La prima impressione che si ha leggendo L’età della ferita è quella di un libro che ti si “scompagina” in mano, e non in senso materiale ovviamente. Appena letta la Premessa, infatti, si giunge alla fine di una densissima paginetta in cui l’Autore (dolosamente!) sembra averci tolto da sotto i piedi quelle certezze a cui siamo abituati, specie nella lettura di un libro di “critica” (ancorché anche di narrativa, come precisa il risvolto di copertina). Per cui, prima di proseguire, tocca fermarsi e cercare di chiarire almeno tempo, luogo e io narrante del libro. Quando ci ho provato, il risultato, una sorta di sintesi della Premessa stessa, è stato il seguente (riporto la prima bozza appuntata sul mio pc): «in un libro scritto in tre mesi, l’autore “traduce” il sogno fatto in una notte, in cui “è” un filosofo praghese che legge e commenta la versione autografa dattiloscritta dei diari di Kafka. L’autore fornisce una datazione certa di questo sogno, e cioè la notte dell’8 febbraio 2022, in quanto, ci dice, il giorno prima, il 7 febbraio dunque, egli stesso aveva riletto i diari; l’autore indica poi il periodo in cui, nel sogno, l’amico filosofo di Kafka inizia la lettura dei diari, e cioè il settembre del 1938, “pochi mesi prima dalla rivolta della Cecoslovacchia antinazista”; infine, l’autore confessa di non sapere, meglio: di non ricordare “esattamente” chi fosse stato durante la stesura del libro (e quindi durante il sogno e quindi durante la lettura e il commento dei diari fatti in sogno), se non perché in proposito gli tornava alla memoria “un nome, Felix Weltsch, il filosofo amico di Brod e di Kafka, che criticava la politica antisemita di Hitler e che con lo stesso Brod lasciò Praga nel 1939».
Annotazione straniante, questa mia, anche se occorre dire che il senso di primo smarrimento si supera allorquando si cerca di dare una spiegazione alla scelta dell’autore. A mio avviso, infatti, L’età della ferita è un libro che destruttura le principali dimensioni con cui siamo soliti orientarci nella realtà e quindi anche nella lettura di un libro – soggetto, spazio e tempo, e lo fa per scelta coerente col contenuto di scritto “intorno ai diari” di Kafka, non di una specifica opera quindi, ma di quella serie eterogenea e frammentaria di annotazioni, prese quasi all’impronta, con uno stile per sua natura laconico e a tratti perfino ellittico, che hanno accompagnato per circa quattordici anni la vita dell’autore boemo intervenendo sui temi più disparati suggeriti dal quotidiano e spesso casuale avvicendarsi di fatti, incontri, emozioni, pensieri, e in cui non mancano nemmeno racconti o descrizioni di sogni (nei diari, se ne contano oltre cinquanta).
Tempo, soggetto e oggetto
L’intento di destrutturazione è esplicito soprattutto per quanto riguarda la dimensione temporale in cui si colloca il libro, declinabile in almeno cinque diversi livelli e, in particolare: 1) quello in cui, di fatto, il libro è stato scritto; 2) quello in cui asserisce di essere stato scritto (in tre mesi dall’8 febbraio 2022); 3) quello in cui nel sogno avvengono il commento e la lettura dei diari (siamo nel settembre 1938, abbiamo detto); 4) lo stesso arco temporale interessato dai diari di Kafka che va dal 1909 al 1923, un anno circa dalla morte per tubercolosi, avvenuta il 3 giugno 1924; e ovviamente 5) il tempo effimero (una notte? un’ora?pochi attimi?) del sogno stesso.
Peraltro, questa dimensione temporale, così “scomposta” (se si ritiene che il termine “destrutturata” sia troppo impegnativo sotto il profilo filosofico), risulta rafforzata nella sua valenza anche storica, non potendo essere un caso, a mio avviso, che al riferimento dichiarato al settembre 1938 e con esso ai tragici eventi che avrebbero interessato l’Europa e, nello specifico, la Cecoslovacchia e la città di Praga negli anni successivi, corrisponda il riferimento a un periodo – il febbraio 2022 – connotato da un’altra grandissima crisi che si è abbattuta sull’Europa dell’est con l’invasione dell’Ucraina da pare della Russia: riferimenti, questi, che forniscono al libro una cornice storica essenziale all’interno della quale si sviluppano i temi esistenziali più intimi, ma non per questo meno universali, tipici della “poetica” (per nulla “estatica”, cfr il commento al frammento del 19marzo 1922) di Kafka.
Nella breve, ma densissima Premessa al libro, l’autore confessa anche che, mentre rileggeva i diari, sentiva che “ogni commento critico, per quelle pagine nitide e tragiche, sarebbe stato superfluo”. Ma questa sensazione (perché così ci viene presentata con la scelta del verbo “sentire”) – che è una sensazione di appagamento e di impotenza insieme, non contraddittoria proprio perché si colloca nel campo del “sentire” – è subito affiancata – non direi superata e tantomeno contraddetta – dal commento dei diari che avviene in sogno quella stessa notte, che solo per finzione narrativa viene attribuito a un filosofo, forse Felix Weltsch si dice in “Premessa”. Considerazione che ci permette di chiarire come anche la dimensione del “soggetto” sia investita nel libro da quello stesso intento di destrutturazione (scomposizione?) che abbiamo visto in atto a proposito della dimensione temporale, e che qui si delinea almeno attraverso quattro diversi livelli: 1) l’io conscio che legge e sente di non dover aggiungere alcun commento critico; 2) l’io inconscio che sogna e legge e commenta, invece; 3) l’io del filosofo “rammemorato” che non può andare disgiunto dalla sua storia personale e di pensiero (non serve citare Gadamer per affermarlo), e ovviamente 4) l’io stesso di Kafka presente in modo sinottico con stralci dei suoi frammenti. Declinazione quasi prismatica che risponde perfettamente a quanto il libro stesso, nel commento al frammento del gennaio 1912, dichiara riguardo l’“antica invenzione della maschera”: «Lo scrittore si interroga, preda di una caccia segreta: chi è lui, chi è l’altro, chi è “noi”», dove particolarmente apprezzabile è il ricorso al termine “caccia”, evocativo delle grandi “venazioni” dei filosofi rinascimentali, e non solo.
Considerazioni, già di per sé complesse (poteva essere diversamente nel commento a un libro su Kafka?) destinate a complicarsi vieppiù laddove ci si ponga la domanda su cosa si debba poi intendere per “diari di Kafka”, sull’oggetto stesso del libro quindi, perché anche in questo caso le risposte potrebbero essere almeno le seguenti: 1) i diari sono quelli di cui alla prima stesura dattiloscritta resa pubblica nel 1951 da Max Brod, l’amico al quale Kafka aveva consegnato con precise prescrizioni la sua opera olografa, che però, è noto, intervenne sull’originale con una serie di correzioni (soprattutto omissioni) effettuando una sorta di “normalizzazione” di quei passaggi in contrasto con la figura di “santo laico” che avrebbe voluto dare dello scrittore; 2) o quelli della versione del 1953 di Ervino Pocar presa a riferimento dal libro, che si avvale, pur con qualche scostamento, della stessa edizione di Brod; 3) oppure quelli di cui alle versioni che si sono succedute dopo e di quelle che verranno ancora, e che, come le prime, si sono dovute o si dovranno confrontare con ovvi problemi di interpretazione della grafia, pur sufficientemente nitida di Kafka, e soprattutto con la traduzione di un autore di lingua tedesca, è vero, ma pur sempre di “accento” boemo; e infine, 0vviamente, 4) gli originali, sottratti da Max Brod all’invasione nazista di Praga e ora conservati nella “Bodleian Library” di Oxford, dopo essere avventurosamente passati per Tel Aviv e Zurigo, che Kafka aveva chiesto all’amico di distruggere insieme a vari capolavori rimasti incompiuti, fra cui Il Processo e Il Castello, e che, grazie alla provvidenziale disubbidienza dell’amico, giacciono lì invece, con le loro scancellature, le loro sovrascritture, le pagine sbarrate, i brani omessi e le parole tradotte, magari in attesa di una traduzione migliore.
