sull’elettricità condotti da Galvani.

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In queste righe indirizzate alla fidanzata Felice, Kafka sottolinea l’impatto che la scrittura ha su di lui: “In questo senso scrivere è un più profondo sonno, e cioè morte, e come non si trarrà né si potrà trarre un morto dalla sua tomba, così neppure me di notte dalla mia scrivania.”

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Tra le conseguenze che può avere l’uscita di un libro vi è anche quella che Italo Calvino chiama “lo scaffale ipotetico”. Una volta acquistato, il libro entra nella casa del lettore al pari di un ospite di assoluto riguardo. Può addirittura accadere che il nuovo arrivato scompagini l’ordine, peraltro sempre precario, presente nella libreria. Come rileva lo stesso scrittore il libro in questione può causare l’arretramento in seconda fila di una serie di volumi, mossa che provoca quasi sempre l’avanzamento di altri. In quei frangenti il proprietario è come un generale che muove le truppe e ordina il fuoco.

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Benjamin che possedeva, seppure itinerante a causa dei suoi continui spostamenti, una raccolta di libri di grande pregio, una volta pronunciò una frase che sembrava andare nella direzione contraria rispetto all’attitudine del collezionista: “Di tutte le maniere di procurarsi libri, la più degna di lode è ritenuta quella di scriverli da sé”.

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La presunta facilità dei temi e della prosa che caratterizza tutta quanta l’opera di Walser potrebbe essere opportunamente chiosata dalle parole che Dante mette in bocca a Virgilio, quando i due stanno per varcare la soglia dell’Inferno: “Non ti inganni l’ampiezza de l’entrare”.

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Nel racconto Jacob von Gunten Walser allude all’Istituto Benjamenta, un singolare collegio nel quale i giovani allievi sono lì soltanto per imparare una alquanto misteriosa disciplina dell’obbedienza, in grado di staccarli da qualsiasi desiderio di aspirazione sociale. Nel corso della sua vita lo scrittore svizzero fu varie volte ospite di un ricovero per scrittori emarginati a Zurigo che egli chiamava “Camera di scrittura per disoccupati” e lì ci si serviva della sua calligrafia per copiare lettere da indirizzare a negozi, uffici e privati. L’Istituto Benjamenta e la “Camera” sono fra i luoghi – uno immaginario, l’altro reale – che disegnano il profilo più veritiero di Walser, racchiuso nella volontà di essere “un magnifico zero, rotondo come una palla”, al quale, però, tutti coloro che si sentono scrittori devono in qualche modo riconoscenza.

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“Si vedono dall’alto luoghi nei quali non si metterebbe mai e poi mai piede, perché in certe regioni, anzi nella maggior parte di esse, non si ha alcun motivo speciale per andarci. Quanto è grande la terra e quanto poco la conosciamo!”. In queste parole di Walser circa il resoconto di un volo in mongolfiera che egli fece da Berlino fino alle spiagge del Baltico si avvertono, insieme, l’emozione e lo stupore che quel viaggio nell’aria, forse l’unico in una vita segnata da innumerevoli camminate, compresa l’ultima, dove trovò la morte sulle pendici delle montagne svizzere il giorno di Natale del 1956, profuse nel suo animo. W.G. Sebald, scrittore a sua volta e, al pari di Walser, instancabile camminatore, coglie forse come nessun altro le sensazioni espresse dal maestro, che riesce a trasmettere “in tutte le sue prose, dove vuole innalzarsi oltre la pesante vita terrestre, vuole dileguarsi tacito e lieve in direzione di un mondo più libero”.

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Il libro di Sebald Storia naturale della distruzione è composto, come quasi tutti gli altri suoi lavori, non soltanto di parole ma anche di immagini, perlopiù fotografiche. I resoconti dei bombardamenti alleati sulle città tedesche nell’ultimo periodo della guerra lasciano spazio ad un’atmosfera in alcuni casi paradossalmente idilliaca, come mostrano le foto delle macerie di Colonia, sopra le quali “il verde ha attecchito rigoglioso”, oppure ad Amburgo, dopo la terribile incursione in cui fu fatto largo uso di bombe al fosforo, dove di lì a poco “parecchi alberi e arbusti conobbero una seconda fioritura, in particolare i castagni e i fiori di lillà”.

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Nelle sue interminabili scorribande per mezza Europa, in treno, in autostop quando non, assai spesso, a piedi, Sebald si mette sulle tracce di un gran numero di personaggi, alcuni famosi, altri pressoché ignoti. Quando è il turno del “dottor K.”, questi si trova in Italia nell’autunno del 1913, precisamente a Riva del Garda, in compagnia di due ignote figure maschili, che di particolare hanno “dei baffetti neri”, che li rendono simili come due gocce d’acqua. Va da sé che “la compagnia dei due assume tratti sempre più abominevoli, e sul laghetto delle onde gli pare di essere in tutto e per tutto loro prigioniero. Che alla fine lo riportino a terra, è ben magra consolazione. Altrettanto comodamente avrebbero potuto ammazzarlo a colpi di remo.”

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Baudelaire lamentava la presenza costante del “canagliume letterario”, al pari di coloro che restano aggrappati al piacere e ai divertimenti “come i naufraghi al relitto di una nave”.

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Nella Crocifissione dipinta da Giovanni Canavesio, pittore tardomedievale attivo tra la Liguria e la Francia meridionale, il sangue sprizza copioso dalle ferite di Cristo e dei due ladroni, entrambi con gli occhi stranamente bendati, mentre alcuni sgherri armati di lance e di mazze primitive infieriscono su quei tre poveri corpi che si contorcono in preda a indicibili sofferenze. In cima alle croci dei due reprobi sono posti su di una un angelo e sull’altra un demonio; questi ha già le mani sul dannato per strapparlo il prima possibile di lì e condurlo all’inferno, mentre l’angelo ha preso per mano l’anima del pentito, dipinta nei panni di un nudo e buffo corpicino, che passeggia sul corpo al quale fino a qualche istante prima apparteneva. Il tutto sullo sfondo di un cielo nero come la pece, nel quale il sole e la luna ammiccano con le loro facce, suggellando il trionfo del grottesco.

