Nota di lettura per: Francesco Macciò, L’alba e la cenere, Robin editore, collana Le Giraffe, Vignate 2025.
Nel 2025 Francesco Macciò pubblica, per Robin editore, un volume di racconti, L’alba e la cenere, che si articola in tre parti: Primum non nocere, Secundum docere, Tertium invenire. Il libro racconta le vicende, reali e immaginarie, di un professore di lettere che traversa il mondo della scuola e le sue contraddizioni, mescolando fiction e autobiografia, e mette in luce la necessità di un dialogo maturo fra insegnante e allievo, dove l’insegnante ha un primo e fondamentale compito: “deve imparare a leggere i testi, farli respirare nel loro tempo, e anche nel nostro, non soffocandoli con inutili griglie di lettura”. E osserva: “La letteratura inquina, contamina, ma rimescola le carte lasciando spazio alle mosse successive. A questo pensava il professore, con l’intenzione non di amplificare la propria voce, ma di azzerarla per ricomporla nella voce di un altro”. Il suo intento è uno solo: “Non pretendere nulla dai testi all’infuori di quello che essi contengono”. Dopo alcune acute riflessioni su Gabriele D’Annunzio ed Eugenio Montale, il libro si conclude, nella sua terza parte, con un “quasi apocrifo” di Fernando Pessoa, Nuvens, davvero eccezionale nel percorso narrativo di Francesco Macciò e di questo stesso libro, quasi che l’autore avesse voluto uscire dal suo “corpo” di insegnante per vivere nella voce di Pessoa un magnifico “altrove”:
«Se non fosse per queste nuvole enormi che offuscano il cielo, direi che non c’è nulla di misterioso nell’idea di esistere, anche se avere mille volti nitidi come il cristallo o indefiniti e inafferrabili è il solo modo di esistere. Ecco il punto di arrivo di ogni creazione artistica. Il poeta deve moltiplicarsi in ogni ora scomposta, in ogni momento inenarrabile della propria vita, entrando nelle vite degli altri e ricomponendosele a pezzi nei registri vigili e segreti della memoria. Non è di Pessoa questa voce che vi parla, è soltanto una voce che si solleva dalla polvere, semplicemente il suono di una voce che è davvero di Fernando Pessoa quanto più spinge parole nella bocca di altre persone. Se non fosse che non c’è nulla di crudele nel sonno, direi che la crudeltà più ostinata del sonno è quando esso si assottiglia e dileguandosi ci obbliga ad appartenere a vocaboli, a cifre numeriche, a tratti di matita, ad avere un volto, un nome, quel solo volto reale che, esistendo, nega la vita. Possiamo destarci con un gesto che imita la vita, immaginare, in questa finzione, la finzione di una vita reale e ritornare nel sonno quando le cose cigolano dentro ingranaggi irreparabili, diventano corpi, altri corpi indistinti e dolenti nell’universo. Dobbiamo accettare ogni giorno questa falsificazione, questa irriducibile mancanza. Ecco il punto di partenza. Ogni giorno rappresentiamo centinaia di sensazioni che non siamo, migliaia di congegni manomessi che non conosciamo, e abbiamo appreso in desistenza, sul confine tra il sonno e il sogno, che le parole dette da altri sono più vere di quelle che percepiamo dentro di noi. Le parole dette da altri… Forse questo scritto non mi appartiene, neppure questo termine “forse”, una probabilità di esistenza in agguato dietro le lenti terse dei miei occhiali. O forse chissà che questa non sia la sola via di appartenenza, di esistenza. Casa, ditta di import-export, ditta di import-export, casa, e a casa un baule colmo di carte vergate a mano, di fogli dattiloscritti… Non sono solo ora, non sono più solo. Ci sono reti attorno a me, reti di nuvole, lentas nuvens… nuvens brancas… Nuvole lente, nuvole bianche di antenne e di suoni: centinaia di piccole antenne occulte nel baule del mondo, migliaia di suoni emessi da un’orchestra misteriosa, che mi avvolgono nella prolissità estenuante della mia inesistenza. Ma non sono solo, si compongono nomi, affiorano volti qui davanti a me con i loro corpi e le loro anime. Alberto Caeiro. Álvaro de Campos. Ricardo Reis. António Mora. Bernardo Soares…Álvaro de Campos è l’euforia della libertà, lo specchio delle “magnifiche sorti e progressive”, così irrevocabili nei loro cedimenti e nelle loro derive. Álvaro è un poeta marittimo, si è laureato a Glasgow, prima in ingegneria meccanica e poi in quella navale, o forse ha abbandonato ingegneria meccanica per frequentare i corsi di ingegneria navale, chissà. Un poeta ingegnere, un nevrotico cantore della civiltà moderna e dei suoi inganni, delle sue trappole. So che è alto qualche centimetro più di me, magro, sbarbato, con i capelli lisci e la schiena che tende a incurvarsi. Non credo sia del tutto casuale se ci incrociamo ogni giorno per strada, qualche volta anche a passeggio lungo il fiume. Un incontro sempre faccia a faccia: l’uno va dove l’altro viene. E anche questo non mi sembra del tutto casuale. Appena mi vede a qualche metro di distanza, Álvaro estrae dal taschino della giacca il suo monocolo, lo incastra nell’orbita dell’occhio, mi fissa attraverso la lente come fossi un’entità estranea e lontana. Saluta e tira dritto. […] Nuvens… lentas nuvens… nuvens brancas… Non c’è niente di vero e niente di falso in ciò che vediamo; forse, però, la realtà è uno specchio che distorce più della finzione. O forse è vero il contrario, chissà. La finzione nasconde la realtà, inghiotte la materia, la riflette in una nuova forma come in una galleria di specchi deformanti. Molte persone vivono vite plurali e straordinarie, s’imbattono in personaggi immaginari, più veri di quelli reali, incarnati anch’essi nei paradossi irriducibili dei loro sogni. Passeranno come ogni cosa. D’altra parte, anch’io vivo sepolto in una smisurata estensione di me,in queste vite insistenti e inesistenti che prendono forma e mi accerchiano. Ma sono stanco, sempre più stanco di esistere in questi nomi, in questi volti che mi si stringono addosso come pali aguzzi di un recinto, come alberi mastodontici in un intrico di radici strangolatrici. Passerà la notte, passerà anche l’alba. Eppure, soltanto così, perdendomi in ciò che suppongo di essere, posso ritrovare me stesso. Ogni cosa, tra il sonno e il sogno, occupa uno spazio enorme, un universo che svanisce nel nulla, per rinascere ogni giorno in un’ora assurda tra il raziocinio e l’affetto. Un’ora di rovina e di pietà. Un’ora incredibilmente morta».
A questa fantasticheria “quasi apocrifa” rispondo con un mio racconto apocrifo scritto alcuni anni fa per Fernando Pessoa e che mi sembra svolgersi nella stessa “ora di rovina e di pietà” di cui parla Francesco:
«Lisbona, 21 gennaio 1934.