Lo spazio – i luoghi del libro
Un discorso a parte va fatto poi per la terza dimensione citata, fra quelle destrutturate/scomposte dal libro, quella dello spazio, che fin dall’inizio, nell’incipit stesso del primo frammento riportato subito dopo la “Premessa”, è introdotta in modo volutamente (ma coerentemente) contraddittorio: “Gli spettatori impietriscono quando passa il treno” “chi vorrebbe partire non può partire” (frammento, e relativo commento, del gennaio 1910). È proprio attraverso di essa infatti che, a mio avviso, si penetra nei recessi più significativi di pagine densissime e stimolanti, e non solo perché L’età della ferita ci costringe a un moto continuo, quasi ossessivo che procede dallo spazio chiuso in cui si immagina avvenire la scrittura di Kafka – che ora è camera ora “dimora lunare” e scrivania ora “radar puntato all’interno del suo corpo” – e da lì si irradia ai luoghi tipici della Praga “dai tetti d’oro” della prima metà del secolo scorso – da Malà Strana al caffè Arco all’isola di Kampa al ponte dei suicidi sulla Moldava. Ma anche e soprattutto perché il vero luogo del libro, onnicomprensivo, ubiquo, quasi fagocitante resta quello della ferita, che è dentro e fuori, veglia e sonno, aperto e chiuso, in una parola “fessura” che la dimensione umanissima del dolore dell’attraversamento, che è dolore del dubbio dell’esitare della paura di cambiare e con ciò stesso di morire, qualifica appunto come “ferita”. Ma una ferita particolare, che nasce con la vita stessa, e che, come si evince dal frammento eponimo del settembre 1917 (“veder medicata nuovamente la ferita, già operata infinite volte, questo il guaio”), non si rimargina.
Parimenti significativo in questo senso è un altro frammento, quello del gennaio 1912, con il relativo commento in calce, dove all’affermazione che “si scrive attraverso di noi”, segue la considerazione che “Ogni vero libro dovrebbe restare sempre aperto, sempre riscritto dalle parole dell’autore e della fantasia del lettore”, con la conseguenza “logica”, quasi sillogistica, che noi stessi siamo la ferita della scrittura nell’atto di compiersi, e in questi termini una ferita che non dovrebbe mai rimarginarsi. Che dovrebbe restare sempre aperta. Che resta sempre aperta.
Insonnia
La fessura, la relazione fra dentro e fuori, aperto e chiuso, sono espresse nel libro anche attraverso il rapporto sempre tormentato in Kafka fra veglia e sonno, come si legge ad esempio nel frammento del 2 ottobre 1911: “Notte insonne. La terza di fila. (…) Dormo, per così dire, accanto a me, mentre devo dibattermi coi sogni. (…) Quando mi sveglio, tutti i sogni sono raccolti attorno a me, ma mi guardo bene dal ripensarli”; oppure, nel frammento, e relativo commento, del 14 dicembre 1914: “Il lavoro procede miseramente, forse nel punto più importante, dove una notte propizia, sarebbe tanto necessaria” (…) “Ma esisterà mai una notte propizia? Conoscevo la sua insonnia da molti anni. Sembrava che Franz volesse trasformare tutta la sua esistenza in una notte propizia alla scrittura”.
Si tratta di brani solo esemplificativi dei tanti che si possono trovare nel libro, dove emerge con chiarezza come la linea dell’insonnia fosse per Kafka essa stessa tergiversare irrisolto davanti a una concezione imminente della morte intesa con Baudelaire come “sensazione dell’abisso”, “vita che precipita in morte”, “solo luogo possibile della scrittura” (commento al frammento del 4 agosto 1917): dunque, da un lato, categoria anche filosoficamente diversa dall’heideggeriano “essere per la morte” prossimo a presentarsi sulla scena del pensiero occidentale (Essere e tempo è infatti del 1927); dall’altro ferita continuamente rimedicata dalla scrittura capace perfino di sottrarre spazio al sonno per farne vita: “Si lamentava, sì, per la fastidiosa mancanza di sonno, ma in realtà ne godeva: così, se avesse vissuto trentotto o quarant’anni, ne avrebbe realmente vissuti il doppio” (commento al frammento del primo febbraio 1922).
È necessario, infatti, evidenziare come l’alternarsi sinottico fra frammenti e relativi commenti in cui si articola il libro, sia spesso anche confronto fra annotazione diaristica ad altissima densità emotiva e di pensiero di un uomo geniale e tormentato, e svolgimento di pensiero (ipoteticamente di di un filosofo) per sua natura necessariamente argomentativo, con la conseguenza che nella giustapposizione che ne deriva, accanto a momenti di sincera empatia, non mancano passaggi anche “dialettici”, come nel commento al frammento dell’11 dicembre 1913 (“Sono stupito… Il racconto di Kleist più vicino a Kafka recitato male da Franz! Forse gli era troppo vicino: forse per questo lo lesse e fallì.”); ma con l’avvertenza che talvolta è proprio nello stile quasi aforistico del frammento, aspro e assertivo, a tratti perfino scarno, che è possibile rinvenire considerazioni di carattere filosofico profondissime, come nel frammento del 19 settembre 1917: “Non riesco a capire come a quasi tutti coloro che sanno scrivere sia possibile, nel loro dolore, oggettivare il dolore, in modo che io, per esempio, nella sventura e forse anche con la testa che mi brucia, possa sedermi e per iscritto comunicare agli altri che sono infelice” – osservazione in cui, a mio avviso, è già rappresentata in nuce la tesi di Wittgenstein sull’incomunicabilità del dolore, che l’autore delle Ricerche sosterrà circa quarant’anni dopo ricorrendo alla famosa metafora del “coleottero nella scatola”.
La scrittura come gesto
Si tratta di un’osservazione potentissima sulla parola e, nello specifico, sulla scrittura che il libro di Marco Ercolani “pesca” sapientemente in un contesto in cui la scrittura resta il tema centrale e inaggirabile nella sua radicalità. Interessante, però, è notare come nel libro la scrittura sia colta anche in una dimensione allusiva e quasi plastica, emergendo in più punti come “gesto” e quindi nella sua relazione con il corpo. Significativo, da questo punto di vista, il fatto che fra le parole più ricorrenti del libro ci siano “dita” e “mano” (arti della scrittura sopravvissuti, anche etimologicamente, al digitale!), di cui si contano direttamente o indirettamente circa venti occorrenze, spesso esplicite come nei seguenti frammenti: “Così mi passa la domenica, quieta e piovosa, sto seduto nella mia camera in pace, ma invece di risolvermi a scrivere e a riversare nello scritto, come per esempio avrei voluto fare ier l’altro, tutto me stesso con tutto ciò che sono, ho fissato ora per parecchio tempo le mie dita” (frammento del gennaio 1912); oppure “sono io la domanda che ha dentro di sé la perfetta assenza di risposta. Io sono realmente uomo, anche se non avessi questa penna fra le dita” (commento al frammento del 28 settembre 1915), e infine: “Ogni parola rigirata nella mano degli spiriti – questo slancio della mano è il loro movimento caratteristico – diventa una lancia rivolta contro chi parla” (frammento de 12 giugno 1923). E altrettanto significativi in questo senso risultano anche i vari rimandi ai luoghi e ai tempi della scrittura – alla “dimora lunare” della camera con il “rettangolo di legno” della scrivania, o alle notti insonni con i loro silenzi sottratti al “fracasso dei carri” – con l’effetto, di grande impatto espressivo, che la lettura del libro sembra emergere staccandosi dall’immagine di Kafka intento a scrivere in sottofondo, quasi che la lettura, nella dimensione onirica in cui il libro si colloca fin dall’inizio, sia traduzione contestuale di quello che avviene pervasivamente alle sue spalle, in un contesto di vita “pangrafico” per esigenze di sopravvivenza.
Autarchia e sopravvivenza
Ma i riferimenti al significato che la scrittura ha avuto nella vita di Kafka sono molti e dominanti nel libro, tali da costituire un altro filo conduttore con cui l’autore ci conduce attraverso i dedali di un materiale per sua natura variegato e frammentario, nel quale è tuttavia possibile trovare una destinazione unitaria:
“8 aprile 1914: Ieri incapace di scrivere sia pure una parola. Non meglio oggi. Chi mi salva?”
“15 agosto 1914: Da qualche giorno scrivo. Possa durare”.
“20 gennaio 1915: Ho finito di scrivere. Quando sarò di nuovo in grado di farlo”.
“Commento al frammento del 25 settembre 1917: Sogni di scrivere. (…) Continui a scrivere, se non lo facessi senti che moriresti”.