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Ciò che più attira l’attenzione del ritratto che Schiele fa della sorella Gerti sono le mani. La sinistra si trova aderente al viso in un’improbabile posizione orizzontale, mentre l’altra sporge dalla manica della vestaglia che nasconde il braccio. In aperto contrasto con la dolcezza del viso, quelle mani spuntano come artigli di un rapace.

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Linee. Curvature sottilissime che delineano i contorni del volto e accennano il busto. Linee che poi si intersecano con altre le quali, a loro volta, vanno a comporre il profilo del naso e degli occhi. Soltanto la bocca, una macchiolina rotonda di colore vermiglio, sembra voglia per un attimo scompaginare questa inflessibile struttura. Ma tutto fa capo alle linee nella Donna sigillata di Paul Klee.

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Nel Souvenir de Voyage di Magritte le due nature, quella umana rappresentata da un signore in piedi accanto al tavolo di una stanza vestito in modo sobrio ma raffinato, e quella bestiale nei panni di un leone che gli si accovaccia ai piedi in tutta la sua fierezza, si incontrano nuovamente come nel canto introduttivo della Commedia dantesca. Viste così si può pensare che esse abbiano avuto più di un motivo per essersi riavvicinate dopo un così lungo tempo.

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August Sander fu colui che, da operaio nelle miniere di ferro, depose la trivella per maneggiare la macchina fotografica. Nel 1929 venne pubblicato un suo libro dal titolo Ritratti del Ventesimo Secolo, primo passo di un progetto che aveva l’intento di porre sotto lo sguardo dell’obiettivo l’intera società tedesca. Ma subito dopo arrivarono i nazisti a sequestrargli le lastre e a suggerirgli che sarebbe stato preferibile per lui fotografare la natura e i paesaggi. Del resto, ritratti come quelli del Notaio, Pasticciere, Deputato indicano inequivocabilmente la matrice di provenienza di coloro i quali gli avevano dato quell’avvertimento.

LA MINIMA APOCALISSE. Rinaldo Caddeo

Scrive Antonio Castronuovo, a preludio della plaquette di Rinaldo Caddeo, Le giornate e la notte di un pensionato, Babbomorto editore, 2025: «Non li chiamo insomma “aforismi”, almeno nel senso classico del termine: formule che abbiano il sapore di un motto, che propongano un precetto di vita o un’elegante ironia su certi costumi dell’umano contegno, briciole che contengano una pointe: ciò che si attende alla fine di ognuna è sì una minima deviazione da quanto abbiamo letto all’inizio, ma non proprio una puntura, semmai una piccola festa dell’intelligenza visionaria». Sono parole esatte, che inquadrano la fulminea plaquette di Rinaldo, qui al meglio della sua surreale, epigrammatica inventiva. Chi conosce lo stile di Caddeo sa che le sue parole, sempre semplici, sono sempre i meteoriti della prossima apocalisse. Iniziamo dalla prima pagina: “La casa è piena di alligatori. Mi sono salvato salendo sul tavolo”. E ancora: “All’alba del primo dell’anno c’era calma. Per il freddo i botti si erano coperti di ghiaccio”. Caddeo non abbandona il tono neutro del suo dettato: ma attraverso la sua prosa neutra gli scatti visionari sono schegge feroci: “Troppo tardi. Il tempo è fuoruscito da una crepa”. Qui, da queste poche pagine, emerge la differenza potente (e definitiva) fra polvere e cenere. “La polvere scende nella mente e lì sembra poter scomparire, la cenere si accumula in fondo al cuore”. “La polvere attacca la superficie (le copertine, i dorsi), la cenere entra dentro, conquista le pagine”. “Mentre la cenere invade il mondo, non c’è più tempo. La polvere è uscita dalle clessidre”. “La cenere ricopre la polvere che ricopre la cenere che ricopre le rovine”. Assistiamo, leggendo le sue pagine, alla descrizione di un post-universo, ormai arso dal fuoco. L’uomo è solo un gesto improbabile, un reperto nelle macerie. “Dentro le cose, sotto la superficie luminosa, è tutto pieno di buio e niente. Caverne immense”. Il segreto della prosa frammentaria di Caddeo non è nei suoi temi, ben noti alla letteratura del Novecento, ma nella gentile prospettiva con cui li mostra. Come se ci parlasse amichevolmente dal suo studio, Caddeo porge le sue macerie e ci invita a guardarle con lui, condividendo l’affettuosa intimità con la fine imminente delle cose.”Parole come egro, repente, opimo. Le ho trovate in un cestino della spazzatura, buttate come vecchie bucce. Le porto a casa, le lavo, le accarezzo, le metto sedute sul tavolo e loro mi guardano stupefatte”. Non smette di vibrare nel poeta, nella sua minima apocalisse, la speranza di una minima resurrezione.

*Rinaldo Caddeo, Le giornate e la notte di un pensionato, collana Frantumi 11, Babbomorto editore, Imola 2025.

ILLUSIONE, ILLUSIONE…

Frammento di un’intervista a Luigi Pirandello (1 gennaio 1924).