Io sono Antonio Nogueira, Fernando, e abito da sempre il tuo nome:Fernando Antonio Nogueira Pessoa. Eccomi racchiuso letteralmente nel tuo nome. Non so perché ma mi hai tenuto ben distante da tutti gli altri eteronimi, da Ricardo Reis a Bernardo Soares, da Alvaro de Campos ad Alberto Caeiro. Io ero diverso, per te. Da quasi 32 anni esisto (più giovane di te di almeno vent’anni): ho fatto studi di medicina, mi sono specializzato come psichiatra in dissociazioni di personalità. Appena dormi, ne approfitto e scrivo. Ma tu, del quaderno dove traccio i miei appunti, non sai quasi niente. Il segno della matita è appena visibile. So che non mi rileggi. Non mi rileggi mai […] Singolare, il mio destino, non trovi? Sono uno psichiatra nascosto nel corpo di un uomo che la società giudicherà pazzo. Ma forse proprio per questo ti sono vicinissimo. Per testimoniare che tu non lo sei, pazzo. Che hai gestito tante vite parallele perché le hai trovate infinitamente più interessanti della tua, così misera e scialba. Sei un genio segreto, Fernando. Se non fossi così segreto, chi si ricorderebbe di te? Saresti solo un impiegato originale e bizzarro, timido e impacciato, sulla soglia del disastro mentale. Ma io sono deluso. Mentre Soares può scrivere i suoi saggi e Caeiro le sue poesie, io cosa faccio? Resto dentro di te per giudicare te? Per essere io la tua rotta? Per impedirti di perdere definitivamente la ragione? Io: il tuo custode interno. Ma anche il tuo prigioniero. Gli altri eteronimi hanno un nome, una biografia, un loro destino, sognano e immaginano. Io, invece, sono un uomo che ha studiato la mente ma che non può curare nessuno essendo dentro di te, mai ricordato da te. Come faccio a lasciare il tuo corpo e il tuo nome? Ti rendi conto che, se è vero che hai costruito il teatro delle tue ombre per salvarti la vita, io, la tua prima ombra, la più sconosciuta, sono condannato a una infelicità senza rimedio? Uno psichiatra incapsulato nel corpo di un matto può anche smaniare teorie ma gli viene tolta l’unica facoltà: guarire chi soffre, uscire da sé per curare gli altri, vivere autonomo, libero. E io posso farlo? Posso davvero? Forse solo di notte, quando ti addormenti. Forse solo a notte alta, approfittando del tuo sonno pesante, potrei vagare per le strade della Lisbona vecchia invocando uno dei tanti afflitti da saudade per potergli parlare e alleviare così la sua tristezza. Che amaro destino, mio caro, unico amico, mio caro Fernando Antonio Nogueira Pessoa. Almeno, quando morrai, affidami ad altre mani. Non mettermi nel baule con i tuoi eteronimi, con gli altri tuoi intellettuali capricci di solitario. Io non sono loro. Tu lo capisci? Io non sono loro. Io sono davvero te».
In sintesi, L’alba e la cenere è un libro da consigliare a chi non cerca la struttura fissa e precisa del testo ma ama farsi rapire da una fantasticheria schumanniana, che però non tradisce il progetto di fondo inscritto nelle coordinate del libro: una lezione di educazione alla letteratura scritta da un poeta contemporaneo, montalianamente “archivista ironico dell’insensatezza della realtà del nostro tempo”.
Ma cosa ripensi? Chi sei realmente? Raddoppi la realtà, inventi universi paralleli, spii, vaghi, rubi, passeggi fra i fantasmi. Fai il regista: sposti il fuoco dell’attenzione da una vita all’altra. Scopri carte segrete, pensieri nascosti, che non ci sono mai stati, che potevano esistere ma non sono esistiti. Ti porti il fardello di altri affetti, di altre colpe. Traduci, trascrivi, reinventi. Fai il monaco, il sonnambulo, l’idiota. Scrivi e sei già un’eco. Ti dicono che complichi le vite: che sei un voyeur che abusa del passato, un manierista. Ma i manieristi hanno ragione: ogni maniera – ogni emanare forme – è la reale, insensata deformazione dell’uomo sulla terra. I matti non inventano forse ornamenti, scarabocchi, ghirigori, quando cercano un argine all’erompere delle visioni? Sono loro il lato d’ombra del dio. La scrittura è estatica quando non è scritta, quando la stai semplicemente pensando. Non appena cominci a scriverla, sei infilato in una gabbia di parole, mentre vivi ancora quell’estasi. Solo che la ricordi con la testa ruotata all’indietro, mentre gli occhi e la mano cercano le parole giuste. C’è un rapporto preciso fra l’aria e le cose che la trattengono. Molte cose sono segni di come l’aria è passata. In sé l’aria è vuota, non ha senso, passa e va. Ma, quando la sentiamo fitta di segni, quando oggetti e creature respirano grazie a lei, allora non è più neutra, è luogo di passioni oscure e limpide…
Disegno di Vincent Van Gogh dalle sue Lettere a Théo.
Nicolas de Staël a René Char, intimi amici fino alla tragica morte di Nicolas, pensarono diversi libri insieme (tra cui Poèmes, Paris, 1952, rilegato a mano in mille copie), ma lasciandone molti incompiuti.
Antibes, 4 marzo 1955
No, René, io non sono d’accordo con la poetica di Alberto. Stimo la sua ostinazione, ammiro la sua forza, ma non sono d’accordo con la sua scelta. Scolpire volti scabri, intagliare figure sottili, circoscrivere il mondo a figure straziate. Mi sembra riduttivo, come se volesse solo radicarsi nella terra, nella cupa, stretta terra. Povero Giacometti! In quale buco li nasconde i colori ariosi, voluti dalla luce, modellati dal vento? Io voglio di più. Io voglio il massimo. Io voglio il cielo, che vortica e rapisce l’aria.
Oggi mi butto su una grande tela, inizia a sembrarmi buona, ma avverto un senso di azzardo, come una vertigine assurda. Quel tanto di virtuosismo che sta dietro l’imprevedibile mi scoraggia, mi deprime, dovrei dimenticare di essere pittore, ma la mano segue le regole che le hanno insegnato secoli di pittura. E invece dovrebbe andare da sola, muoversi nel tempo giusto, presto con fuoco, allegretto, andante, così, a colpi di spatola, animando queste masse colorate, queste pietre squillanti che sono i colori, e facendone una gragnuola di rossi, una pioggia di blu, una tempesta di azzurri…
Per fortuna non riesco mai a dominare la situazione. Sono preda della mano, di come lei sente i colori. L’occhio è meno veloce: sono le dita a trasmettere l’ultimo brivido alla tela. Vivo ad Antibes quasi soltanto per capire la natura di questo brivido, rompere lo status quo, andare avanti. Ma avanti dove? Sono vissuto a Rabat, Casablanca, Marrakesch, ma per caso (per caos?).
Io cerco il MIO colore.
Non sono stato, non sono, non sarò l’unico a farlo. In Veronese e Velàzquez ci sono diciassette neri e diciassette bianchi. Ho contato, per me, ventidue rossi, trentadue azzurri, sedici blu. Le mie ultime tele traboccano di un porpora che la tela non ce la fa ad arginare. Con la spatola scalfisco le tele, affascinato dagli ori bizantini di Ravenna. A volte me la appoggio sulla gola, quando sanguina di tutti gli ori e i rossi possibili, e una voce mi dice: “Dai, un colpo secco! Via di qui! Perché ti affatichi? La tua firma è la tela bianca”.