“Commento al frammento del 30 ottobre 1921: Ma io senza scrittura non sarei più qui. Se scrivo mi tolgo dalla legge degli uomini. (…) La scrittura mi permette di perdermi senza che nessuno, guardandomi in faccia, se ne accorga e inizi contro di me la guerra di cui sarò vittima”.
Questo desiderio di autarchia perseguito attraverso la scrittura è espresso poi in modo ancora più nitido nel Commento al frammento del 20 dicembre 1921: “Ma nulla come la scrittura ti permette di fare a meno dei legami col mondo. Così facendo li rinsalda, ma senza che tu soffra. Il corpo si alleggerisce, la mente evapora, e il tuo libro futuro sarà interminabile, fluido, felice” – dove, come detto, emerge un rapporto vitale, esclusivo e totalizzante con la scrittura, quasi ideologico, come forma di respiro per il quale, per natura, non possiamo dipendere da altri che dal nostro corpo. E non a caso nel libro il rapporto fra respiro e scrittura si fa più intenso a mano a mano che si procede verso quel fatidico giugno 1924 e le condizioni di salute di Kafka peggiorano progressivamente. Ancora dal frammento del primo febbraio 1922:
“Al malato di polmoni il dio della soffocazione. Come si può sopportare il suo arrivo se non si è parte d lui già prima della orribile unione?” E il relativo commento: “Come ha potuto, per tanti anni, tollerare quella mancanza di respiro? La scrittura veniva a patti solo con l’asfissia dei polmoni: la rappresentava, e durante quell’esercizio ostinato lui poteva, come per miracolo respirare”. E così L’età della ferita rende esplicita quella corrispondenza tragica, della quale Kafka sembra essere stato da sempre consapevole, fra apertura respiro e vita, da un lato, e chiusura soffocamento morte dall’altro, e della quale la scrittura è insieme segno grafico e ferita, confermando quello che, a mio avviso, resta il merito principale del libro di Marco Ercolani: l’aver saputo, attraverso un lavoro “speleologico” e “metodico” insieme, individuare, fra le molte possibili di un materiale intimo e irriducibile, una traccia capace di esprimere il significato profondo di una scrittura radicale che, così colta dalla sensibilità dell’autore, ci appare ora come ombra e matrice, calco e antigrafo di alcuni fra i libri più influenti della letteratura di tutti i tempi.
Possiamo entrare solo lì dove possiamo aprire. Il già-aperto immobilizza: (…) entrare è ontologicamente impossibile nel già-aperto. (M. Cacciari – Icone della legge)
Non mi guardi con quell’occhio diffidente… Lei che segno è?
L’avrei giurato. E l’ascendente? Dov’è la luna?
Non lo sa. Poco male. Provvederò io a tempo e luogo. Però ci tengo a chiarirle subito la differenza tra il lavoro di un’astrologa e quello di una cartomante. Il primo è scientifico e umanistico allo stesso tempo, l’altro no. Non è il caso né la sede per spiegarle i perché e i percome. Ma il mio personale impiego dell’astrologia, qualità e scopo del mio lavoro, sì. Non è come un altro, certo. Perché l’ho uccisa? È una storia complicata, signora commissario. Devo chiamarla così? Sa, è la prima volta che mi trovo in un commissariato e mi fa molto piacere che un lavoro come il suo sia svolto da una donna. Immagino la sua fatica per arrivarci. Brava! Dunque, il movente, lei mi chiede, ma prima devo parlarle del mio lavoro perché tutta la questione sta lì.
Bene, quando redigo il cielo di nascita il computer fa i calcoli, perciò è presumibile siano esatti. A me spetta l’interpretazione. Il cielo astrale è come uno specchio, non si sfugge al suo sguardo come non si sfugge a quello – così indifferente – del cielo materiale. Sì, il cielo è popolato anche di noi. Di notte lo guardo spesso, amo il suo mistero. Perché un mistero è e un mistero rimane, malgrado tutte le scoperte degli astrofisici e la lettura degli astrologi. Ma torniamo al mio lavoro: alla cliente indico i punti del suo cielo su cui fare leva per prendere coscienza delle tendenze caratteriali, e soprattutto delle dipendenze che condizionano la sua vita. Chi viene da me si trova sempre in qualche garbuglio, subisce amori sbagliati o desidera che sul suo orizzonte piatto l’amore si affacci ad animarlo un po’; ma ora, per fortuna, le cose sono cambiate: le donne non mi parlano solo di problemi amorosi ma chiedono anche indicazioni sul lavoro: a quale sono più adatte e se lo troveranno soddisfacente. In poche parole, da che trappola devono scappare, in quale trappola – migliore della prima – finiranno… Il mio è un lavoro di apertura, speranza e liberazione. Invece il suo, signora commissario, di chiusura, se mi permette. Lei manda la gente in gabbia, no? E io, le gabbie, cerco di aprirle. Mi scusi per queste divagazioni, stavamo parlando del mio delitto.
Ecco, troppe donne, lei lo sa, sono dipendenti da tutto: dalla famiglia, dalla casa, dai sentimenti, da certe idee stupide, dal lavoro e dai soldi degli altri, da certi disturbi di salute dovuti a stress e frustrazione. Lo stress non è che la conseguenza di una serie di cattive abitudini, di un cattivo ambiente, di una cattiva società impostata su chi sfrutta e su chi è sfruttato. Vittime e carnefici, ingenui e furbi, la solita storia vecchia come il mondo. Ma alle donne è riservato uno sfruttamento speciale. Da parte mia, cerco di aiutarle attraverso la lettura degli astri, per evitare o almeno ridurre queste dipendenze. Cose che un’amica intelligente e di buon senso può suggerire, lei mi dirà, ma se il suggerimento proviene da un’astrologa….si prende più sul serio. Mi segue?
E allora alle mie clienti e anche ai miei clienti suggerisco, con una certa energia (non intendo parlarle ora del mio cielo di nascita), di compiere certe scelte piuttosto di altre, qualche volte “forzando” un po’ le indicazioni astrali.
Mi chiede se è possibile cambiare il destino? Beh… Non lo so, cara commissario, non lo so. Devo ancora studiare, studiare molto. Sa, quello che si sapeva appena 10 anni fa… gli studi sul cervello, ad esempio, e il dna… La scienza fa enormi progressi, no?
Sissignora: astrologia, psicologia e psicoanalisi, sconfinano una nell’altra. Un tempo, questi pianeti, segni, numeri, configurazioni, ingressi e uscite di astri, questa geometria in continuo movimento veniva interpretata in modo fatalistico: sei così, la tua vita è così, morirai così, non c’è scampo, non c’è margine d’autonomia, chiaro? Ora la prospettiva è cambiata: l’astrologia è una scienza umanistica, punto e basta, e gli errori interpretativi si fanno, d’accordo, come in ogni professione: è meglio un medico che sbaglia una diagnosi e opera malamente o un’astrologa che consiglia di lasciare un uomo violento o che non si ama più? Anche se poi le conseguenze non sono quelle desiderate: un suggerimento razionalmente perfetto può risultare un errore, perché la sua cliente, ad esempio, è troppo sessualmente o economicamente dipendente e non è matura per metterlo in pratica. L’astrologa non è in grado di recidere cordoni ombelicali troppo stretti, ma…indicandoli, ci prova.
Si, è vero: vorrebbe sostituirsi al tempo, che è sopra tutte le cose il vero dominatore, lui si, è la grande trappola, la grande prigione. L’astrologa può sbagliarsi dato che è umana, interpreta fuori tempo o controtempo: se la ricorda Cassandra?
Ma alt: le ho detto che il mio intento è quello di indicare alla donna le sue schiavitù e quindi aiutarla a liberarsene: e quindi liberarsi anche di me, voglio dire dalla dipendenza all’astrologia e dal proprio cielo di nascita. Io non sono che una specie di passaggio, un trampolino verso l’indipendenza. È questo il mio compito, che va controcorrente e contro i miei interessi economici: io traghetto, come fa Mercurio – ricorda la mitologia? – i vivi e i morti. Dal buio alla luce e da una luce, quando è ingannevole, a un buio più reale – da cui ripartire ma per rinascere, però.
La pistola? Certo che è mia e io l’ho uccisa con quella. È la realtà.