Voi, signore, vorreste sapere in che modo la pazzia di mia moglie abbia influenzato la mia opera? Una domanda legittima da cui non posso scappare senza provare ad abbozzare almeno un brandello di risposta, che spero non oscura, non lambiccata. Sì, quella pazzia è la base della mia opera. È la dura realtà, il sasso di realtà da cui scaturisce tutto. Io, poi, ci ho messo i miei dilemmi intorno. Perché la follia non fosse solo questo non-essere, questo dolore senza ritorno, questo tormentoso autoscorticarsi, ma sempre ci si interrogasse, tutti, sani e meno sani, anche vanamente, sul suo senso, sui suoi sensi, ramificandosi. Antonietta è il sasso attorno al quale ho costruito le mie fitte, logorroiche foreste di parole: i miei libri, i dialoghi, il teatro, tutto. Con quelle parole e interiezioni e ansimi ho cercato di dipanare il nodo. Ci sono riuscito? Illusione, illusione… Mia moglie è dove è, immobile, in un asilo di semimorti. E io vago intorno al suo dolore, vago e parlo, parlo e vago, ma non mi allontano. I libri sono pezzi di pensieri, signore, capitemi, il mio linguaggio si affanna a seguire anse, spigoli, interruzioni, ma dove potrebbe placarsi… Sarebbe bello diventare un qualche re famoso e trasformare la mia sposa ammattita in principessa da onorare: sarebbe come un lungo sogno, una lampàra nell’oceano nero, una scia che salva, ma poi, quando ti risvegli, lì, nella vita, è peggio.

Con i drammi forse posso, a fatica, viverci in mezzo.

Grazie dell’intervista.

TRASFIGURAZIONI. Ferri, Frisa, Annino, Paganardi, Morasso

Una verità più vera

Tra Michaux, Duchamp, Borges (e un po’ di Canetti) si inserisce una tua particolare cifra che denota, oltre la fantastica acquisizione del testo come oggetto energeticamente esistente al di là, o al di qua, di ogni (non)necessaria testimonianza, una intensa proposta di analisi e conoscenza. Voglio dire che, dimostrandosi gli apocrifi introvabili per loro stessa natura, ma veri in quanto storicamente collocati nel tempo e nella vita di personaggi realmente esistiti, il piacere della loro invenzione si pone come proposta critica di acutissima rivelazione. Così si rivivono opere e giorni di grandi fantasmi, cogliendone (secondo la valenza di ogni pregnante operazione critica) una verità da vivere più vera della vita assoluta (Gio Ferri, “Lettera inedita”, 8/5/1995).

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Il labirinto

In una biblioteca pubblica giapponese viene trovato un grande foglio arrotolato dimenticato lì da parecchio tempo. Contiene il disegno di un immenso labirinto. Sembra la mappa di un cervello ciclopico o di una megalopoli. Si viene a sapere (è il figlio del suo autore a informarci) che il padre, custode della biblioteca, ha impiegato 7 anni per eseguirlo; ovviamente la soluzione o il centro non esistono perché le sue linee si ripiegano in sé stesse in snodi come di autostrade e proseguono il loro tracciato ad libitum, cioè fino al bordo del foglio. Il formato del foglio (A 1) ha accidentalmente impedito il proseguimento del disegno fuori dal disegno… Oppure l’autore, più semplicemente, ha interrotto per noia, malattia o morte, dato che poteva procurarsi un altro foglio e continuare su quello la sua opera di “interminabilità”. Solo il formato del foglio fisico gli ha imposto necessariamente un Alt, come il limite naturale della vita umana impone un alt a tutti i mortali. L’ossessione di questo disegno assomiglia a quella dello scrittore-psichiatra Marco Ercolani che per tutta la vita ha scritto ininterrottamente e altrettanto ininterrottamente è stato a contatto col cervello umano, con la psiche dei suoi pazienti folli: (a proposito dove si nasconde la psiche nel cervello umano? è il viaggiatore dentro al suo labirinto che può impazzire non ritrovando il modo per uscirne se non con la morte fisica?). ”Io abito il mio cervello / come un tranquillo possidente le sue terre// Il mio cervello abita in me / come un tranquillo possidente le sue terre” – scrive Valerio Magrelli nel celebre incipit del suo primo libro.
Ercolani sa dominare il suo caotico labirinto, sa tesserne il filo, controllarne le imprevedibili svolte, gli incontri, i probabili intoppi. E i grovigli. La sua opera di totale e ininterrotta scrittura è simile al dna della vita, alla sua spirale che si carica di volta in volta di complessità sempre più complesse e che, disegnata su foglio, riflette un labirinto senza principio né fine: la metafora più semplice che ci ispira è quella della mappa genetica dell’umanità di cui noi, singolarmente, facciamo tutti parte. Il centro non c’è, esiste solo “la magnifica ossessione” di chi vuole arrivarci (la missione di Teseo era quella di uccidere il mostro, cioè il vuoto assoluto, pronto a divorarlo), pur sapendo che il suo viaggio è troppo lontano dalla meta e, anzi, la meta stessa non esiste se non nel proprio sogno, non esiste l’acme del viaggio, punto assoluto in cui convergere per sprofondare in alto o in basso (a seconda delle nostre immaginazioni religiose). Il centro, in quanto inizio e fine è l’illusione del tempo mortale affidato alla singola creatura, è il nostro ripiegarci “a specchio” e dietro lo specchio c’è solo chi mette fine al nostro viaggio insieme all’opera. Dunque, solo la morte fisica impedirà a Ercolani di continuare la sua scrittura che, prima di lui e con la stessa tenacia, hanno perseguito forse Fernando Pessoa e Thomas Bernhard (con gli artisti visivi il discorso è diverso, a cominciare da Antoni Gaudì la cui Sagrada Familia è già un progetto incompiuto e interminabile). Tutti artisti vissuti grazie e per la loro scrittura e il loro segno, vissuti per inseguire se stessi e l’incedere irreversibile della propria vita attraverso l’arte con opere che si arrestano solo quando i loro autori concludono il loro viaggio terreno. Scrive un giovanissimo Ercolani: “Vorrei edificare uno stupendo labirinto in cui le parole e la vita si fondessero in un incendio possibile…”: coerenza ossessiva di un percorso fin troppo lucido di scrittore. L’estrema tenacia di perseguire questo progetto non è espressione di onnipotenza, ma una sorta d’imperativo etico che impone l’esibizione della nostra finitezza umana indissolubilmente legata all’opera che lasceremo dopo di noi, finitezza che si nientificherà o si mescolerà all’infinito con tutte le altre opere interrotte. L’idea appartiene a chi, romanticamente, identifica la propria scrittura con la vita stessa. Se la nostra vita è imperfetta (“l’imperfezione è la cima” scrive Yves Bonnefoy), nell’opera si intensificherà il tentativo di esserlo meno. Ma dopo, se l’opera “lasciata sola” (Cesare Viviani) vivrà ancora di vita propria, non dipenderà più da noi: forse nel labirinto del web sarà possibile, dopo la fine del proprio tempo mortale, che sia raggiunta da un lettore, curioso e casuale (Lucetta Frisa, 2 febbraio 2012).