No, non ne ho più voglia, risento la voce, vorrei solo uscire dal mio problema. Guardo la finestra del mio atelier. L’aria è pura, caro René. Ci sono certi scogli bianchi, laggiù, di un bianco che non potrò mai dipingere veramente, fatto di aria fredda e calda, colorata e grigia, aria di tutti i secoli. Lavoro, da pittore, come tutti i pittori: cercando il niente a cui intonare il mio suono: ma ciò che vedo rode tutte le cose, non vedo nulla che non sia in slancio, in volo. Il mondo mi lascia, mi svuota. Che strani colori oggi – così trasparenti, così puri. Un uccello volteggia dietro i vetri. Ma il mio orecchio, invece del morbido fruscio delle ali, sente un suono più sordo: è il pulsare del sangue, che batte contro le pareti delle arterie; lo sento che irrora le sue ali e temo che la mia percezione possa, per eccesso di lucidità, provocare la sua vertiginosa caduta. Ecco l’uccello sbiancato, morto. È così. Non ho più un grammo di pazienza – l’ho spesa tutta nell’ultimo rosso, tonnellate di rosso, che non le reggerebbe un pozzo con dentro il cadavere di un uomo.
Scrivimi, Renè.
Tuo Nicolas
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A Françoise de Staël, 2 aprile 1955.
Cara Françoise,
ti rimando la sua ultima lettera: «Dobbiamo lavorare, René, a un libro insieme. Non andare in ansia. Sarà un libro speciale e noi saremo tra gli ultimi a farlo. Ma beati gli ultimi, perché dopo di loro il paesaggio sarà cancellato di qualche segno in più. Una cosmologia in bianco e nero: ecco la nostra opera. Non essere oracolare, stavolta. Ho bisogno di lampi segreti per il nostro libro. Abbassa i toni. Grazie, tuo Nicolas».
De Staël è morto sfracellato. Ha voluto che tutto si fermasse, tra me e lui.
La sua lettera mi è stata consegnata il giorno della sua morte. Io non posso tenerla con me. Sono troppo vivo per conservarla. Voglio che la conservi tu, Françoise, io non potrei. Sappi che non accetterò mai più di vedere cose sue, quadri o disegni che siano. Si potevano fare grandi montagne e grandi nuvole insieme. Ma la radice del sasso si è sgretolata quel giorno, con le sue luci e le sue vene, sotto la finestra di Antibes. Ogni cosmologia si è dissolta. Sono stato dinamitato da quella morte.
Ho pianto. Non mi era mai successo per nessuno. Che i segni di Nicholas restino con lui. Non hanno più bisogno del mio commento oracolare, da impotente superstite.
Non mi mandare nulla di suo. Lo brucerei. Il lutto non ha consolazioni. La sua voce e la sua faccia mi mancano più del vento di Isle.
1. A titolo di esordio, si può ricordare una significativa osservazione di Walter Beniamin: «Quando lo struggente desiderio dell’uomo di un’esistenza più pura, più innocente e spirituale di quella che gli è toccata è andato in cerca di un pegno di quest’esistenza, lo ha per lo più trovato in qualche pianta o animale. Non è quel che accade in Baudelaire. Il suo sogno di una tale esistenza rifiuta la comunione con qualsiasi natura terrena e vagheggia le nuvole»1. È vero che il poeta ama anche «l’azzurro del cielo immenso e tondo», ma a volte sembra trovare irritante quella distesa tersa e uniforme, sicché giunge ad affermare: «La profondità del cielo mi costerna; la sua limpidezza mi esaspera»2. Dunque non è improprio affermare che la sua maggiore ammirazione si rivolge piuttosto alle nuvole: esse, col loro biancore e la loro mutevolezza, gli appaiono come qualcosa di puro, di esente da ogni contatto col fango terrestre.
Di ciò si trova conferma in Les Fleurs du Mal, raccolta in cui già i primi componimenti evidenziano l’intimità di Baudelaire con quel particolare aspetto della volta celeste che è costituito dalle nuvole. Così, in Bénédiction, il fanciullo destinato a diventare poeta, ancorché sia oggetto di scherno da parte delle altre persone, non sembra nemmeno avvedersene: «Sotto la tutela invisibile di un Angelo, / il Bimbo diseredato s’inebria di sole, // […] gioca con il vento, parla con la nuvola»3. Più tardi la sua vocazione diverrà manifesta, ed egli potrà sentirsi simile all’albatro, uccello marino che, quando è in volo sopra le onde, le domina dall’alto: «Il Poeta è simile al principe delle nubi / che bazzica la tempesta e se la ride dell’arciere»4. Allora il suo spirito potrà innalzarsi persino al di sopra «delle nuvole, dei mari, / al di là del sole, oltre gli spazi eterei, / al di là dei confini delle sfere stellate», lasciando dietro di sé «gli affanni e le vaste pene / che gravano opprimenti sull’esistenza brumosa»5.
Senza nulla togliere alla bellezza di questi e altri testi consimili, va detto che uno dei meriti di Baudelaire, che gli hanno permesso di assurgere al ruolo di capostipite della lirica moderna, consiste nel fatto di essersi reso conto che una visione troppo idealizzata della figura del poeta era ormai divenuta insostenibile. Già in un saggio del 1852, egli non esitava a polemizzare, pur senza nominarli, con scrittori come Gautier e Banville (che pure ammirava, e che saranno fra i suoi migliori amici), rimproverando loro, in maniera sarcastica, la propensione a ispirarsi alla cultura greca e latina. Si rivolgeva dunque a quei «neopagani» dicendo: «Avete senz’altro perso la vostra anima da qualche parte, in qualche brutto posto, se correte così attraverso il passato, come dei corpi vuoti, per raccoglierne una d’occasione fra i detriti antichi […]. Tutte quelle statue di marmo saranno per voi donne devote nei giorni dell’agonia, del rimorso, dell’impotenza? Bevete forse brodi di ambrosia? Mangiate cotolette di Paro? Quanto vi danno per una lira al Monte di Pietà?»6.
Un poeta ottocentesco non può più fingere di credere a idee che si perdono nella notte dei tempi, ma dev’essere consapevole di vivere nella metropoli moderna, con tutto ciò che di buono e di cattivo tale situazione comporta7. Ciò significa fra l’altro che lo scrittore è divenuto un produttore di merci, per quanto particolari. Se vorrà e saprà andare incontro alle richieste del pubblico, raggiungerà forse la notorietà, e talvolta perfino una certa agiatezza economica. Ma se, come Baudelaire, sosterrà idee controcorrente (senza mai accettare di edulcorarle) e adotterà uno stile di scrittura raffinato e innovativo, dovrà lottare ostinatamente per riuscire a vendere i propri testi a direttori di giornali e a editori di libri, riuscendo a farsi apprezzare solo da una ristretta cerchia di letterati. Quando pubblicherà il proprio capolavoro, dovrà affrontare un processo per immoralità, e per tutta la vita si ritroverà a cercare di eludere, con scarso successo, le incessanti richieste dei creditori. Rammentiamo ciò al solo scopo di far comprendere che per Baudelaire evocare, in versi e in prosa, l’immagine delle nuvole significa innanzitutto esprimere il desiderio di evadere da una realtà quotidiana da lui percepita come soffocante.