Ma sa, commissaria, che lei mi è simpatica, e legge anche dei libri! Brava. Già, è una donna, quindi… Mi sta parlando di Oscar Wilde. Il celebre racconto della morte della chiromante, vuole che non lo conosca? Si, è vero, nel mio caso la situazione è opposta. A parte che io – come le ho già detto – non sono una chiromante ma un’astrologa, nel racconto di Oscar Wilde la chiromante viene uccisa da un cliente al quale lei ha predetto che sarebbe diventato un assassino. La chiromante non indovina che quel cliente ucciderà lei. Se lo avesse fatto non sarebbe morta. O forse l’aveva visto nelle carte ma non si è potuta sottrarre ugualmente al suo destino.
Ma certo che credo al destino. Che domande! Ci credo ma voglio liberarmene, appunto perché ci credo. Cosa serve sapere le cose in anticipo se poi non si riesce ad evitarle? È la solita domanda che ci facciamo tutti. Lei sa rispondere? Io no. Comunque bisogna sempre tentare. Mi chiede se non l’avevo letto nei miei astri che sarei diventata un’assassina: no, cara signora, confesso di no e di non averlo saputo finché non ho sparato.
Si, i motivi, ci sono, eccome. Al mio posto, avrebbe fatto la stessa cosa anche lei, oh, mi scusi, non volevo… avrà pure il senso della giustizia, no? Giudichi lei, allora.
La mia vittima era una ragazzetta smarrita quando è venuta la prima volta da me, il suo cielo natale è quello di una persona debole, insicura, una specie di straccio in cui tutti si puliscono, una che non sapeva cosa fare di sé, un vero disastro. Io le ho dato la forza necessaria per staccarsi da una famiglia balorda che la strumentalizzava in tutti i modi, poi l’ho convinta a lasciare il marito mafioso e alcolista che la spediva all’ospedale una settimana sì e una no, poi a cercarsi un lavoro perché, le dicevo, l’indipendenza economica è il primo passo verso l’autonomia, per sentirsi parte di questa società, un primo passo verso la propria dignità. Un primo passo, ma poi…Sul lavoro, la poverina, subiva ogni sorta di supruso: il mobbing, già, come la ciliegina sulla torta, oltre a una sottopaga di fame, lavoro nero, compromessi, ricatti e umiliazioni di ogni genere, e poi seguendo il mio suggerimento si è messa a studiare per cambiare tipo di lavoro, ma le hanno soffiato il posto, insomma… si è scontrata con la realtà quotidiana, una realtà durissima. Per mantenersi ha fatto di tutto, la poverina, perfino la prostituta, ma anche lì, ne ha subite di tutti i colori e le colleghe, come se non bastasse, contribuivano a peggiorare le cose: altro che solidarietà, altro che sorellanza. Io cercavo di incoraggiarla, di darle speranze, e nel frattempo di sottrarmi a quel ruolo di guida di cui mi aveva investito in modo assoluto.
Baravo con i suoi astri: dovevo dirle che le erano sfavorevoli? Dovevo dirle che lei era nata vittima e vittima sarebbe rimasta? E poi, se veramente qualcosa sarebbe andato dritto nella sua vita?! L’imprevisto esiste. I miracoli accadono. La ingannavo, ma…a fin di bene, no? E certe volte, ingannavo anche me.
Era diventata ossessiva, persecutoria, cercavo di liberarmi di lei aiutandola a liberarsi di me… Finché ha cominciato a dire che un lavoro non frustrante, un lavoro in cui lei potesse finalmente non dipendere da nessuno, un lavoro al di sopra di tutti gli altri, in cui rispecchiarsi e dare un senso alla sua vita, era un lavoro come il mio. Non come il mio. Ma il mio.
Nessuna dipendenza da nessuno, solo quella in via diretta, dagli astri.
Si, invidiava il mio lavoro. Quelle donne, signora commissario, invidiano tutto, anche il tuo respiro. Sono scimmie melodrammatiche. Può una scimmia diventare un cavallo?
Se lo immagina una come lei fare l’astrologa? Se lo immagina che senso di onnipotenza? E da che pulpito, vero, viene la lezione! Immagini le persone ignare cadere nelle mani di una come lei, di una cacciaballe presuntuosa. No, nessun astro nel suo oroscopo indicava una tendenza per lo studio dell’astrologia.
E quindi è diventata aggressiva, non me la toglievo più dai piedi. Studiava libri su libri, seguiva corsi su corsi e si faceva le ossa – come si dice – sul mio oroscopo. Voleva conoscermi, togliermi la pelle, impadronirsi di me, della mia anima, del mio lavoro, di tutto quanto. Finché non mi ha sbattuto in faccia che io, per come avevo disposti i pianeti nel mio cielo, ero una potenziale assassina, sarei diventata comunque un’assassina.
Non si fanno così gli oroscopi. Non si può mai dire una cosa così, le dicevo. È un modo assolutamente errato di interpretare un cielo. Io non sono un’assassina e tu nonsei una vittima. E lei mi rispondeva che se lei non era una vittima io non ero una buona astrologa perché lei – e la sua vita lo dimostrava – era una vittima: della sua vita e di me. Ma che non lo sarebbe stata più perché voleva prendere finalmente in manoil suo destino:in poche parole, fare quello che io desideravo facesse .
Si è fatta minacciosa. Mi perseguitava giorno e notte. Bene, le ho anche detto, fai l’astrologa, fai quello che ti pare ma lasciami in pace. Ti do pure i soldi per iniziare. Mi sarò sbagliata su di te, sei l’imprevisto, per me, il mio errore, non ho interpretato correttamente il tuo oroscopo.
Ma poi… al pensiero che le donne e anche gli uomini, cadessero tra le grinfie di una come lei, una che non libera…ma imprigiona, che parla di destino come una cupa fattucchiera d’altri tempi…E io, proprio io, dovevo subirla? Esserne vittima? Signora commissario, io non sono né masochista né sadica, né vittima né carnefice, ma dovevo difendermi, le pare? – e difendere la mia categoria.
Mi spedisca pure in prigione. Lei faccia pure il suo lavoro, ma lasci che io continui a fare il mio. Farò l’oroscopo a lei e a tutti i detenuti, devo lavorare per aiutarli, continuare a lavorare e studiare per capire le possibilità del loro cielo astrale, i segni di cambiamento, il cedimento delle loro sbarre…
Come ha detto? Non capisco, mi scusi. Io avrei sparato a uno specchio? Non houcciso nessuno? Che cosa significa? Mi spieghi bene: sarei una visionaria? E la pistola e…
Ah si? I colpi sono stati due? Non ricordo. Uno diretto allo specchio e l’altro al soffitto. Già….anche al cielo volevo sparare…eh già. Se le cose stanno così, cara commissaria….ma scusi, lei è sicura di essere proprio un commissario di polizia? E io dove sono? Chi è lei veramente? Un medico? Uno psichiatra? Ah. Comunque hafatto un ottimo lavoro, davvero. Brava. Eh, noi donne…Ma io, adesso… sono libera ono?
I testi, tradotti da Lucetta Frisa, sono tratti da L’immédiat insigne di Bernard Noël e sono dedicati alla mostra fotografica di Jean-Marc de Samie, dal medesimo titolo, ospitata dal 19 luglio al 4 settembre 2003 presso il Monastero di Saorge, in Provenza.
Raffaele Orlando è morto a trentatre anni il 25 giugno 1962, mentre si correggevano le bozze di questo libro [L’annaspo, Einaudi 1963]. Pareva che vi fosse ancora una speranza di farglielo palpare, vedere, annusare da vivo, di fargli provare quello ch’è forse l’unico piacere degli scrittori, e che spesso dura solo un istante, un istante intensissimo. E invece no. La morte che aveva fissato ad Orlando un singolare e atroce appuntamento, è stata esatta anche in questo […]. Fisicamente drammaturgo, e poeta in ciò che più rivela i poeti (cioè nell’ossessivo amore per le parole), Orlando cerca affannosamente d scoprire il rapporto più vero fra parola e dramma, poesia e azione, per poi giungere a quella coincidenza fra azione e contenuto morale in cui la pietà per le persone diventa giudizio. Sono sicuro che vi sarebbe arrivato, e ben presto […] E invece no. Siamo qui a parlare di lui come vi fosse ancora un futuro, e invece no, è passato. Speriamo che, come ogni cosa autentca, non sia passato invano.