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Un caos ordinato

Marco carissimo, ho letto Turno di guardia tutto d’un fiato. Non poteva essere altrimenti, la tua scrittura è appassionante, limpida, addirittura gratificante per chi la legge, lo sai, inutile ripetere quel che ti ho sempre detto. Inoltre mi è piaciuto perché, più di un diario medico diciamo, o di osservazione e contenitore di malattie mentali, mi sembra che tu intenda teorizzare il rapporto follia-scrittura e adoperi il tuo posto di guardia come mezzo per esprimere concetti tuoi che avresti comunque. Una riprova, intendo. Non so se sia nel giusto, ma essendo appena tornata dal San Raffaele, centro di ricerca dove sono messi insieme ai pazienti normali (come me) con recupero cioè veloce e transitorio, operati semplici insomma, malati anche mentali, non solo parkinsoniani, alzheimer o come si scrive, ma folli, alcuni penserei irrecuperabili, che però loro studiano. Ecco, ho notato che quel tipo di follia non aveva mai un’espressione lunga né corretta grammaticalmente. Erano spezzature, urli, frenesie inarticolate, poi anche parole di verità, certo (ho preso appunti perché sono stata insieme a due di questi in camera), ma rapide, suggestive e spaventate nel concludersi in un discorso. Forse si tratta di luoghi diversi con persone diverse, ma ho l’idea –e se ciò fosse vero non toglierebbe niente alla bellezza dei tuoi racconti romanzo- che il tuo libro sia un trattato sull’origine di certa poesia, le immagini sembrano più tue che loro, nel senso che sono compiute, troppo corrette. Che insomma sia tu a calarti egregiamente nella follia la cui voce è assolutamente più di corpo, di straniamento fisico e raramente esprime concetti; nella mia piccola e veloce esperienza, ho intuito forza di straordinaria verità in quei lamenti o invettive, li ho interpretati, certo non ha fatto loro scuola di scrittura, ma quelli (che pure non erano in un ospedale psichiatrico e si suppone fossero recuperabili, visto che si trovavano lì), non credo sarebbero diventati degli allievi o che avrebbero raggiunto comunque o in qualche modo una logica discorsiva. Forse così saranno i pazienti che vanno nello studio di uno psichiatra e poi magari lavorano, vivono anche fuori. Non so se mi spiego bene. Ora questo è ovviamente un mio parere (e forse penso troppo a certe malattie mentali di Viaggio al termine della notte) dico non toglie nulla alla bellezza teorica di quel che ne vien fuori. Anzi, lo riterrei se fosse questo il tuo intento, un modo nuovo e diverso di esprimere l’humus di un tipo di scrittura. Pur appartenendo io alla schiera di chi crede che solo la salute, una certa collocazione del soggetto all’interno del “modulo salute mentale” riesca a ordinare il caos in una poesia o in un volume. Quando insomma la follia non è patologia estrema, tanto più che il motore creativo, di per sé, quando si mette in moto, ti respinge indietro o avanti e ti fa perdere o superare la barriera di una salute tout-court, che è piatta e inutile visione del mondo….Leggere queste pagine è stato come leggere un altro tuo sogno nel buio della realtà, una tua ennesima sparizione da te stesso per ricrearti da qualche altra parte, in un altro modo. E sempre da par tuo (Lettera di Cristina Annino, 2012, per “Turno di guardia”).