Nelle sue liriche, le nubi hanno anche la proprietà di cambiare colore, quando «un sole al tramonto in un cielo nuvoloso» riesce a trasformare quest’ultimo, e «fa sorgere più di un portico favoloso, / nell’oro del suo rosso vapore»8. Ciò richiede per l’appunto che il cielo non sia limpido, bensì velato dalle nubi, e sono specialmente «i soli delle stagioni brumose» a produrre tale effetto, sicché diviene possibile esclamare: «Come risplendi, umido paesaggio infiammato / dai raggi che piovono da un cielo annuvolato!»9. Analogamente, rivolgendosi all’amata e ipotizzando di compiere con lei un viaggio in Olanda, il poeta dice: «I soli bagnati / di quei cieli nuvolosi / hanno per il mio spirito gl’incanti / così misteriosi / dei tuoi occhi infidi / che brillano tra le lacrime»10.
Se però le nubi si scuriscono e giungono a coprire l’intera volta celeste, allora il loro significato cambia radicalmente, ed esse divengono l’immagine di una profonda tristezza. Ciò accade «quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio / sullo spirito che geme, preda d’un tedio ininterrotto, / e dell’orizzonte abbracciando tutto il cerchio / dispensa un giorno nero più triste della notte»11. L’immagine del coperchio si presta bene a indicare il senso di angoscia, di mancanza di vie d’uscita, che caratterizza la condizione del malinconico. Nei momenti in cui l’animo è incupito, infatti, neppure il cielo resta intatto e finisce anzi con l’associarsi ad immagini funeree: «Nel sudario delle nuvole // scopro un cadavere caro, / e sulle rive celesti / elevo grandi sarcofagi», e ancora, nella poesia successiva: «Cieli dilaniati come greti, / […] le vostre grandi nuvole in lutto / sono dei miei sogni i carri funebri»12.
Ma c’è persino qualcosa di peggio: in La Béatrice, il poeta ha sopra di sé una nube nera popolata da demoni viziosi che lo sbeffeggiano, e in essa scorge anche l’amata, che ride assieme a quegli esseri diabolici e li accarezza in maniera lasciva13. In una celebre lirica, Goethe credeva di poter ravvisare in cielo la vaga immagine della donna del suo cuore: «Lieve e leggiadra, soffice e chiara, / Serafica, da un coro di grevi nuvole / S’alza simile a lei lassù nell’etere blu / Slanciata una figura di tenue vapore; / Così la vedesti vorticar gaia nella danza, / La più amorevole delle amorevoli figure»14. In La Béatrice, all’opposto, il poeta distingue con chiarezza l’amata nella nube, ma ciò provoca in lui soltanto orrore. In questo caso, come afferma Benjamin, «la profanazione delle nuvole è la più terribile»15.
Si torna a più miti pensieri in Le Voyage, componimento posto a conclusione di Les Fleurs du Mal. In esso Baudelaire celebra i veri viaggiatori, quelli che partono senza particolari motivi, solo per il gusto di partire, «quelli i cui desideri hanno la forma delle nuvole, / e sognano […] / voluttà vaste, multiformi, sconosciute, / di cui la mente umana ignora il nome»16. A un certo punto, il poeta immagina di cedere la parola a costoro, uomini che hanno trascorso gran parte della vita viaggiando nelle più diverse contrade del mondo. Essi però, a sorpresa, sostengono di avere, più ancora dei luoghi naturali o urbani che hanno potuto vedere, ammirato le nuvole: «La gloria del sole sopra il mare violetto, / la gloria delle città nel sole al tramonto, / ci accendevano in cuore un ardore inquieto / di tuffarci in un cielo dal riflesso allettante. // Le più ricche città, i più grandiosi paesaggi, / per noi non contenevano il fascinoso mistero / di quelli che compone con le nuvole il caso»17. La contemplazione delle nubi, eccelse e quasi immateriali, risulta dunque preferibile a quella di ogni realtà terrestre.
2. Anche nei poèmes en prose di Le Spleen de Paris le nuvole fanno significative apparizioni. Ciò vale già per il primo dei testi inclusi nella raccolta, L’Étranger18. In esso, qualcuno interroga un «uomo enigmatico», chiedendogli chi ami in particolare, ma riceve risposte diverse da quelle che si aspettava: lo straniero, infatti, dichiara di non avere famiglia né amici e di ignorare dove sia la sua patria. Sempre incalzato dai quesiti, aggiunge che amerebbe la bellezza solo se fosse una divinità immortale, e che a suo giudizio la ricchezza merita di essere odiata. Fin qui il tema è quello, caro al romanticismo, della solitudine del poeta, che non riesce a trovare i propri simili nella società in cui vive. Tema condiviso da Baudelaire, che non a caso scriveva alla propria madre: «Mi sento come straniero al mondo»19. Sia per le risposte fornite dal personaggio che per la struttura stessa del minuscolo brano (in cui le voci dei due interlocutori si alternano in maniera rapidissima), il testo fa pensare al passo analogo che si legge in una novella di Pétrus Borel, Passereau, l’écolier20. Tuttavia il finale del testo baudelairiano è assai più originale: «– Eh, ma allora cosa ami, straordinario straniero? – Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… laggiù… le meravigliose nuvole!»21.
Anche lo scenario montano che figura all’inizio di Le Gâteau riserva ampio spazio alle nubi. Il poeta riattiva qui ricordi della propria giovinezza, e descrive il luogo in cui si trovava allora, un maestoso paesaggio che gli ispirava piacevoli riflessioni: «I miei pensieri volteggiavano leggeri come l’atmosfera; le passioni volgari, come l’odio e l’amore profano, mi apparivano remote come le nuvole […]; la mia anima mi sembrava vasta e pura come la cupola del cielo da cui ero avvolto […]. Sul piccolo lago immobile, nero per la sua immensa profondità, passava a volte l’ombra di una nuvola, come il riflesso del manto di un gigante aereo in volo attraverso il cielo. E ricordo che quella sensazione rara e solenne, causata da un grande movimento perfettamente silenzioso, mi riempiva di una gioia mista a timore»22. Si tratta di immagini che Baudelaire aveva già usato nel più antico dei suoi componimenti in versi, scritto quand’era un diciassettenne in viaggio nei Pirenei: «Proprio lassù, lontano dalla strada sicura, / dalle fattorie, dalle valli, oltre i pendii, / oltre le foreste e i tappeti erbosi, / lungi dagli ultimi prati calpestati dagli armenti, // si incontra un lago scuro incassato nell’abisso / che formano alcuni picchi desolati e nevosi […]. // Sotto i miei piedi, sopra il capo e ovunque, / quel silenzio che fa sì che vorremmo fuggire, / il silenzio eterno e la montagna immensa, / poiché l’aria è immota e tutto sembra sognare. […] // E quando per caso una nuvola errante / nel suo volo incupisce il lago silenzioso, / parrebbe di vedere la veste o l’ombra trasparente / di uno spirito che viaggia e passa nei cieli»23.