Ruggero Jacobbi (dalla prefazione a L’annaspo)
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Raffaele Orlando nasce a Menaggio il 2 gennaio 1929. Nel 1960 entra a far parte del Piccolo Teatro di Milano, come assistente di Giorgio Strehler. Collabora con lui a diversi spettacoli come L’Egoista, L’eccezione e la regola, Ricordo di due lunedì. Scrive due drammi, Il sintomo e L’annaspo. Lascia poesie inedite, pagine di diario e appunti per un dramma dal titolo Discorso della pianura. Muore il 25 giugno del 1962 a Gardone Riviera.
La scrittura può seguire il ritmo del pensiero? È un problema che André Breton doveva necessariamente porsi. Il surrealismo, infatti (secondo la celebre definizione che egli ne dà nel manifesto inaugurale del movimento), è l’«automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale»1. Idea non banale, certo, ma più facile a dirsi che ad attuarsi, come dimostrano i seri problemi incontrati dai surrealisti nei loro tentativi (sempre in gran parte simulati) di scrittura automatica. In effetti, il flusso del pensiero non si lascia riprodurre, anche perché il suo corso risulta sempre più veloce della mano che dovrebbe trascriverlo.
Ma quale rapporto possono avere preoccupazioni del genere con la filosofia, che per definizione è esercizio vigile della coscienza? In apparenza nessuno. Eppure un pensatore come Jacques Derrida sembra aver avvertito, riguardo a se stesso, esigenze in parte simili a quelle esposte da Breton. Così, in un suo testo edito nel 1980, egli descrive «il vecchio sogno impossibile della registrazione esaustiva e istantanea, soprattutto non perdere neanche una parola – poiché ci tengo in particolare alle parole e la loro rarefazione mi è insopportabile nella scrittura –, il vecchio sogno dell’elettro-cardio-encefalo-LOGO-icono-cinemato-biogramma completo. E banale – voglio dire in primo luogo senza la minima letteratura o finzione sovrapposta, senza pausa, senza selezione né di codice né di tono, senza il minimo segreto, niente del tutto, soltanto tutto – e banale in fin dei conti, perché se una simile carta fosse possibile, anche solo per un lasso di tempo assai breve (a loro ci vorrebbero poi secoli di università per decifrare il risultato), io morirei infine placato»2. Questo sogno del filosofo francese appare tanto più paradossale se si pensa che la sua produzione libraria edita in vita è stata immensa, e del resto continua tuttora, con numerose e importanti pubblicazioni postume.
Si potrebbe obiettare che il passo citato proviene da Envois, uno degli scritti derridiani più prossimi a una forma di espressione di tipo letterario. E in effetti l’autore ha riconosciuto che, in quel testo, ad essere in causa è un «firmatario fittizio»3. Nondimeno, l’idea che abbiamo visto enunciata dal filosofo si ritrova in altre sue dichiarazioni, in cui l’impiego della prima persona è senz’altro più immediato. È il caso di un’intervista nella quale egli afferma: «Per quanto riguarda il discorso interiore, il monologo interiore, i pensieri interni, la mia infelicità è che, tra ciò che mi passa per la testa ad ogni istante, che può avere tutte le forme possibili e talvolta forme discorsive molto elaborate, e ciò che ne rimane quando scrivo, non c’è alcun rapporto, o un rapporto tanto indiretto o deformante da provocare sofferenza. Quello che facciamo, pensiamo, parliamo, diciamo, è incommensurabilmente più ricco e più fine, pertinente, inventivo, di tutto ciò che si può registrare sulle nostre macchine da scrivere, sui magnetofoni, la carta, i libri, le interviste e altrove. Qui ho una sensazione di perdita, e lotto contro questa perdita di memoria»4.
Come si vede, il filosofo sembra qui riferirsi soprattutto alle idee (già elaborate, oppure ancora grezze) che gli capita di avere, e magari anche di esporre oralmente parlando con altri, ma che spesso vengono da lui dimenticate, spariscono nel nulla per mancanza di una qualsiasi forma di registrazione durevole. È una sensazione che chiunque, in certi momenti, sperimenta, dunque non c’è da sorprendersi che, nel caso di un pensatore fertile e inventivo come Derrida, essa si accompagni al rammarico per tutto quel in tal modo è andato perduto. Tuttavia non bisogna credere che a interessargli siano solo i concetti (o le intuizioni) potenzialmente utilizzabili nel suo lavoro filosofico. In altre dichiarazioni, infatti, egli torna ad insistere sull’auspicio, o piuttosto il miraggio, di una fissazione integrale dei pensieri: «Ancora oggi, rimane ossessivo il desiderio di salvare nell’iscrizione ininterrotta, sotto forma di un memoriale, ciò che accade – o non riesce ad accadere. Quello che sarei tentato di denunciare come un’esca, ossia la totalizzazione o il raccoglimento, non è forse ciò che continua a farmi correre? L’idea del polilogo interiore […] era in primo luogo il sogno adolescenziale di conservare traccia di tutte le voci che mi attraversavano – o mancavano di farlo, e che doveva essere così prezioso, unico, nel contempo speculare e speculativo. Ho appena detto “non riesce ad accadere” o “mancavano di farlo” per indicare bene che ciò che accade, in altri termini l’evento unico di cui si vorrebbe conservare la traccia, è anche il desiderio stesso che accada ciò che non accade, e dunque una “storia” in cui l’evento incroci già in sé l’archivio del “reale” e l’archivio della “finzione”. Già avremmo difficoltà non a discernere ma a separare il racconto storico, la finzione letteraria e la riflessione filosofica»5.
Si sarà notato che Derrida utilizza, per parlare dell’opera sognata, l’espressione di «memoriale». In effetti, c’è per lui uno stretto rapporto tra l’esigenza di scrivere e quella di fissare sulla carta dei ricordi personali: «Le Memorie, sotto una forma che non sarebbe quel che di solito si chiama così, costituiscono la forma generale di tutto ciò che mi interessa, il desiderio folle di conservare tutto, di raccogliere tutto nel proprio idioma»6. Questo potrebbe sembrare un progetto di tipo letterario, piuttosto che filosofico, ma non è esattamente così, anche se Derrida ammette la propria predilezione per la scrittura di sé: «Nella letteratura, in fondo, mi interesso sempre all’autobiografico: non al cosiddetto “genere autobiografico”, bensì a quell’autobiograficità che deborda largamente il “genere” dell’autobiografia. D’altronde, la maggior parte dei romanzi autobiografici mi sembrano assai poco autobiografici. Cerco dunque di guardare a ciò che nell’autobiografia eccede sia il genere letterario sia il genere discorsivo e, al limite, l’autòs. Cerco di interrogare ciò che nell’autòs scompagina il rapporto a sé, ma sempre in un’esperienza esistenziale singolare, se non ineffabile quanto meno intraducibile, difficilmente traducibile»7. È proprio l’intento di finalizzare la scrittura memorialistica alla destabilizzazione dell’io, invece che all’autocelebrazione narcisistica, ciò che conferisce al progetto di Derrida una dimensione filosofica.
Egli non è stato il primo ad accorgersi del fatto che i pensatori, anche quando credono di pronunciarsi sui massimi sistemi, nel contempo stanno rivelando qualcosa che li riguarda personalmente. È quel che asseriva già Nietzsche, secondo cui i grandi filosofi «non sono consapevoli del fatto che parlano di se stessi – ritengono trattarsi “della verità” – ma in fondo si tratta di loro»8. Idea che verrà da lui ribadita anche in seguito: «Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad ora ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires»9. Derrida è ben cosciente di ciò, il che gli consente di affermare: «La filosofia […], per me, è sempre stata al servizio di questo progetto autobiografico di memoria, il che non significa rinunciare alla specificità del genere filosofico, all’esigenza propriamente filosofica, ma attesta il desiderio, pur andando il più in là possibile nella responsabilità filosofica, di indicare che essa è, in quanto responsabilità, quella di qualcuno. Per formalizzare al massimo, direi che la domanda chi mi sembra sempre essere la grande domanda. […] Ovviamente il chi non significa l’io, la persona, il soggetto, ma ciò che obbliga a interrogare e a decostruire questa storia dei concetti di io, di persona, di soggetto, di mente, ecc. La questione del chi […] provoca lo spostamento delle categorie entro le quali vengono pensate la biografia, l’autobiografia, le memorie»10.