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Aura

La poesia è per Ercolani il punto cieco di una ricerca in bilico fra la “vertigine” dello scavo e la “misura” (per citare il titolo di una sua opera critica) del garbo razionale. E’ il cono d’ombra che custodisce il sole: forse per questo il buio, nelle sue varianti semantiche (opacità, invisibilità, cecità, ombra), è presente ovunque. Scrive l’autore: « la poesia non è soltanto la struttura formale di un testo poetico, ma quella zona imprevista e anomala del “percepire” la parola, dove la sillaba rigorosa e la vertigine dell’immagine si incontrano (…) per trasfigurare (sfigurare) ogni precedente pensiero e conoscenza del mondo». Un “sogno in presenza della ragione”, dunque: mai la citazione di Tommaso Ceva – amata da Montale, abusata da molti e riportata da Ercolani al suo esatto rigore culturale – sarebbe più appropriata. Come negli antichi greci, che non avevano ancora separato la forza del logos dalla profondità del mistero, la poesia per Ercolani è una preparazione a quella morte che “disimpariamo”; un’educazione dello sguardo a vedere senza essere visti… La scrittura presenta poi l’ulteriore effetto paradossale di ricavare dal buio la luce, dal picco dell’onda la visione di un’isola. Dalle “materie scomparse”, dalla stessa corporeità in disfacimento, la poesia trae senso e verità. Vita e morte, forma e materia si scambiano le parti: tutto nasce dalla morte. Scrivere diviene un modo di rapportarsi ai trapassati, di sentirne la presenza pur nel silenzio.
Il mondo è fenomeno, ma in senso schopenhaueriano: maschera ed evanescenza. Il sonno nella scrittura di Ercolani diviene allora viaggio astrale verso un noumeno forse non troppo irreale. Sonno e sogno sono ciò che Maria Zambrano ha chiamato“forma sogno”: uno strumento privilegiato per trascendere se stessi in una direzione che non è quella dell’obnubilamento, ma piuttosto del risveglio, del non “accontentarsi d’essere creatura”. Se confrontiamo i versi di Ercolani con la narrazione contenuta in Taala, un suo enigmatico libro uscito alcuni anni fa, il cerchio si chiude. Taala è il sogno collettivo di una città di cui nessuno può più dire se sia incubo, utopia o realtà: anche lo psichiatra, incaricato di prendersi cura dei folli e alter ego dell’autore, viene infine inglobato nel sogno. Non si sa chi va e chi resta, direbbe ancora Montale. La poesia di Ercolani non si limita a descrivere l“infinita vanità del tutto” ma in qualche modo performa il pensiero di cui è sostanziata: i suoi versi, intrinsecamente poematici, sfilano sotto gli occhi del lettore come se fossero scritti con l’inchiostro simpatico. Pur dotati di una potenza che colpisce, non sono semplici da ricordare uno per uno – come a volte accade, all’opposto, con certi versi di troppo facile presa immaginifica – ma soltanto nell’insieme e per così dire nella loro aura. Nell’incarnare il dissolvimento, nel continuo e quasi caleidoscopico scambio di segno fra buio e luce, questa scrittura insegna che la morte non è l’opposto della vita, ma il suo perenne serbatoio: la sua riserva di senso e di forma (Alessandra Paganardi, 2010).

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Daimonia

Leggendo Ercolani io non conosco nessun Ercolani, in realtà, ma un flusso di scritture altrui, una smisurata, parassitaria emorragia della parola alle prese con un doppio mistero. Quello, abissale, dell’identità, con tutti i suoi rispecchiamenti più o meno perturbanti e tutta la sua brava coorte di falsembianti in veste di ego scriptor; e quello, ancora più abissale, della non-identità connesso all’esperienza del soverchiante – mistero, questo secondo, che il pseudo-longiniano Ercolani insegue collocando ogni volta di nuovo il suo instancabile scandaglio mediatore nell’invisibile crocevia in cui si incontrano, per separarsi, la daimonia “alta” dello spirito creatore e quella “bassa” dello spirito alienato (Massimo Morasso, 2010).

ALL’INIZIO E’ LA PAGINA BIANCA. Dario Capello

All’inizio è la pagina bianca. Poi, quasi a precipizio, un’urgenza impone il suo ritmo, che è scandito in frammenti, schegge spesso fulminanti, lampi lapidari. Corteggia l’aforisma, ma non cede alla sua facilità; più ancora che l’aforisma l’obiettivo diventa il sigillo sapienziale. Una segreta conoscenza del nulla. Una “via segreta” del pensiero che, mentre cerca gli incontri col vocabolo, ne è aspirato. Occorre calcinare ogni scoria, non danzare sulla musica delle parole; qui è una corrente che trascina, come è detto nella poesia “Il folle volo”, e qui, ancora, non deve ingannare il senso, apparentemente paradossale, di quel verso decisivo “Il folle volo lo compiamo / nell’incantesimo dell’acqua ferma (…)”.

Gran parte, se non tutta, la scrittura di Marco Ercolani, anche quella che precede e affianca questi testi poetici, si può leggere nel senso di una brusca scossa all’apparenza delle cose del mondo, all’evidenza ordinaria. Cerco di sintetizzare così: come usare la finzione per dire la verità? I termini stessi di verità e finzione sono presi in un laccio inestricabile; interrogare questo koan, portarlo al limite è una passione del pensiero. E il centro di gravità di queste poesie si trova già nel titolo, in quell’opachi. Parola chiave, “opaco”, che voglio leggere come confine della luce, nostalgia della luce, quasi invocazione a un’idea di trasparenza. Nostalgia della luce. Già Gabriela Fantato, nella sua prefazione, parla (con più cautela) di “uno spiraglio di luce, una sorta di lievità (…)”. La parola poetica di Ercolani recita, sapendo di recitare, il dramma della propria doppia natura, della trasparenza e della intrasparenza… Una parola che rompe la traccia facile, nasconde quel che vuol rivelare come una domanda che nasconde l’enigma. Il senso scivola, si perde, rinasce altro. Il diritto di essere opachi trascrive gli esiti di una discesa nella notte, ma di una notte che ha segreti e dunque pietà. Una discesa che ricorda il sogno lucido di una coscienza qui e là sonnambolica, testimone e spettatrice insieme di sortilegi, specchi inquietanti, turbamenti, cose notturne…Ma “il sogno/ è già una sentenza”, come ci ricorda Ercolani, così suggerendo un’altra chiave interpretativa della sua poetica. Il topos cruciale, il nodo di questa raccolta si può pensare nella figura di una clessidra, o meglio, nel suo punto di scorrimento, nella strozzatura (altra “via segreta”). Ai due lati, l’ombra e la luce, la forma e l’informe, lo scendere che è già salire. Da qui passa il singolare melos di questa poesia, dall’”armonia della vertigine”. Questo punto di capovolgimento è l’immagine ideale di una ricerca: non conta l’alto o il basso, quanto la profondità… Da un lato, il visibile, “questa luce verticale/ dove tutti credono di muoversi”, dall’altro, la cecità, il buio, la “finzione nella notte” che è finzione della notte. In fondo, per Ercolani, né l’uno né l’altro. L’ultimo imperativo che chiude la raccolta è potente: “Guarda”. È uno sguardo che oltrepassa la dimensione retinica, ha poco a che fare con l’ottica, piuttosto reclama una postura, una condizione, uno stato dell’essere.