Il poème en prose dal titolo Les Vocations mette in scena quattro ragazzini che, stanchi di giocare, si mettono a narrare esperienze personali che li hanno colpiti, esperienze che, senza che loro lo sospettino, prefigurano forse quello che sarà il loro futuro. L’uno è rimasto affascinato da uno spettacolo teatrale, un altro dalle nuvole, un terzo dal contatto con un corpo femminile e l’ultimo dall’incontro con tre musicanti girovaghi. Ci interessa in particolare il secondo ragazzo, il quale osserva fissamente le nubi e in una di esse crede di ravvisare l’immagine di Dio. Si rivolge dunque agli amici dicendo: «Guardate, guardate laggiù…! Lo vedete? È seduto su quella piccola nuvola isolata, quella piccola nuvola color fiamma, che se ne va dolcemente. Si direbbe che anche Lui ci guardi»24. I suoi compagni non scorgono nulla nella nube che egli addita, anzi uno di essi lo sbeffeggia per la sua ingenuità: «Ma che bestione, quello lì, col suo buon Dio che vede solo lui»25. Volendo, si potrebbe mostrare che anche in questo testo Baudelaire ha fatto ricorso a proprie impressioni lontane nel tempo, che hanno lasciato svariate tracce nelle sue opere. Ciò vale pure riguardo al ragazzino dalle fissazioni religiose. Si rammenti in proposito ciò che il poeta dice di sé in un’annotazione di Mon cœur mis à nu: «Fin dall’infanzia, tendenza al misticismo. Mie conversazioni con Dio»26.
In Le Port, conviene non farsi sfuggire un rapido accenno alla «mobile architettura delle nuvole»27. L’espressione è bizzarra, sia per il suo carattere ossimorico (i prodotti dell’architettura sono caratterizzati dalla stabilità, che è il contrario della mobilità), sia in quanto la nuvola, diversamente degli edifici terrestri, non presenta mai contorni definiti. Tuttavia il poeta è affezionato a questa immagine, che utilizza anche altrove. Così in Les Paradis artificiels, parlando delle visioni che Thomas De Quincey aveva quand’era sotto l’effetto dell’oppio, Baudelaire scrive: «Sorprendenti e mostruose architetture si ergevano nel suo cervello, simili a quelle mobili costruzioni che l’occhio del poeta scorge nelle nuvole colorate dal sole al tramonto»28.
Ma al riguardo c’è un ultimo brano di Le Spleen de Paris da tener presente, La Soupe et les Nuages. Data la sua brevità, possiamo citarlo per intero: «La mia piccola folle beneamata mi serviva la cena, e dalla finestra aperta della sala da pranzo io contemplavo le mobili architetture che Dio costruisce con i vapori, i meravigliosi edifici dell’impalpabile – e immerso nella mia visione mi dicevo: “Tutte queste fantasmagorie sono belle quasi come i grandi occhi della mia beneamata, il piccolo folle mostro dagli occhi verdi”. E all’improvviso ricevetti un violento pugno nella schiena, e sentii una voce rauca e fascinosa, una voce isterica e come arrochita dall’acquavite, la voce della mia cara piccola beneamata che diceva: “Quando ti deciderai a mangiare la tua zuppa, maledetto diavolo di un mercante di nuvole?”»29. Baudelaire dà prova qui della sua capacità di osservarsi dall’esterno: si mostra infatti dapprima distratto (ossia, come appunto recita una locuzione di uso comune, «con la testa fra le nuvole») e poi richiamato bruscamente alla realtà dalla sua capricciosa e irritabile amica.
Il testo trae origine da un episodio reale, come dimostra un foglio su cui il poeta ha incollato un ritratto, da lui stesso eseguito, di Berthe (la donna di cui si parla nel brano), corredandolo con due annotazioni. Nella prima si legge: «Siccome, durante il pranzo, io guardavo le nuvole attraverso la finestra aperta, lei mi disse: Quando ti deciderai a mangiare la tua zuppa, dannato mercante di nuvole?», mentre la seconda è la dedica «a un’orribile piccola folle, ricordo di un grande folle che cercava una ragazza da adottare, senza aver studiato né il carattere di Berthe né la legge sull’adozione. / Bruxelles. 1864»30. Di questa Berthe sappiamo pochissimo, ma doveva essere una figura importante per Baudelaire, visto che egli l’ha evocata anche in una poesia e in un altro dei poèmes en prose31. Per concludere, possiamo dire che, in La Soupe et les Nuages, il poeta ha scelto di rappresentarsi, in maniera autoironica, nelle buffe vesti dell’acchiappanuvole.
3. Fra le molte qualità di Baudelaire, c’è sicuramente anche quella di essere stato un grande critico d’arte. Non poteva dunque sfuggirgli il fatto che da sempre le nubi sono presenti nei quadri dei pittori, sia pure assumendo, a seconda delle epoche e dello stile individuale, forme e funzioni differenti32. Così, in un paragrafo del Salon de 1846 dedicato al colore in pittura, egli osserva che spesso «l’azzurro, cioè il cielo, è attraversato da lievi bioccoli bianchi o da masse grige che imbevono felicemente la sua spenta crudezza»33. Poi indica un primo esempio di trattamento originale del cielo nei dipinti del suo artista prediletto, Eugène Delacroix. Commentando l’affresco che decora il soffitto circolare della biblioteca del Luxembourg, il poeta scrive: «Il cielo è azzurro e bianco, cosa sorprendente in Delacroix; le nuvole, stemperate e tratte in diverse direzioni come un velo che si lacera, sono di una grande levità, e la volta dell’azzurro, profonda e colma di luce, fugge a una prodigiosa altezza»34. In effetti, nelle opere di questo artista compaiono con maggiore frequenza i cieli scuri, nei quali le nubi perdono il loro candore per assumere tinte più fosche, anche allo scopo di accentuare la drammaticità delle scene rappresentate35. Agli occhi di Baudelaire, Delacroix resterà sempre «il più suggestivo di tutti i pittori, quello le cui opere, quand’anche fossero scelte tra le secondarie e minori, fanno riflettere di più, richiamando alla memoria il maggior numero di sentimenti e di pensieri poetici»36.
Tuttavia è stato un altro artista, meno noto, a ispirargli le sue più belle frasi sul tema delle nuvole: si tratta di Eugène Boudin. Nato nel 1824 a Honfleur, nell’infanzia fa per qualche tempo il mozzo su un battello a vapore. Più tardi apre una bottega di cartolaio e corniciaio, cosa che gli permette di entrare in contatto con vari pittori. Incoraggiato da loro, abbandona il commercio per dedicarsi alla carriera artistica. I suoi lavori vengono apprezzati, sicché nel 1851 ottiene dal consiglio municipale di Le Havre un contributo economico per recarsi a Parigi, dove può studiare la pittura e perfezionare le proprie doti. In seguito alterna i soggiorni parigini a quelli in varie località della Normandia e della Bretagna, nelle quali esegue quadri di paesaggio, lavorando non in studio ma en plein air. Sostiene infatti: «Tutto ciò che viene dipinto direttamente e sul posto ha sempre una forza, una potenza, una vivacità di tocco che non si ritrovano più nell’atelier»37. Egli trasmette questa pratica a Claude Monet, allora poco più che ventenne; divenuto adulto, Monet non mancherà di dichiararsi riconoscente38. La prima esposizione personale di Boudin si tiene a Parigi nel 1857. Qualche anno dopo egli inizia a raffigurare paesaggi (con piccole figure, perlopiù dame eleganti) ambientati sulle spiagge di Trouville e Deauville. Nel 1874 partecipa alla prima mostra degli impressionisti, pittori che lo considerano come un loro precursore. Muore a Deauville nel 1898. L’importanza riservata nei suoi dipinti al sole, alle nuvole e più in generale agli effetti atmosferici gli ha fatto meritare, da parte del grande paesaggista Camille Corot, il lusinghiero epiteto di «re dei cieli»39.