Ci sono due classici modi per rapportarsi alla vita di un filosofo: il primo consiste nel pensare che non si possa né si debba prescindere dalla conoscenza dei faits et gestes che l’hanno caratterizzata, il secondo nel ritenere che tali circostanze siano trascurabili, in quanto l’unica cosa che importa è il contenuto teorico delle opere. Queste due posizioni, in contrasto fra loro, sono rappresentate da due autori molto stimati da Derrida, ossia Nietzsche e Heidegger: entrambi le enunciano parlando dei pensatori greci delle origini, riguardo ai quali le nostre conoscenze di natura biografica sono senz’altro scarne e lacunose. Nietzsche, però, le ritiene essenziali: «Questo tentativo di raccontare la storia dei filosofi greci più antichi si distingue da altri tentativi simili per la sua brevità. […] Sono state scelte tuttavia le dottrine in cui vibra ancora nel modo più forte l’elemento personale di un filosofo: per contro un’enumerazione completa di tutte le possibili dottrine tramandate, secondo l’uso dei manuali, ha in ogni caso il risultato di ridurre al silenzio l’elemento personale. Perciò sono talmente noiose quelle esposizioni: in sistemi che sono confutati può difatti interessarci ormai soltanto l’elemento personale, poiché questo è l’aspetto eternamente inconfutabile. Con l’aiuto di tre aneddoti, si può fornire l’immagine di un uomo: in ogni sistema io cerco di mettere in luce tre aneddoti, e getto via il resto»11. Di parere opposto è Heidegger: «Della vita di Eraclito […] sappiamo tanto poco quanto della vita di Anassimandro e di Parmenide. Sarebbe sbagliato lamentarsi della mancanza di notizie biografiche; infatti chi sia Parmenide e chi sia Eraclito lo possiamo stabilire solo a partire da ciò che Parmenide ed Eraclito hanno pensato, e questo non lo veniamo mai a sapere dalle “biografie”. Perciò la biografia di un pensatore può essere completamente esatta, mentre l’esposizione del suo pensiero rimane del tutto non conforme a verità. […] Gli “aneddoti” non devono sostituire la biografia mancante, né devono servire ad introdurre l’esposizione delle cosiddette “opere” dal punto di vista “biografico”; essi devono piuttosto aiutarci a riconoscere che l’“elemento biografico” e la “personalità storica” sono aspetti inessenziali»12.
La posizione di Derrida al riguardo differisce sia da quella nietzschiana che da quella heideggeriana, in quanto si basa su un ragionamento di maggiore complessità: «Non consideriamo più la biografia di un “filosofo” come un corpus di accidenti empirici che lasciano un nome e una firma fuori da un sistema che si offrirebbe solo a una lettura filosofica immanente, l’unica considerata filosoficamente legittima: totale incomprensione accademica dell’esigenza testuale, che si regola sui limiti più tradizionali dello scritto […]. Grazie a questo, d’altra parte, è possibile in seguito scrivere delle “vite-di-filosofi”, dei romanzi biografici […]. No, una nuova problematica del biografico in generale, e della biografia dei filosofi in particolare, deve mobilitare altre risorse, e quanto meno una nuova analisi del nome proprio e della firma. Né le letture “immanentiste” dei sistemi filosofici, siano esse strutturali o meno, né le letture empirico-genetiche esterne, hanno mai, in quanto tali, interrogato la dynamis del margine che esiste tra l’“opera” e la “vita”, il sistema e il “soggetto” del sistema. Questo margine […] non è una linea sottile, un tratto invisibile o indivisibile tra l’insieme dei filosofemi da una parte e la “vita” di un autore, già identificabile col suo nome, dall’altra. Questo margine divisibile attraversa i due “corpi”, il corpus e il corpo, secondo leggi che cominciamo soltanto a intravedere»13.
Ovviamente le cose si complicano ancor più se a trattare della propria vita è il filosofo stesso, ossia se ad essere in causa è la scrittura autobiografica. E qui si torna al caso di Derrida, quello di un pensatore che, pur non avendo mai scritto un’opera concepita come narrazione per esteso della propria vita, ha spesso inserito frammenti memorialistici nei suoi libri o interviste. Perciò, come ha notato Benoît Peeters, «Circonfession, La carte postale, Le monolinguisme de l’autre, Voiles, Mémoires d’aveugle, La contre-allée e vari altri testi, tra cui molte interviste tardive, così come i due film che gli sono stati dedicati, delineano un’autobiografia frammentaria, ma ricca di dettagli concreti e talvolta molto intimi»14. Ciascuno dei testi evocati da Peeters richiederebbe un’analisi approfondita, ma preferiamo mantenerci qui sul piano di un discorso più generale. È chiaro che esiste, nelle opere derridiane, una doppia pulsione contraddittoria: quella a «dire tutto» anche su di sé, e quella che induce invece alla discrezione: «Ciò che si riserva nello svelamento, non è qualcosa che si nasconde, che si decide di non mostrare: dato che qualcosa è sottratto a me stesso, riservato per me stesso, fin tanto che […] questa riserva rimane valida per me, troverei nel contempo derisorio, brutale, sommario e falso fingere di svelarlo. Per custodire in riserva lo svelamento della riserva, mantengo una specie di discrezione, fin nell’esibizione. C’è il segreto di “me” per “me”. Per preparare o preservare la possibilità per me di accedervi o di mostrarlo, giudico per il momento che ogni mostrazione [monstration] sia precipitosa o aneddotica. Essa cederebbe a dei canali convenzionali, come la fotografia o l’aneddoto; sarebbe mistificatrice, mistificante ed esibizionista. Esibizionista nel senso derisorio del termine»15.
Lo stesso tipo di problematica si presenta anche rispetto a un’altra forma di «scrittura di sé», quella diaristica. Il filosofo ha ricordato in un’intervista di averla praticata fin da giovane, sia pure in maniera particolare: «In quel diario si trovavano al tempo stesso confidenze autobiografiche, ma anche già abbozzi di brevi dissertazioni su Rousseau e Nietzsche. […] Se c’è un sogno che non mi ha mai abbandonato, qualsiasi cosa abbia scritto, è quello di scrivere qualcosa che abbia la forma di un diario. In fondo, il mio desiderio di scrivere è quello di una cronaca esaustiva. Cosa mi passa per la testa? Come scrivere tanto velocemente da conservare tutto ciò che mi passa per la testa? Mi è capitato di riprendere in mano dei taccuini, dei diari, ma ogni volta li abbandonavo; alla fine ci ho rinunciato, e ora non tengo più alcun diario. Ma è il rimpianto della mia vita, perché quello che mi sarebbe piaciuto scrivere è proprio questo: un diario “totale”»16.
Non è soltanto una difficoltà di carattere stilistico o psicologico quella che ostacola il sogno derridiano di una registrazione scritta che sia onnicomprensiva. Questo sogno, infatti, confligge gravemente con la concezione che il filosofo stesso ha proposto riguardo alla scrittura. A giusto titolo Igor Pelgreffi ha osservato che «qui, la contraddizione sta nel desiderio di un pangrafismo capace di trattenere la vita, che con tutta evidenza contrasta con l’idea di écriture come forma del rinvio, del necessario ritardo e rottura dell’ordine vitale dell’immediatezza»17. Inoltre il pensiero, al pari dell’esistenza, è caratterizzato proprio dall’essere qualcosa di fuggevole, dunque solo in minima parte fissabile sulla carta. E l’oblio non è meno importante, né meno necessario, della memoria.
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1 A. Breton, Manifeste du surréalisme (1924), in Manifestes du surréalisme, Paris, Gallimard, 1981, p. 37 (tr. it. Manifesto del Surrealismo, in Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 1966; 1987, p. 30; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
2 J. Derrida, Envois, in La carte postale, de Socrate à Freud et au-delà, Paris, Aubier-Flammarion, 1980, p. 76 (tr. it. Invii, in La cartolina. Da Socrate a Freud e al di là, Milano-Udine, Mimesis, 2017, p. 69).
3 J. Derrida, À voix nue (1998), in Sur parole. Instantanés philosophiques, La Tour d’Aigues, Éditions de l’Aube, 1999, p. 25 (tr. it. A voce nuda, in Sulla parola. Istantanee filosofiche, Roma, Nottetempo, 2004, p. 33).