(2010)

ERRANDO. Marco Ercolani

Muri, strade

La scrittura può non apparire soltanto dentro i libri, protetta dalle pagine che ospitano il senso del discorso, ma può anche essere fuori, scrittura/pittura gettata all’aperto, nei muri delle case, delle stazioni, dei vicoli. Sottratta al mondo compatto del libro, è traccia errante, vìola e provoca i confini, è violata, sporcata. L’autore potrebbe anche non esistere, ma la scrittura resterebbe, sgorbiata in luoghi leciti e illeciti, intrusa che imbratta, rivoltosa che grida, che esige dal mondo di essere vista. Lo scrittore si fa wanderer, vagabondo, nomade di sé, anche ma non solo folle. Lascia segni, tracce, “parole in cammino”. La sua scrittura appare all’angolo di un muro, sul pilastro di un ponte, nella connessura del marciapiede, sul tronco di un albero, pronta a difendere il suo libero messaggio contro ogni censura esterna. Dispersa e disseminata, vuole essere dispersa e disseminata. Non si pensa come opera chiusa ma, al contrario, come opera spalancata sulla superficie-mondo in un groviglio di segni e di parole, da infittire con nomi, cerchi, macchie, cifre, paesaggi, a rinnovare la segreta speranza in una vita viva che corregga la vita morta grazie al codice di una scrittura personale e paradossale, eretica e originale, che reinventi lo spazio del mondo in un’altra luce, in un’altra illusione. Nel suo ultimo libro di interviste, A ruota libera, Jean Dubuffet scrive: «Anche la realtà (…) è un’illusione. Essa è per ognuno solo la sua visione, la sua invenzione. Si potrebbe concludere che l’arte è un sistema di invenzione di realtà di ricambio, diverse dalla realtà convenzionale».

Lettere

La necessità della confessione anima ogni creatura che scriva. Quale strumento è più appropriato della lettera per confessarsi? Nel 1835 Pierre Rivière si sente responsabile della strage della sua famiglia solo quando lo scrive in una lettera-confessione: «Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello, e volendo far conoscere quali sono i motivi che mi hanno condotto a quest’azione, (…) dirò quel che mi passò nella mente dopo aver fatto questa azione, la vita che ho condotto e i posti dove sono stato dopo questo crimine fino al mio arresto e quali furono le risoluzioni che presi». Ogni confessione nasce dalla necessità di mostrare la propria storia in una lettera rivolta all’altro, nel ri-creare la propria biografia personale al confine di ogni immagine e significato, scritte in codice o scarabocchiate, illeggibili, rivolte a un re, un presidente, un primario, un padre, in una necessaria dualità. Michel Foucault sottolinea il carattere sovversivo e liberatorio, nell’essere più emarginato, di confessare le proprie azioni segrete. Un oppresso esige che la propria voce non sia sepolta nel caos delle altre voci ma la “protegge”, facendola esistere in qualsiasi modo, lecito e illecito, senza e con gli strumenti dell’arte, riscattando così la propria “vulnerabilità ontologica” (così Ronald Laing definisce quella fragilità dell’essere umano che lo rende più sensibile alla violenza del trauma).

Codici alfabetici

Ogni artista inventa e ripete un suo codice alfabetico personale – enigma verbale, scrittura asemica, calligramma, diagramma di parole in qualche cartiglio, costellazione magica. La serialità di questi codici conduce al suggestivo multiverso di una poesia visiva antica e sacrale, contemporanea e consapevole. Le stesse lettere dell’alfabeto hanno qualcosa del rituale incantatorio del frammento, dell’esorcismo propiziatorio verso/contro qualche demone minaccioso e invisibile; in questo permanente stato di ipnosi l’artista realizza il suo duplice progetto: ripetere all’infinito la propria ossessione – prima fonte di angoscia – e tradurla nel conforto di forme finite, di arabeschi fondanti, dove il codice della scrittura comunque evoca il silenzio. Come scrive Giovanni Pozzi in La parola dipinta: «La scrittura si depone nel silenzio quanto la lettura, ma con un moto inverso: l’una attinge dall’alfabeto il senso e lo affonda nello spirito; l’altra ve lo estrae e lo effonde sulla pagina tracciandone il sentiero. È un cammino silenzioso». Ma un codice è sempre un messaggio, e ogni messaggio nasconde segrete utopie.

Preghiere

Il gesto di scrivere/disegnare è anche una forma di preghiera, di meditazione, di trance, a cui l’artista si abbandona. Formalmente si ricalcano gli stilemi delle orazioni in versi a noi note, o talvolta si inventano nuovi mantra, nuove litanie, che l’autore ripete con infinite varianti e declinazioni. Nel suo libro di 15145 pagine, Nei regni dell’Irreale, Henri Darger, ingaggiando una impossibile lotta contro la violenza, scrive preghiere e riformula cantici sui modelli delle canzoni da chiesa perché le ragazze angeliniane si salvino dalle atrocità della nazione di Glandelia, atrocità che lui stesso immagina, scrive e dipinge. Certe pagine, scritte nella clandestina interiorità del proprio io ma inviate a qualche destinatario, reale o fantasmatico, sono lettere-preghiere, stravaganti non per volontà di oscurità ma per felice spontaneità dell’emozione. La preghiera più criptica la felicità luminosa di un dire che esige la salute per esserci, per credere in un mondo nuovo. Così Erik Darkenne appare come un monaco copista, chino per ore sui fogli, che trascrive nei suoi volti-caverne il proprio orrore interno come una preghiera rituale, con un gesto che esorcizza e rende visibile quell’orrore. Non si può sconfiggere un nemico se non lo si rappresenta e non si leva la voce, anche muti, contro di lui, se non si invoca, con il proprio mantra personale, la sua scomparsa. E quale mezzo è migliore dell’arte, che essa sia consapevole o no?