Nel 1959, Gustave Courbet ha da poco conosciuto Boudin, di cui ammira le marine. Un giorno i due, mentre sono a passeggio nel porto di Le Havre assieme a un altro pittore, Alexandre Schanne, incontrano Baudelaire e trascorrono con lui la giornata. «Courbet non mancò di esprimere ammirazione per i dipinti di Boudin, soprattutto per i cieli, e Baudelaire non solo andò a vederli nella modesta abitazione dell’artista, ma immediatamente aggiunse alla sua recensione del Salon del 1859 una notizia dell’ultimo momento, dedicando ai pastelli di Boudin una pagina di lodi e di interpretazioni poetiche»40. Nel passo a cui si allude, Baudelaire inizia deplorando la mancanza d’immaginazione dei pittori paesaggisti, che pigramente si accontentano di copiare il visibile, e aggiunge: «Se, come è capitato a me di recente, avessero visto da Boudin, che, detto per inciso, ha esposto un ottimo e assennatissimo quadro (il Pardon de sainte Anne Palud), diverse centinaia di studi a pastello improvvisati di fronte al mare e al cielo, capirebbero, cosa che non sembrano comprendere, la differenza che separa uno studio da un quadro. Ma Boudin, che pure potrebbe inorgoglirsi della propria devozione alla sua arte, esibisce con grande modestia la sua curiosa collezione. Sa bene che tutto questo deve diventare quadro tramite l’impressione poetica richiamata a volontà, e non pretende di spacciare per quadri i suoi appunti. In seguito, senza alcun dubbio, ci farà vedere in dipinti compiuti le prodigiose magie dell’aria e dell’acqua»41.
Già il quadro esposto al Salon e a cui il poeta accenna, Le Pardon de Sainte-Anne-la-Palud au fond de la baie de Douarnenez (Finistère), pur mostrando in primo piano una folla di personaggi, è impreziosito da un bel cielo azzurro con nubi42. Infatti, anche quando dipinge figure umane sulla spiaggia, piccole barche oppure grandi navi a vela, Boudin riserva sempre la parte alta dei suoi quadri alla raffigurazione del cielo con nuvole. Ma a Baudelaire interessano in special modo i lavori, eseguiti su carta con tecniche diverse (non soltanto a pastello, ma anche ad acquerello e a olio) in cui il cielo svolge un ruolo da protagonista43. «Questi singolari studi, così rapidamente e fedelmente schizzati a partire da ciò che vi è di più incostante, di più inafferrabile nella forma e nel colore, ossia le onde e le nuvole, recano sempre, segnati in margine, la data l’ora e il vento; così, per esempio: 8 ottobre, mezzogiorno, vento di nord-ovest. Se avete avuto qualche volta occasione di fare conoscenza con quelle bellezze meteorologiche, potrete verificare con la vostra memoria l’esattezza delle osservazioni di Boudin»44.
Ed ecco infine l’annunciato passo sulle nuvole: «Tutte quelle nubi dalle forme fantastiche e luminose, quelle tenebre caotiche, quelle immensità verdi e rosa, sospese e aggiunte le une alle altre, quelle fornaci spalancate, quei firmamenti di raso nero o violaceo, sgualcito, arrotolato o squarciato, quegli orizzonti in lutto o grondanti metallo fuso, tutte quelle profondità, quegli splendori, mi salirono al cervello come una bevanda inebriante o come l’eloquenza dell’oppio. Cosa piuttosto curiosa, non mi capitò una sola volta, davanti a quelle distese liquide o aeree, di lamentarmi per l’assenza dell’uomo. Ma mi guardo bene dal trarre dalla pienezza del mio godimento un consiglio per chiunque, neanche per Boudin»45. Quest’ultimo, in ogni caso, non ha mai rinunciato a celebrare con la sua arte i «belli e grandi cieli tutti tormentati da nuvole, turbati da colori, profondi, entusiasmanti»46. Ma, come abbiamo potuto vedere, Baudelaire si è comportato allo stesso modo, e con analoga passione, nei suoi versi e prose.
1 W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, tr. it. Vicenza, Neri Pozza, 2012, p. 88.
2 Le citazioni sono tratte rispettivamente da La Chevelure, in Les Fleurs du Mal (1861), in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 2024 (= Œ. C.), vol. II, p. 25 (tr. it. La chioma, in I fiori del male, Milano, Rizzoli, 1980; 2001, p. 111) e Le «Confiteor» de l’artiste, in Atelier du «Spleen de Paris» (1855-66), in Œ. C., vol. II, p. 846 (tr. it. Il «confiteor» dell’artista, in Lo Spleen di Parigi, in Opere, Milano, Mondadori, 1996, p. 388; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
3Bénédiction, in Les Fleurs du Mal, cit. pp. 7-8 (tr. it. Benedizione, in I fiori del male, cit., pp. 73-75).
4L’Albatros, ivi, p. 10 (tr. it. L’albatro, p. 79).
5Élévation, ivi, p. 10 (tr. it. Elevazione, p. 79).
6L’École païenne (1852), in Œ. C., vol. I, p. 470 (tr. it. La scuola pagana, in Saggi critici, Bologna, Pendragon, 2004, p. 31).
7 La compresenza, nell’autore delle Fleurs du Mal, di avversione e fascinazione nei riguardi della modernità viene esaminata in maniera persuasiva nel libro di Antoine Compagnon, Baudelaire. L’irréductible, Paris, Flammarion, 2014.
8Le Poison, in Les Fleurs du Mal, cit. p. 46 (tr. it. Il veleno, in I fiori del male, cit., p. 153).
9Ciel brouillé, ivi, p. 47 (tr. it. Cielo coperto, p. 155).
10L’Invitation au voyage, ivi, p. 50 (tr. it. L’invito al viaggio, p. 161).
12Alchimie de la douleur, ivi, p. 72 (tr. it. Alchimia del dolore, p. 207) e Horreur sympathique, ivi, p. 73 (tr. it. Simpatia dell’orrore, pp. 207-209).
13 Cfr. La Béatrice, ivi, pp. 109-110 (tr. it. La Beatrice, pp. 291-293).
14 Johann Wolfgang Goethe, Elegia (1825), in La forma delle nuvole e altri saggi di meteorologia, tr. it. Milano, Archinto, 2000, p. 7.
18 Cfr. L’Étranger, in Atelier du «Spleen de Paris», in Œ. C., vol. II, pp. 844-845 (tr. it. Lo straniero, in Lo Spleen di Parigi, in Opere, cit., p. 387).
19 C. Baudelaire, lettera alla madre (Caroline Dufaÿs) del 5 giugno 1863, in Correspondance, Paris, Gallimard, 1973, vol. II, p. 305 (tr. it. in Il vulcano malato. Lettere 1832-1866, Roma, Fazi, 2007, p. 312). In questo caso la parola étranger si potrebbe anche tradurre con «estraneo», ma il senso muterebbe poco.
20 Cfr. P. Borel, Passereau, l’écolier, in Champavert. Contes immoraux, Paris, Renduel, 1833, pp. 344-345 (tr. it. Passereau, lo scolaro, in Racconti immorali, Milano, SugarCo, 1989, p. 203).
22Le Gâteau, ivi, p. 863 (tr. it. Il dolce, p. 407).