4 J. Derrida, Dialangues (1983), in Points de suspension. Entretiens, Paris, Galilée, 1992, pp. 153-154.
5 J. Derrida, «Cette étrange institution qu’on appelle la littérature» (1989), in AA. VV., Derrida d’ici, Derrida de là, a cura di Thomas Dutoit e Philippe Romanski, Paris, Galilée, 2009, pp. 254-255.
6 J. Derrida – Maurizio Ferraris, intervista del 1994, in Le Goût du secret. Entretiens 1993-1995, Paris, Hermann, 2018, p. 51 (tr. it. «Il gusto del segreto», Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 38).
7Ibidem (tr. it. p. 37). Per tutti i temi che stiamo affrontando, è d’obbligo il rinvio all’ampio volume di Igor Pelgreffi La scrittura dell’autos. Derrida e l’autobiografia, Giulianova, Galaad, 2015.
8 Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1882-1884, in Opere, vol. VII, tomo I, parte I, tr. it. Milano, Adelphi, 1982, p. 250.
9 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886), in Opere, vol. VI, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1968; 1986, p. 11.
10Le Goût du secret, cit., pp. 51-52 (tr. it. p. 38).
11 F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci (1873), in Opere, vol. III, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1973, p. 267.
12 Martin Heidegger, L’inizio del pensiero occidentale.Eraclito (1943), in Eraclito, tr. it. Milano, Mursia, 2015, p. 9.
13 J. Derrida, Otobiographies. L’enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre, Paris, Galilée, 1984, pp. 39-41 (tr. it. Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, Padova, Il Poligrafo, 1993, pp. 41-42).
14 B. Peeters, Derrida, Paris, Flammarion, 2010, p. 11. Gli scritti derridiani a cui si fa riferimento sono: Circonfession, in Geoffrey Bennington – J. Derrida, Jacques Derrida, Paris, Éditions du Seuil, 1991, pp. 5-291 (tr. it. in Derridabase – Circonfessione, Roma, Lithos, 2008, pp. 11-281); Envois, cit., pp. 5-273 (tr. it. pp. 11-230); Le monolinguisme de l’autre ou la prothèse d’origine, Paris, Galilée, 1996 (tr. it. Il monolinguismo dell’altro o la protesi d’origine, Milano, Cortina, 2004); Un ver à soie, in Hélène Cixous – J. Derrida, Voiles, Paris, Galilée, 1998, pp. 23-85 (tr. it. Un baco da seta, in Veli, Firenze, Alinea, 2004, pp. 21-73); Mémoires d’aveugle. L’autoportrait et autres ruines, Paris, Réunion des musées nationaux, 1990 (tr. it. Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Milano, Abscondita, 2003); Catherine Malabou – J. Derrida, La contre-allée, Paris, La Quinzaine Littéraire-Louis Vuitton, 1999. I due film sono: Safaa Fathy, D’ailleurs, Derrida (1999), e Kirby Dick – Amy Ziering Kofman, Derrida (2002).
16À voix nue, cit., pp. 18-19 (tr. it. pp. 25-26). Ci sono comunque alcuni testi nei quali Derrida adotta (o finge di adottare) la forma del diario, inteso proprio come serie di annotazioni datate: cfr. Cartouches, in La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978, pp. 211-290 (tr. it. Cartigli, in La verità in pittura, Roma, Newton Compton, 1981, pp. 177-244); Journal de bord, in Survivre, in Parages, Paris, Galilée, 1986, pp. 119-218 (tr. it. Giornale di bordo, in Sopra-vivere, in Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, Milano, Jaca Book, 2000, pp. 177-271), nonché Un ver à soie, cit., e le parti stampate su fondo grigio in La contre-allée, cit.
17 I. Pelgreffi, Scrittura e filosofia. Jacques Derrida interprete di Nietzsche, Roma, Aracne, 2014, p. 92.
il tuo Sindrome del ritorno non è una raccolta di frammenti come tu scrivi in apertura del libro. Pensare a questa tua opera in questi termini significa non coglierne il nucleo e la vita che abita ogni parola di questo volume. Sindrome del ritorno è adesione profonda al tuo sé interiore e ogni parola, ogni sguardo, che sia alle nuvole o al sandalo che compare in sogno, vivifica il tuo sé interiore ed è qui, in questo e su questo vivificare, che la sindrome del ritorno si regge e costruisce. Perché “sindrome del ritorno” non è altro che scavare nella propria dimensione esistenziale vivendo in modo sincronico ciò che è e ciò che è stato in modo da poter rinnovare costantemente il proprio essere, la propria coscienza. Si avanza e al contempo ci si riprende per vivificarsi senza sosta, perché “le mani posate sui fogli ancora vuoti” abbiano quello scatto, quella presa di coscienza, che le mette in moto, che le fa diventare quello strumento/destino che disvela l’inganno e anche l’abisso della realtà che ci circonda e che, dopo averli disvelati, ritorna su se stesso, per imbracciare “quel fucile rosso, mezzo disegnato sul muro” e uccidere con questo fucile “le nevrosi, i numeri, gli odori, i rumori, le sciocchezze di sempre”. Ritorna, si è detto, su se stesso. E ritornare su se stesso equivale ad agire. E agire è vivificarsi, poter essere contro o a favore, poter scrivere, potersi concentrare sui dettagli, anche quelli di un sogno. È potersi stupire. E nello stupore, inteso come qualcosa che sconcerta e sbalordisce, tutto si tiene e lega, si fa sintesi e unità.
Ecco, la sintesi e l’unità. E il ritorno/vivificarsi ne è radice radicale. Senza il ritorno la coscienza si sgretola, l’io si sgretola, il mondo si sgretola. Ma, soprattutto, la parola si sgretola. Da qui la necessità della sindrome del ritorno perché la parola e il proprio sé possano eternamente generarsi e rigenerarsi, possano eternamente sperimentare e sperimentarsi nella loro struttura fisica e psichica, nella loro corporeità fatta di nodi e grumi, di sogni emblemi ed enigmi che marcano tempo e spazio, etica ed estetica, in uno slancio che plasma, individualmente, certo, ma poi anche collettivamente e quindi storicamente, gli infiniti conflitti e contraddizioni che abitano e animano il sé e la parola.
Per questo, Marco, non siamo qui di fronte a dei frammenti ma ad un’opera che è tessitura solida e compiuta, e che da dialogo intimo, interiore, si espande per diventare ed essere testimonianza di tutte quelle dinamiche dilanianti o astruse, imprevedibili o folli, che segnano a fior di pelle l’umano sentire, e che segnandolo lo rendono però anche libero di riconoscersi, e di tornare eternamente su se stesso per essere e vivere. Per continuare a vivere.
Con un forte abbraccio,
Silvia
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Silvia carissima,
hai ragione, non ho scritto un libro di frammenti. Ma, per me, dire “frammento” è dire una totalità ridotta all’essenza, è la presenza stessa della poesia. La poesia non guarisce chi si ammala, non trasforma il mondo, non lo guida a magnifiche sorti progressive: è disarmata, nuda, vinta, ma ha sempre qualcosa da dire ancora perché il suo regno è quello dell’indicibile, degli “infiniti conflitti e contraddizioni che abitano e animano il sé e la parola”. La poesia nasce quando il discorso logico sparisce e ci consegna allo stupore di parole che, trattenute per un istante, per un istante trascritte, nostre e mai solo nostre, imprudenti, infelici, rivoltose, amorose, ricche di infinito, di pericolo, di bellezza, sono esattamente quello che abbiamo e quello in cui ci riconosciamo. La poesia è l’esperienza di sentirsi dentro le cose con il rigore di un linguaggio sospeso in una realtà “fatta di nodi e grumi, di sogni emblemi ed enigmi che marcano tempo e spazio, etica ed estetica”. Ma questa sospensione non è arabesco del linguaggio o estasi mistica: è attenzione morale a una lingua che ci permetta di guardare dentro e attorno a noi senza impressionismi consolatori, senza vezzi linguistici, senza paesaggi rassicuranti. Guardare. Dormire. Poi svegliarsi, in stato di allarme e combattere la dittatura dell’ovvio non solo con la poesia in versi ma con il pensiero poetico, essenziale per “continuare a vivere”. Sindrome del ritorno è costruire un’oasi nostra, che sia casa da cui partire e casa in cui tornare. Luogo di “tessitura solida e compiuta”, ma anche luogo dei nostri frammenti, abitati dal demone di un vento che distrugge, incessante, e plasma, ininterrotto. La radice, così penso e sogno, di noi stessi, è il vento, e ogni scrittura è una lezione di vento. Le “mani posate sui fogli ancora vuoti” non smettono mai di scriversi, di scriverci.