Racconti dell’intimo

In Mabuse di Fritz Lang, la cella di manicomio in cui è rinchiuso il dottore è fitta di fogli scritti in una gigantesca calligrafia che evoca i disegni di Adolf Wölfli. In Spider di David Cronemberg, il folle Spider scrive dei taccuini in una lingua indecifrabile e li nasconde sotto il pavimento della stanza: non vuole che la sua scrittura, che lui solo potrebbe interpretare, sia vista, e quindi la rimuove con cura, come se in quei fogli si nascondesse la vera storia della sua vita e non volesse mostrarla. Ma, se questa è l’angoscia di partenza, l’arrivo è un progetto vitale, assillato dalla felicità di dire. L’io firma e racconta, crea personaggi che sono suoi alter ego e il suo nome e cognome vero si racconta attraverso un testo/immagine (molti autori di art brut, oltre a scrivere su di sé, si disegnano come sono o come vorrebbero essere). Si tratta di un processo di individuazione che porta le parti segrete di sé a venire comunque alla luce, attraverso autobiografie frammentarie o interminabili che, nel segno-sogno della scrittura/pittura, cercano voce contro gli autismi del silenzio, trovano un orecchio che ascolta, fantastico o reale che sia.

Liste

La lista, nell’arte contemporanea, è una nuova mappatura del mondo, che ci immerge nel laboratorio del non-finito, del frammento. Schemi, frecce, numeri, cerchi, liste della spesa, liste di luoghi visitati, o, come per per Pontormo, liste di cibi mangiati, diventano strutture portanti di questo “mondo nuovo”, anomale colonne di altri edifici possibili. Ognuno ha bisogno di sorreggere il proprio mondo con delle palafitte che lo proteggano e gli restituiscano un senso, tenendolo ben fermo sulla terra. La lista è anche ricerca di uno schema ossessivo, argine all’emorragia delle emozioni. Il senso impulsivo e irrimediabile dell’opera è costruire un diario di bordo, fitto di schizzi, appunti, liste, che navighi il tempo di un pensiero eccentrico e privato dentro formule, codici, orari. Oreste Fernando Nannetti usava il cortile del manicomio di Volterra come supporto alle scritture/figure che tracciava sui muri con la fibbia del gilet, inventando il diario dei suoi deliri con numeri, nomi, segni, visioni. Non importa se la materia della scrittura sia foglio o muro, scheggia o carta: è pagina non da “riempire”, nell’angoscia dell’horror vacui, ma da “segnare”, nella volontà dell’amor pleni. La scrittura è l’impulso a essere liberi. Chi scrive parla contro chi vorrebbe metterlo a tacere, e questa è salute della mente. Per dire di sé, l’artista scava il suo speciale codice qualsiasi materiale trovi (legno, cera, terracotta, papiro), “tracciando” di sé stesso un autoritratto reale e immaginario insieme.

*Il testo è tratto dal catalogo bilingue della mostra écrituresen errance – scritture erranti, a cura di Gustavo Giacosa,presentata alla Galerie de la Manifacture di Aix en Provence dal 19 gennaio al 16 marzo 2024.

LETTERA A SAMUEL

1 gennaio 1971

È stato brutto incontrarti presto. Eravamo tutti e due troppo giovani. Tu tacevi e io dicevo cose prevedibili. Se ci fossimo incontrati dopo, quasi vecchi, negli anni settanta… Forse sarebbe stato lo stesso fallimento, ma mi piace pensare di no. Intanto, tua madre è morta e ora capisci qualcosa di più di te. O forse no. La follia può vestirsi di sintomi oppure spogliarsene di colpo, rivelandosi il nucleo incandescente della ragione.

Allora tu volevi solo tornare da lei, da quella fredda madre che non si curava delle cose che scrivevi. Io ti dissi di non farlo, tu disubbidisti. E alla fine non tornasti da me.

Abbiamo perso il nostro incontro. Allora ero giovane e pieno di pregiudizi: non dovevo prescriverti di lasciarla. Sono stato stupido e intempestivo, avei potuto suggerirti altre strade. Oblique strade, come quelle che hai tramato nel tuo teatro. Ma vedi, gli psicoanalisti sono ingenui, fragili, troppo sinceri. Temevo un tuo crollo devastante; volevo essere ragionevole anche per te ma tu lo fosti più di me, molto di più. E mi lasciasti solo.

Sei diventato famoso, mio caro, e io ho la fortuna di sapere cosa ti accade, almeno pubblicamente. Per tanti pazienti che lasciano il dottor Bion provo solo un senso di vuoto: non so più cosa ne è di loro, quale sia la loro vita. Non mi resta che fantasticare, aspettando chissà quale Godot.

Chi lavora con la psiche non deve stare ai bordi ma scivolare dentro l’altro e identificarsi con lui, essere quasi simile a lui ma con meno dolore, e poi, quando nasce la reciproca confidenza, offrirgli la cicatrice di una nuova ragione. Con te non ho saputo fare questo.

Tuo Wilfred

REQUIEM. Ata Issa Khasaf

I testi sono tratti da: Ata Issa Khasaf, Il vento gioca con la polvere. Diario poetico in morte di Umberto Eco. Prefazione di Daniele Barbieri. Traduzione e cura di Alberto Nocerino. Calligrafie di Antonella Cecilia Fiori, Salarchi Immagini, Ragusa 2024.

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Lasciò detto

alla moglie

di far collocare per lui

una statua in giardino

cosicché gli uccelli

vi si possano posare e annidare

e intonare con lui

La Folia di Corelli

*

Uscita verticale

progettare la propria fuga dal mondo

attraverso l’io

nei libri

in una creativa e sempre più elevata

benedetta immaginazione.

*

In sogno

vidi uno scrittore solitario

che sfoggiava uno strano cappello

e un bastone da passeggio

portare in spalla

i suoi libri

nel misterioso viaggio

verso la sacra terra

del Nulla.

*

Desiderio faraonico

in una notte oscura

poco prima di morire

egli chiese

che i suoi amati e rarissimi libri

dipartissero con lui

verso una nuova grande avventura

*

Opera aperta

in piazza

dopo la processione

tutto solo

il vento

gioca con la polvere

indica messaggi oscuri

zeppi di strategiche storpiature

e anagrammi

(a chi di competenza)

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Antonella Cecilia Fiori

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La presente pubblicazione nasce dal fervido estro poetico di Ata Issa Khasaf che, qualche anno dopo la morte di Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932-Milano, 19 febbraio 2016) decide di rendere omaggio in lingua inglese al suo relatore di tesi e dottorato, scrittore e docente universitario, tra i più noti e importanti intellettuali italiani del Noicvecento. Un legame, quello tra Khasaf e Eco, che andò ben oltre il rapporto fra discente e docente, e divenne ben presto amicizia. Prima di stabilirsi a Londra nel 2003 Ata Khasaf, nato a Baghdad ma oggi con passaporto olandese, trascorse una ventina d’anni in Italia, studiando semiotica con Umberto Eco all’Università di Bologna, con una tesi di dottorato sulla scrittura Sufi (Dalla postfazione di Alberto Nocerino).

ESPLORAZIONE. Per Paolo Castronuovo

Scrive Paolo Castronuovo a premessa di Opera. 2004-2024 (Il Convivio, 2025): “Questa prematura opera omnia in versi – meno che nella maggior parte delle poesie presenti in Bugiardino, a mio avviso il mio miglior libro – è fondata sul morbo di un Tu anonimo sempre presente, per quanto fuggitivo. Sono le poesie che voglio lasciare al lettore e che ritengo debbano essere lette nella loro interezza. Tutto ciò che è stato scartato non è di vitale importanza. Perché questo libro? Ho la “necessità biologica” di chiudere un cerchio. Spazzare via il Tu – per quanto possibile – dalla mia Voce e Parola. Opera è un excursus della mia evoluzione poetica, dall’acerbo-ostile di Labiali alla morbosità de La croce versa, fino alla rassegnazione de La giostra d’inverno. Senz’altro il mio libro più importante in questi vent’anni di scrittura”. A neppure quarant’anni Castronuovo sente l’esigenza di dare alla propria opera in versi una nuova unità, che però non unisce dei frammenti ma li trasfigura. L’epigrafe del libro, “l’irraggiungibile è esplorazione di sé stessi”, segna l’inizio del viaggio. La fine è una citazione da Zbigniew Herbert: “Dove passerai l’eternità? Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose”.

Libro complesso, Opera : il lettore assiste al laboratorio di un’angoscia incessante, in metamorfosi, di una parola che cura se stessa attraverso le proprie visioni. Così ne scrive Alfonso Guida: “E di questo andirivieni tra porte strette e larghe, tra vocazione alla solitudine e necessità di dialogo, si staglia una poesia netta col grande e raro dono della serietà”. Partirei proprio dall’accento sulla serietà. Chi fa correre lo sguardo su questi versi è sedotto da una crudeltà surreale, anche eccessiva, che però non deflagra nel caos ma si raccoglie in forme icastiche, al limite dell’epigramma, della sentenza: “sto eliminando il tu dal verbo / per dare spazio a nuove immagini/ ma nulla resterà che rifugiarsi nella propria voce”; “come in tutte le esplosioni/ prima o poi ogni cosa cade/ e si riduce in macerie”; “le muse hanno disossato la gabbia ma/ per fortuna lo sterno regge il petto”; “il trauma lascia la cicatrice,/ la nascita lo squarcio”; “Bruciare nel buio/ non ha altra luce/ che la morte”; i libri sono sbarre di un carcere/ che non apre a nessun universo”. Castronuovo cerca una misura che si adatti alla sua vertigine: “è nei dettagli la casa delle grandi opere/ non negli avverbi e superlativi assoluti/ lascio che la lingua si nutra/ del vento delle pagine voltate”. Quel vento sembra mèta e utopia del poeta. La piccola opera omnia che leggiamo non è affatto un libro conclusivo ma lo scheletro di libri futuri in cui la visione potrebbe non disgregarsi in urlo ma espandersi in costruzioni verbali animate da un’utopia positiva e potente quanto finora è stata potente la descrizione del dolore: “attraverso i cavi dello stendino ho visto uno/ stormo volare. erano note di un canto celeste/ su un pentagramma. poi solo silenzio a illuminare”. Castronuovo non crede solo alla materia delle parole, alle aspre immagini evocate dalla sua lingua (“il vuoto mi affligge come un deserto sconsacrato”), ma al disegno di una nuova consapevolezza: “ci si allontana dalle avanguardie/ per buttarsi nel fiume/ e sapere di che morte morire”. Anche questo sapere negativo è un inizio. Nel fiume è lecito tanto annegare quanto scegliere di nuotare. Nessuno è immune dall’acqua che lo sospinge verso la deriva: dipende da quanta energia vitale e costruttiva contenga il movimento verso la deriva. Opera ne è l’iniziale, attenta, adulta esplorazione, anche se “avvicinarsi a se stessi / è un’allucinazione”. (M.E.)