23Tout là-haut, tout là-haut, loin de la route sûre (1838), in Œ. C., vol. I, pp. 12-13. Il lago di cui si parla dovrebbe essere il Lac dets Coubous, situato al di sopra di Barèges (cfr. Claude Pichois – Jean Ziegler, CharlesBaudelaire, Paris, Fayard, 1996; nuova edizione riveduta, ivi, 2005, p. 132).
24Les Vocations, in Atelier du «Spleen de Paris», cit., p. 902 (tr. it. Le vocazioni, in Lo Spleen di Parigi, cit., p. 442).
26Mon cœur mis à nu (1862-65), in Œ. C., vol. II, p. 510 (tr. it. Il mio cuore messo a nudo, in Opere, cit., p. 1446).
27Le Port, in Atelier du «Spleen de Paris», cit. p. 913 (tr. it. Il porto, in Lo Spleen di Parigi, cit., p. 454).
28Les Paradis artificiels. Opium et haschisch (1860), in Œ. C., I, p. 1125 (tr. it. I paradisi artificiali, in Opere, cit., p. 643).
29La Soupe et les Nuages, in Atelier du «Spleen de Paris», cit., pp. 918-919 (tr. it. La zuppa e le nuvole, in Lo Spleen di Parigi, cit., p. 460).
30 Il foglio col ritratto è visibile in C. Baudelaire, La Passion des images.Œuvres choisies, Paris, Gallimard, 2021, p. 1369 e in Stéphane Guégan, Album Charles Baudelaire, Paris, Gallimard, 2024, p. 210.
31 Cfr. C. Pichois – J. Ziegler, op. cit., pp. 554-555. I due testi a cui facciamo riferimento sono Les Yeux de Berthe, in Les Épaves (1866), in Œ. C., vol. II, p. 803 (tr. it. Gli occhi di Berthe, in I relitti, in appendice a I fiori del male, cit., p. 365) e [Les Bienfaits de la lune], in Atelier du «Spleen de Paris», cit., pp. 910-911 (tr. it. I doni della luna, in Lo Spleen di Parigi, cit., pp. 450-451). Oltre a quello già ricordato, esiste un altro ritratto baudelairiano di Berthe, riprodotto in La Passion des images, cit., p. 1259.
32 È quel che mostra un libro di Hubert Damisch, Théorie du /nuage/.Pour une histoire de la peinture, Paris, Éditions du Seuil, 1972. L’autore precisa che nel corso del volume, e a cominciare dal titolo, il vocabolo nuage «si inscriverà fra due barre oblique […] ogni volta che l’analisi richiederà che venga indicato in posizione di significante» (ivi, p. 27).
33Salon de 1846, in Œ. C., vol. I, p. 234 (tr. it. Salon del 1846, in Opere, cit., p. 1017).
35 Cfr. L’opera pittorica completa di Delacroix, a cura di Luigina Rossi Bortolatto, Milano, Rizzoli, 1972.
36Au rédacteur, à propos d’Eugène Delacroix (1863), in Œ. C., vol. II, p. 389 (tr. it. L’opera e la vita di Eugène Delacroix, in Opere, cit., p. 1323).
37 E. Boudin, Carnets, in Sylvie Patin, Eugène Boudin, les ciels, «prodigieuses magies de l’air et de l’eau», Rouen, Éditions des Falaises, 2020, p. 22.
38 Scriverà infatti a Boudin il 22 agosto 1892: «Non ho dimenticato che siete stato voi, per primo, ad avermi insegnato a vedere e a comprendere» (frase riportata in S. Patin, op. cit., p. 10).
40 John Rewald, La storia dell’impressionismo (1946; nuova edizione riveduta 1973), tr. it. Milano, Mondadori, 1976; 1991, pp. 42-43.
41Salon de 1859, in Œ. C., vol. I, pp. 1004-1005 (tr. it. Salon del 1859, in Opere, cit., pp. 1251-1252).
42 Lo si veda in La Passion des images, cit., p. 630.
43 Oltre a quelli raccolti nel libro di Patin, altri esempi di lavori dell’artista incentrati sul tema del cielo sono in La Passion des images, cit., p. 1357 e in S. Guégan, op. cit., p. 171.
La sindrome del ritorno: nota di lettura di Viviane Ciampi
Immagine di Ettore Frani
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La sindrome del ritorno è un libro liminare, scritto da chi ha scelto di non tornare, da chi ha deciso di non occupare più il centro della scena, non per rifiuto, ma per eccesso di visione. Marco Ercolani attraversa l’esilio con passo silenzioso, e fa del frammento l’unica forma abitabile. Qui ‒ come in molti altri suoi libri ‒ nulla si conclude: ogni pagina è un avamposto, un appunto necessario, un passo nel buio, un frammento di palinsesto interiore.
Il protagonista guarda la propria vita da lontano, come un Wakefield contemporaneo ‒ da cui il libro prende spunto ‒ e annota ciò che resta: sogni, ossessioni, silenzi, arte, incubi: “Perché ritornare se da qui vedi con chiarezza, giorno e notte, la casa in cui vivi, in quel punto esatto nella strada?” Scrivere diventa portare sulle spalle un cadavere che narra: non puoi abbandonarlo se vuoi continuare a esistere, come nella storia del cadavere e del Re: “Ma il morto non è poi così morto, gli bisbiglia racconti all’orecchio.” L’io non è più compatto, ma sparso tra i muri di Genova ‒ le pagine su Genova sono davvero singolari e struggenti degne di uno Sbarbaro o di un Campana in veste onirica, pagine che verranno ricordate. Udite udite: “Qui sei più libero. Le notti, a Genova, non sono bianche, come a Pietroburgo, o favolose, come a Praga. Le notti genovesi sono mediocri. L’aria è bassa, umida. Non consola”. E poi ancora: “Per chi vive dentro una parete sono ancora più cupe. Ma puoi voltarti. Ti giri avanti, ti giri indietro. Genova nega ogni paradiso”. Le pagine su Genova sono decisamente lontane dalle litanie caproniane, ma perturbano; lasciano intuire una città cupa, sorprendente e drammatica.
E poi penetriamo nelle vene del sogno e poi scivoliamo nella voce dei folli. La psichiatria non guarisce: ascolta, trema, fallisce: “Psichiatra è un buffo nome: ricorda il latrato del cane, l’odore della latrina, lo iato. Nomi grotteschi”. E ancora sulla psichiatria: “La tua vera definizione sarebbe psiconauta. Ma adesso non più. Ti sei volontariamente perso e non vuoi tornare dove vivi. Non galleggi più da nessuna parte”. “Ce qui s’écrit commence toujours par la perte”, scrive Blanchot, e ogni parola in questo libro nasce da quella perdita. Ercolani non cerca una lingua che spieghi, ma che ferisca con dolcezza, come una verità sussurrata all’orecchio. Cita; evoca; interroga; cammina: la scrittura è il suo modo di non soccombere. Non c’è salvezza, ma resistenza lucida. L’opera non è compiuta, né vuole esserlo: ogni frammento è tutto, ogni pagina si fa soglia. Il lettore non può restare neutro: viene chiamato, quasi invocato a portare a sua volta il corpo narrante come il fotografo porta sulle spalle la macchina fotografica. Là dove si tace, si scrive. E si scrive non per guarire, ma per accompagnare ciò che sparisce. La sindrome del ritorno è, in fondo, una lunga veglia sul confine. Un libro da assaporare come una voce nella notte. Perché solo la notte conosce la direzione del ritorno.
Tutto ciò che volevo tutto ciò che non volevo. volevamo volavamo su sentieri d’alberi albe e foreste. anni rivi ormai andati. Dove. quali e quanto amati annidati cuori–mente allevati a sangue a denti e lingua. lingue di unica voce a tras-formare. vocazione a nettare il fuori il dentro mondare ragnatele e oscure tele di fiumi che fummo. corda – cardiá vibrante corda – ombelico arma che ascende espugna castelli e mura muove cartografie oceani carte e oscene parole. suoni nuovi nella gola rantolo preghiera e lotta. E tu morto che adesso mi desti. spettro bianco. e nero d’un tratto. tracce tristi di te di voi morti allora e adesso tanto vivi e vive da uccidere me con coltelli ricordo. gorgo che ancora mulina sanguina e àncora lame nel fondo sempre più a fondo. voi spettri nella stanza in questa notte – spira brada e buia. voi compagni e sorelle di ieri d’amore d’ardore.
Nota:
I ‘morti che mi destano’ sono i desaparecidos, ragazzi e ragazze scomparsi in Argentina durante la dittatura del generale Videla.
I testi sono tratti da: Elio Tavilla, La disisperanza, Interno Versi, Borgoricco 2025.
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Alcuni libri nascono fuori tempo, come La disisperanza di Elio Tavilla, eppure sono esatti, come se fossero sempre esistiti: “in alto dai balconi /spezzano il bucato/ la fuga si è interrotta quando/ tutte le vocali inerti hanno preso/ il duro posto dei plurali, neanche il tempo/ di farsi perdonare/ il piccolo disastro che fu l’adolescenza/ nel chiuso dei cortili”. Elio Tavilla ci racconta come la poesia, da sempre, sia disastro delle cose nelle parole: nulla è tranquillo, dopo che la parola poetica lo ha attraversata, meteorite che muta il corso del passato e del presente. Sì, certo, sembra che nulla sia accaduto, ma ascoltare una vera voce poetica smuove dentro di noi gli assetti conosciuti, le travi portanti, e ci porta dove non sapevamo di essere, nella nostra personale “Zona”, tarkowskiana, indicibile, di cui noi siamo e saremo gli stalkers: la zona nella quale arriviamo da una strada, infida, bagnata, insicura, minacciata, ma non sappiamo quando ripartire e per dove. La disisperanza è una speranza deformata, che dobbiamo trattenere fra le dita perché potrebbe sempre dileguare e lasciarci. Ma, finché non ci lascia, restiamo noi, mettiamo i versi uno dopo l’altro, per costruire qualcosa che non sappiamo: ma la prima intenzione è non tacere: “dire fare bruciare/ aprire bocca senza urlare, parlare/ dire cose prive d’importanza/ riderne e ferirne/ i passanti indifferenti// hai rotto il vetro per errore/ volevi solamente/ cercarvi dentro il sangue mentre/ quello, inerme, sboccava dai/ tuoi polsi, non volevi, non/ eri tu a piangerne la morte”. La parola di Tavilla è tragica e abita le cose, gli uomini, il pensiero: una tragedia non semplificata a narrazione, a conforto. Le storie, strette in una poesia etica, civile, intima, esplodono in segni di un dolore al quale non ci sarà mai rimedio: “quando disperdevansi nell’aere/ i fumi della discarica abusiva/ e i nostri cuori battevano all’unisono/ come merci impazzite sui quadranti/ delle borse valori, un unico sensato/ sibilo emetteva la folla respinta/ stipata nei macelli, non voglio/ rinascite e massacri ma un altro/ possibile futuro/ tenuto all’oscuro”. È di questo futuro segreto che si nutre il libro: “la mano che afferra/ e lascia/ trasparire/ la disperanza” è la mano che, nonostante “una fine del mondo annunciata e contraddetta” si slancia verso le viti, verso la terra, testimonia lo slancio irrinunciabile della creatura vivente, offesa, ma immersa dentro “l’interiore visione dei miracoli”.
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sono l’uomo in meno, creo conflitti
tendo trappole celesti e poi le sfascio
sotto uno strato umido di muschio
mi nascondo, mi faccio compagnia
con le canzoni che mormoro a memoria
faccio piano, c’è la città che dorme
*
non sai che fartene del corpo
che aggiri tra le cose familiari
senza pena ma pure senza scopo
alcuno, mentre volti le spalle
a chi sai, sai farti giustizia
in piena solitudine, coerente
col mondo dei tuoi avi quando sogni
siano esistiti. Punti i gomiti
sul tavolo e a ragione
esibisci la parte migliore di te
quando squadri il portento che fai
giungendo le mani in preghiera
*
cosa c’era di strano? Quando
si alzava in piedi i segni zodiacali
parevano impazzire eppure
non era che un miraggio
di duro inverno, fingeva
la neve di nevicare, il gelo
di spaccare il gelo dei travasi
sotto le ringhiere. A un metro
c’era l’uomo che mancava
la manovra giusta
e ci moriva
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Elio Tavilla (Messina, 1957). In poesia ha scritto: 24 poesie, Il cubo e l’assenza, Concetti semplici, Piccola antologia, L’amore di due, La cometa, La gravità terrestre. È stato fondatore e redattore di Gli immediati dintorni. Rassegna di poesia contemporanea, di Frontiera. Rivista di scritture contemporanee e di Radio Frontiera. Audiorivista di voci e scritture.
I testi sono tratti da: Enea Roversi, sensibile alle minuscole, puntoacapo, Pasturana, 2025.
*
vla
smarrito in una lingua che non sarà mai sua
quell’eccesso di j di kappa e doppie v
compendio di suoni così aspirati e rochi
pensa pur tuttavia che esista qui la grazia
le linee di mondrian, la luce di vermeer
case e canali (e fiori) e il vento dei mulini
ma il chiodo fisso qui per lui rimane
ritrovare il tesoro al reparto latticini
quel bicolore senso di densità cremosa
tazza di vla di brama apicale e lussuriosa
*
au hasard balthazar
è insolente la polvere sollevata
dal passo goffo e lento dell’animale
misurato a croci singulti e fatica
sotto il peso sempre più indecente
e il bastone dell’uomo poi ancora
uno sputo e una grassa risata
ritrovarsi ad abbassare il muso
preda di quel ridicolo arrancare
in un misero circo di periferia
spezza il morso balthazar corri
libero ora per una volta almeno
vola nel cerchio di fuoco del cielo
diventa asteroide che grida di gioia
**
(dalla prefazione di Silvia Comoglio)
…Tra lingua e lingua, tra cultura e cultura, si è detto. Ma ancora non basta. Perché questa coesione/scorrevolezza la si ritrova in sensibile alle minuscole anche tra linguaggio e linguaggio, quello, intenso, della musica, del cinema e della pittura. Ed è così che le linee di mondrian e la luce di vermeer (n.b., la m e la v minuscola non sono ovviamente refusi) si mescolano con the she goes del gruppo inglese The La’s o con il film au hasard balhazar del regista Robert Bresson. Una scorrevolezza che sollecita e fonda nuovi registri linguistici delineando, di conseguenza, una visione del reale e del quotidiano più articolata e completa perché multipla e moltiplicata…