più chiare nascite senza memoria di parole nella voce, profili in trame di muschi cresciuti nel grembo caldo della luce – dove la pelle è un paesaggio che si apre a mani da semina e consiste, limpido, nell’oblio di polvere del futuro
(viste dall’alto, da un prima di distanze, versando dentro i calici l’arte che ci perdona del sapere)
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sul labbro sente le sillabe intrecciare favole di nebbia, geografie di resina e notti immaginarie tradotte al guado di lampade profonde: –
la lingua assorbe tempo dai pori del respiro, l’infanzia fa cenni di luce da cieli di rimpianto che ora svaniscono, ora si impigliano alle fronde, nel grido di chi sbaglia strada e senza il dono dell’orma va nel giorno
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ieri gravido di lune franate nell’abisso salino di un grido – al laccio un viola d’ombre di crepuscolo, negli occhi la rotta dolente di vele sopra mari inesplorati: –
non altro si annuncia in questo lento fluire di spazi arresi a regole d’azzardo, solo vorticose cadute di saggezza nella quiete che scolora insieme al liquido bruciato di una bottiglia vuota – costellazione imprevista di petali, silenzi fermentati dagli umori densi del sangue delle rose
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così risalgono parole dove fa luce la pena di sostanze in tacita pelle d’ombra –
è luce il non detto che lontana in disperate finzioni, allegorie di veglia, fragili tracce immiserite sopra margini di fiamma, in tutto simili a un ritrarsi d’ala davanti al picco che domina franate radure del linguaggio
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incoerente rotta nell’azzurro disegnata dall’ultimo volo, dalle pupille di una rondine in rallegrati lumi invernali – quando lo sguardo cede all’incanto di quel lampo compiuto da sciami di cielo e la notte frana come un porto all’inarcarsi di onde millenarie, poi lacrima nell’erba nevi elementari, argille d’isola per modellare transiti di epoche: –
si muore nella calma di uno stelo reciso dal gelo, col passo che profonda sete in ripetute lettere del sonno, un breve sorso alla ferita immobile del sole
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indicibile senso di impuri, insanabili alfabeti per quanti segni vibrano nell’oscura nobiltà dei morti e prendono voci di steli inebriati dal respiro della falce – reciso accordo di ostinate forme, solo lo sguardo intatto, non indurito da battesimi di luce, un fuoriuscire dall’atlante di rituali paesaggi, oasi che gravano di desideri l’occhio, gigli accesi in troppo labili calici di mente
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estasi annunciate dal ritorno di ali recluse tra orizzonti di vertigine, in quel volo radente che, sul nascere, a nessuno germoglia cristalli contro il fuoco, ma rose aguzze che nel chiarore cercano accordi con la spina: –
le senti rosseggiare, crepitanti resine d’inchiostro, assomigliarsi agli astri sfiniti tra rigagnoli di mura, al tempo che si estenua nel lievito di un grido, a questa dura pace dell’aria che regna nel guardare
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cardini del cielo in fondali di specchio, echi del vivere in corpi fasciati d’acque nel cono illuminato dell’appena, quasi una bruma misericordiosa che bussa alle palpebre e ricopre, tra nevicate di foglie, parole miniate con gli inchiostri delle cime: –
quanto riemerge al giorno è colore sbiancato di segni, la mano che inquadra l’ombra in brevi metamorfosi di luce – fragili, irripetibili trasparenze d’altrove
vanescenti cerchi in stagni illusori di eventi – tutto trascorre limpido allo sguardo tranne una pietra covata in chimiche stagioni d’iride, scagliata tra le onde dei giorni a naufragare la fitta autunnale che ricuce l’anima di tele, come un ragno: –
arcipelaghi frementi di alghe per quanti istanti la morte cede ai sensi azzurrati di piovasco – in trame di segni intraducibili fiorisce sulla pelle mappe d’acque immobili, silenzi di ninfee
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maree incantate da rive inaccessibili – sporge da un grido d’acque, tra filamenti d’isola, come un lume covato nei fondali, il dio dagli occhi a stella che emerge nel tramonto confuso dentro orme verdeluce: –
il suo volto si mostra allo sbarco terra di tormentate lune che nel timore difende l’oro dei suoi deserti, e per necessità, di dubbio in dubbio, appronta il diario dei suoi disvelamenti – ventoso diario di parole, sbiadita rassegna di immagini d’assenza
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alberi sedotti da luci segrete di pietre e solitarie stelle di ponente – alberi grondanti fuochi di passione, gravidi di foglie in lenta fila al controllo delle parche, naturali epifanie di finitudine in segnali di chiome, di terragni voli: –
alberi – nella notte rischiarata da un bagliore, respiri di occhi arresi alla voce srotolata delle acque – al dire che alimenta il desiderio inspiegabile del seme
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vegliano i giorni la stele irrivelata dei canti, reliquiario di pensieri spesi in muta grazia e trapassati, ombra dopo ombra, al sonno delle sabbie, indecifrabili come lacrime sognate da respiri ardenti d’oasi – pagine di fiume dove il senso emerge in labili segnali di corrente cancellati dall’aurora, un’altra resa, una rosa di silenzi unica nel suo alfabeto senza requie: –
di tante voci gridate sull’orlo dell’abisso solo la sete dura, accampata sulle labbra di stelle incapaci d’occhi, dismesse radure dell’eterno
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il segno dice della parola quello che non è più, il non ancora – come una palpebra abbassata sull’orizzonte del foglio, sotto cieli grondanti della stessa attesa, fa corpo da sempre col vuoto che si lascia alle spalle, col vuoto che annuncia: –
tacere in ascolto è il suo volto segreto, un candelabro semprevivo sulla spuma d’astro della parola ritrovata, perduta, abitata in passi d’esilio
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respiri impenetrabili alla goccia, se l’acqua è nero lume di parole e devasta orizzonti di radici, lingua che taglia a colpi di memoria volti illuminati appena da mute eredità di foglie
(salpa il naviglio e si congeda dai fiori dello stagno, la disperazione dell’erba è già un parlare in lingue di cammino – vibra alla brezza, muove la corrente, indica la rotta per la foce)
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stelle che al corpo rivelano contiguità radianti di stupore e sensi accesi nell’oro della sera – in quei silenzi che parlano di oscuro quando la rosa che si osserva, rabbrividita nella luce assente, costretta nell’acqua stagnante del suo sguardo, copula inavvertite albagie di fiume, il suo diario di amori appesi al cielo, a strapiombo sulle rapide dell’alba –
minia ingegnose chiuse d’aria sulla pagina mai scritta di un brivido – il profumo di disfatta che si improvvisa palpito del mondo
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dimore precarie dove fiamma il respiro di icone ingrigite, un tracciato di brina e ragnatele per copule di polvere, architetture aeree di remote vite consumate in odore di nebbia, bruciate in cifre perpetue di non visibili volti di marea, di varchi dislagati per smemorati ritorni: –
dimore del respiro, flutti di un ambiguo immaginarsi sotto insegne di vele vaganti fino alla riva che fa cenni di faro dall’astro sabbioso dell’origine – muove istanti a spezzettati, esausti giochi d’onde, come un fuoco che si accende e spegne nella pupilla disarmonica dei venti
*I testi sono tratti da: Francesco Marotta, Da un’eternità passeggera, I libri dell’Arca, Joker, Novi Ligure 2024.
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Francesco Marotta (Nocera inferiore 1954-Milano 2025), ha pubblicato Le guide del tramonto (1986), Memoria delle meridiane (1988), Giorni come pietre (1989), Alfabeti d’esilio (1990), Il verbo dei silenzi (1991), Postludium (2003), Impronte sull’acqua (2008), Esilio di voci (2011), Hairesis (202126), Il poema ininterrotto. Antologia a cura di Marco Ercolani (2016), Da un’eternità passeggera (2024), Polvere (2024),
Ha tradotto Yves Bergeret, Paul Celan, René Char, Henri Michaux, Mario Osvaldo Benedetti.
Tutta la sua produzione, edita e inedita,è reperibile in rete a questo indirizzo: