Tu non sei vecchio sei vasto . e questo sai bene quanto affatica corpo e respiro . e non si può e non si deve convincere nessuno . si deve solo dire e portarne pazientemente il peso -. da soli . che poi soli non si è mai veramente del tutto . alcune zone sono davvero sole e irraggiungibili . ma ti spettano e ti aspettano calme perché sanno perfettamente che altro e altrove non sei mai stato solo – e e si è giusto… il ritorno è davvero una sindrome – io lo so
Marco Ercolani, Sindrome del ritorno, Il Convivio Editore, collana occhio nudo, a cura di Paolo Castronuovo
In Cinque donne intorno a Utamaro (1946), il regista Kenji Mizoguchi narra alcuni episodi della vita del pittore e disegnatore giapponese Utamaro Kitagawa. In uno di questi assistiamo ad una sfida tra l’artista e un samurai, anch’egli abile nel disegno, stizzito dalle parole che l’altro gli indirizza. “Nelle mie xilografie io metto in gioco la vita; se avessi paura della tua spada, mi farei da parte”. Il guerriero ritrae per primo una figura femminile, che Utamaro modifica con rapidi e decisi tocchi di pennello lasciando di stucco il rivale; quando è il suo turno si reca in un bordello, si avvicina a una geisha, le scopre il dorso e vi dipinge un uomo e una donna abbracciati. “Ho raffigurato Kintoki e Madre Natura, sono due figure molto fortunate. Condivideranno i tuoi momenti tristi, danzeranno sulla tua schiena quando sarai felice. Navigheranno per sempre con te sul fiume della vita”. Qualora non basti il film di Mizoguchi a certificare la raffinatezza dell’arte di Utamaro, si osservi Amanti in una stanza al piano superiore (1788). Nella xilografia un uomo e una donna hanno un rapporto sessuale; la veste elegante, che ricopre il corpo di lei visto di spalle, lascia scoperte solamente le natiche e parte di una gamba. Curioso, infine, che il ventaglio sia in mano all’uomo.
Utamaro Kitagawa
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Nel presentare la rivista surrealista Bifur, Walter Benjamin annota che “la parte illustrata propone”, insieme a quelle di altri, “fotografie di Man Ray”. L’intervento del critico risale al 1930, ed è proprio nel decennio tra il ’20 e il ’30 che il fotografo statunitense realizza alcuni dei suoi scatti più celebri, di ispirazione surrealista, quali Le violon d’Ingres del 1924, Noire et Blanche del 1926, cui va aggiunto il cortometraggio L’etoile de mer,girato nel 1928 in collaborazione con il poeta Robert Desnos. Nella pellicola le sequenze al naturale si alternano con altre – in particolare quelle che prevedono il nudo della protagonista – volutamente sfocate, effetto reso possibile grazie all’inserimento di un vetro smerigliato sull’obiettivo. Ma se in queste come in altre opere di Ray il cristallo che ricopre la superficie toglie all’osservatore il coraggio di romperlo, per poi avere modo di guardare più in profondità, c’è chi invece, come il fotografo tedesco August Sander, agisce senza il velo della patina, ma con l’intento assai più rischioso di servirsi dell’apparecchio fotografico per immortalare un’ampia tipologia sociale. Negli stessi anni in cui escono i lavori di Ray, Sander pubblica Ritratti del Ventesimo Secolo, un libro che ha tale fine. Subito dopo, però, arrivarono i nazisti a sequestrargli le lastre e a suggerirgli che sarebbe stato preferibile per lui fotografare la natura e i paesaggi. Del resto, ritratti come quelli del Notaio, Pasticciere, Deputato indicano inequivocabilmente la matrice di provenienza di coloro i quali gli avevano dato quell’avvertimento.
Auguste Sander
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Una grande mostra, tenutasi a Torino nel 2005, ha celebrato le opere di uno dei fotografi più significativi del secolo scorso. Robert Mapplethorpe tra antico e moderno presentava più di duecento scatti del fotografo americano, la maggior parte inediti in Italia. Prendendo spunto dalla frase dello stesso Mapplethorpe, “voglio che la gente guardi le mie opere prima di tutto come opere d’arte, poi come fotografie”, la rassegna si snodava attraverso il parallelismo tra foto di body-builder, black bodies e la statuaria antica, che andava dagli etruschi a Michelangelo, da Canova fino a Rodin, insieme agli scatti di altri grandi fotografi, quali von Gloeden e Man Ray. Tra le fotografie più belle, vi erano quelle che Mapplethorpe aveva dedicato ad una giovanissima Patti Smith. La futura diva del rock, ritratta in varie pose con i grandi occhi neri sporgenti dalle orbite, sembrava atteggiarsi a donna esperta e matura, quasi a voler compiacere l’amico. Di quanto la malattia possa lasciare il segno sul fisico di un uomo, è evidente in maniera drammatica negli ultimi autoritratti di Mapplethorpe. In self portrait with skull cane, egli è ormai a tu per tu con la morte. Il viso cereo sprofonda inesorabilmente all’indietro, come risucchiato dal fondale nero che ne avvolge i contorni mentre, isolata in primo piano, la mano impugna un bastone con il pomo a forma di teschio. Ma tutto sembra sul punto di essere inesorabilmente destinato a sparire, senza lasciare più alcuna traccia.
Robert Matthlethorpe
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L’avambraccio in posizione leggermente ricurva, la mano tiene tra le dita il pennello per gli ideogrammi mentre traccia dei segni sui fogli posizionati a terra. La fotografia compare sulla copertina del libro di Roland Barthes L’impero dei segni. “Il soffio che attraversa il braccio incavato”, scrive Philippe Sollers nella didascalia che ripresenta la medesima foto all’interno del volume, ne sublima il gesto; “l’operazione perfetta dovendo essere quella della punta celata ovvero dell’assenza di tracce.” Ad essere illustrato è un esempio di “scrittura” che “viene a tessersi in superficie”, ove per ‘superficie’ è da intendersi esattamente ciò che essa è, vale a dire un ampio foglio di carta bianca. Il cinema di Mizoguchi ripropone questa particolare idea di scrittura, soltanto che, al posto della carta, la ‘superficie’ è rappresentata dalla pelle umana. Una cortigiana, sulla cui schiena il pittore Utamaro raffigura una coppia di amanti, il vasaio Genijuro protagonista de I racconti della luna pallida d’agosto offrono i loro corpi alla mano di chi sente l’impulso di lasciare comunque una traccia di sé, non importa se profonda o ‘superficiale’. Ciò trova compendio nelle parole che l’artigiano rivolge alla sua amante in una scena del film: “Ognuno di noi rimanda una parte della luce che riceve”.
Roland Barthes
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“Un bel mattino, sulla soglia dell’ufficio, mi ritrovai davanti un giovane immobile. […] Ancora adesso posso rivedere quella figura, così sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine. Era Bartleby”. La descrizione del celebre scrivano di Melville riprende forma nel primo piano di John May (interpretato da Eddie Marsan), un impiegato comunale londinese, la cui mansione consiste nel rintracciare i parenti più prossimi delle persone morte in solitudine, protagonista del film Still Life diretto da Uberto Pasolini. Il soprabito scuro che nasconde una giacca della stessa foggia, la cravatta annodata con cura fa da corollario al viso, colto in un’espressione attonita e opaca, come in attesa di un evento, al momento ancora imprevedibile, ma al quale egli è già inevitabilmente destinato. La trama si snoda fino alle battute finali. Investito da un autobus all’uscita dal negozio dove aveva acquistato un piccolo regalo per una giovane conosciuta in precedenza, gli ultimi istanti di vita dell’impiegato sono ripresi attraverso una mirabile inquadratura del volto che, steso sull’asfalto, si rivolge allo spettatore con un ultimo, rallentato battito di ciglia, mentre le labbra accennano un lieve sorriso.
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Dalì incontra per la prima volta Elena Ivanova Diakonova, meglio nota come Gala, a Parigi nel 1929, dove si trova per presentare insieme a Bunuel il film Un chien andalou. Di ciò che avverrà dopo è lo stesso Dalì a offrire testimonianza, quando dice che “amo Gala più di mia madre, più di mio padre, più di Picasso e perfino più del denaro”, con la “forza della battaglia di Stalingrado”. Egli si lascia impossessare dal potere immaginifico dell’eros in modo da farne scaturire molteplici visioni. Una foto li ritrae mentre dipinge sulla fronte di lei il volto della Gorgone, mentre nel quadro, il cui titolo completo è Mia moglie, nuda, guarda il suo stesso corpo, che è diventato una scala, tre vertebre della colonna, del cielo e dell’architettura (1945), Gala è raffigurata in una duplice versione. In primo piano, seduta di spalle, la donna osserva il proprio busto che si trova nella medesima postura, in una proiezione geometricamente idealizzata. Alla sua sinistra un dente di leone, simbolo del desiderio, è soffice e ancora intatto. Il suo doppio appare come una sorta di tempio, le cui colonne sorreggono le spalle. Ma ciò che più colpisce è lo spazio vuoto che intercorre tra esse, a evocare, forse, la mancanza di una unione più solida e profonda tra il pittore e la sua musa.
Salvador Dalì
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Maurice Tillet, soprannominato L’Angelo francese, era un wrestler affetto da acromegalia, una disfunzione ghiandolare che comporta la crescita e l’ispessimento abnorme delle ossa. Figlio di espatriati francesi in Russia, tornato in Francia allo scoppio della Rivoluzione, impara cinque lingue e inizia gli studi in giurisprudenza quando, all’improvviso, sul suo corpo compaiono strani rigonfiamenti che provocano dolori lancinanti. In poco tempo il torace si allunga, piedi e mani crescono a dismisura e il viso si deforma. Decide così di iniziare l’avventura nel mondo del wrestling, e saranno proprio quelle mani enormi e le gambe incredibilmente muscolose a consentirgli di vincere il titolo mondiale dei pesi massimi negli Stati Uniti. Alcuni filmati e diverse fotografie, in cui più volte compare sorridente e gentile a fianco di signore e di bambini, testimoniano la brillante carriera di Tillet conclusasi nel 1953, un anno prima della morte. Alla metà degli anni Novanta il regista d’animazione Andrew Adamson creò il personaggio di un “orco buono”, che doveva caratterizzarsi come “un uomo comune e andante, solo sproporzionato, di aspetto caldo e col sorriso amichevole”. Era nato Shrek.
Maurice Tillet
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“Ho visto un quadro di Bruegel che rappresenta la Tentazione di Sant’Antonio. […] Un uomo a cavallo in una botte, teste che escono dal ventre di animali; rane con braccia saltellanti sul terreno; un uomo col naso rosso su un cavallo deforme, circondato da diavoli; un drago alato in volo, tutto sul medesimo piano. Insieme formicolante, ghignante in modo grottesco e impetuoso nella precisione di ogni particolare”. Le parole espresse da Flaubert si potrebbero usare per il dipinto che Hieronymus Bosch realizzò sullo stesso tema alcuni decenni prima. Qui, ad attirare l’attenzione, in mezzo alla ridda di figure mostruose che escono dalle spaccature di un frutto gigantesco, è la presenza di un tale che, da buon borghese con la barba curata e il cilindro nero sulla testa, sembra incurante del terribile pandemonio che lo circonda. Che a lasciarlo così tranquillo possa essere l’economia in ascesa che, nelle Fiandre tra Cinquecento e Seicento, vede protagonista la classe sociale cui egli appartiene?
Jeronimus Bosch
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La decomposizione dei corpi dopo la morte è un tema che ossessiona tanto l’Oriente quanto l’Occidente. Nei Nove stadi di un corpo dopo la morte attribuita a un poeta giapponese dell’XI secolo, i passaggi sono descritti con straordinaria efficacia. Ad esempio, si passa dal “viso livido” in cui “la sua bellezza sfiorisce come quella di un fiore”, al “corpo gonfio, un tempo così bello e ora miserabile”, fino alle “ossa dello scheletro spezzate e sparse”, che presto si saranno trasformate in polvere. Anche ne Il trionfo della morte, particolare dell’affresco del Camposanto di Pisa, le fasi della distruzione sono quanto mai evidenti. Nel primo corpo raffigurato le guance sono gonfie e il ventre prominente; il disfacimento continua con il secondo, nel cui volto scarnificato si delineano le fattezze del teschio, per arrivare infine al terzo cadavere, dove a ricoprire in parte lo scheletro restano soltanto dei lembi di pelle. Ma mentre qui non si va oltre la rappresentazione di queste tre tombe scoperchiate, che mostrano senza troppi riguardi tali brutture, nei versi dell’anonimo poeta orientale c’è spazio per l’ultimo stadio che, in aperto contrasto con i precedenti, offre all’intera visione un riscatto sublime. “Una vecchia tomba in mezzo alla vegetazione lussureggiante. Quando veniamo a visitare una tomba sul monte Toribé, vediamo noi altra cosa che gocce di rugiada su di essa?”.
Trionfo della morte, di Buonamico Buffalmacco
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Nelle lezioni di Nietzsche sui filosofi preplatonici, in particolare in quella su Eraclito, egli fa notare come la legge di eterna trasformazione – “il logos delle cose” – sia data dal fuoco. La relazione tra “la luce splendente della vita e il buio della morte” è visibile per l’uomo a partire dall’ambiente che lo circonda. Se il giorno è pieno del principio vitale del fuoco e l’uomo può trarne i maggiori benefici, “di notte, quando il fuoco si spegne, si spezza la catena che unisce l’uomo al tutto. Egli allora si ripiega in se stesso, deve accendere una luce, cade nel sonno, perde la memoria e muore”. Nel 1992 il regista Werner Herzog girò un documentario sulla guerra del Golfo; nella versione italiana esso ha come titolo Apocalisse nel deserto, mentre quello originale, assai più pregnante, è Lezioni di oscurità. Strutturato in tredici brevi capitoli il dodicesimo, Vita senza fuoco, mostra alcuni uomini addetti allo spegnimento dei pozzi di petrolio incendiati dagli iracheni i quali, però, senza alcuna ragione apparente, appiccano il fuoco ai getti del greggio. A quel punto la voce fuori campo, commentando con tono distaccato le loro azioni insensate, domanda “Cosa stanno facendo? Per loro la vita senza fuoco è divenuta insopportabile?” e, poco più avanti, mentre la cinepresa inquadra quelle facce stupidamente divertite, aggiunge “Ora sono contenti, c’è di nuovo qualcosa da spegnere”. Ritornando alle frasi di Nietzsche, se si può dire che la “notte” dell’uomo, ove egli “perde la memoria e muore” è data dalla sua stessa follia, rimane comunque la possibilità, seppure alquanto remota, che possa fare ritorno “alla vita […] riavvicinandosi al fuoco, come un carbone spento che, se posto accanto a quelli incandescenti, prenda di nuovo fuoco in una fiamma comune”.
Werner Herzog
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In rete circola un video sulla preparazione che Diego Maradona fece per il Mondiale di USA ’94, assistito dal suo staff atletico in un casolare sperduto della Pampa argentina. Si possono vedere alcuni momenti di quella che doveva essere la giornata tipo del campione. Subito dopo la sveglia – qualcuno si avvicina al suo letto dandogli pacche affettuose sulle spalle –, gli viene servito il matè nella tazza tradizionale, che lui sorseggia sfogliando un giornale. Quindi si alza a fatica, prova a fare un po’ di stretching, bofonchia qualcosa. La sequenza successiva lo vede all’esterno intento a farsi la barba davanti a un piccolo specchio appeso al palo di un recinto; terminata la rasatura si risciacqua il viso in una bacinella da bucato. Si passa quindi alla parte atletica; la corsa di riscaldamento è quasi una comica. Maradona arranca dietro il preparatore, sgrana gli occhi, si ferma piegandosi sulle ginocchia, respira a fatica; l’altro lo incoraggia battendo le mani. Poi finalmente fa la sua comparsa il pallone e allora lo scenario si trasforma quasi per magia, quella che lui sapeva creare con il piede sinistro incollato alla ‘pelota’. Nel frattempo, ai bordi del campetto spelacchiato dove Maradona si esibisce, si è andata formando una piccola folla di curiosi, tra cui anche due anziane donne. Una sorride e applaude divertita. Finito l’allenamento, è l’ora dell’asado e a prepararlo è suo padre; non sulla griglia, ma per terra sopra un mucchietto di legna. Diego è lì a osservare. Le ciabatte ai piedi gli danno un’aria molto umana; sembra un campeggiatore qualsiasi, non il più grande calciatore di sempre.
Diego Armando Maradona
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Sul finire degli anni Sessanta Heidegger tenne un seminario a Le Thor in Provenza. Testimone di quell’evento, insieme ad alcuni altri giovani studiosi, Giorgio Agamben ha raccolto un nucleo di appunti che, insieme a un corredo di fotografie in bianco e nero e a colori, formano il libro dal titolo Il tempo del pensiero. Alcune di esse sono indubbiamente curiose, come quella in cui il filosofo sceglie con cura i grappoli d’uva che una donna gli porge in una fruttiera, oppure quando è intento a osservare un gruppo di anziani signori come lui che giocano a bocce. Ma la foto più suggestiva è quella che lo ritrae di spalle, seduto su uno spunzone di roccia, mentre osserva la Montagna St. Victoire che si staglia sullo sfondo di un paesaggio formato da colline boscose. Le parole di Agamben, poi, costituiscono il supporto ideale alla scena. “Camminiamo fra i pini fino a raggiungere uno dei luoghi in cui probabilmente Cézanne aveva piantato il suo cavalletto, in un punto in cui il terreno dirupa vertiginosamente proprio davanti alla montagna. […] Appoggiato su un masso quasi sull’orlo del precipizio, Heidegger contempla a lungo il paesaggio e la nuda cima rocciosa”. Il medesimo paesaggio dove la montagna, resa celebre dal grande pittore, è avvolta dalle infinite gradazioni di azzurro che portano sulla tela la presenza del vento, gli spazi bianchi che divorano porzioni sempre più vaste di colore all’interno dei suoi ultimi dipinti. La frase che segue suggella alla perfezione il ricordo di Agamben. “Restammo a lungo seduti all’ombra dei pini, in una sorta di quieto raccoglimento.”
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Si vede un giovane, che ha con sé l’occorrente per dipingere, mentre osserva un’esposizione dei quadri di Van Gogh. Fermo dinnanzi a Le pont de Langlois, inaspettatamente lo vediamo catapultato all’interno della scena insieme al gruppo delle lavandaie, una delle quali gli indica la direzione da prendere per incontrare quello strano individuo che incrociano quasi ogni giorno lungo il cammino che le conduce al fiume. Ridendo insieme alle altre, la donna lo mette in guardia dicendogli che è appena uscito dal manicomio. Attraversato il ponte, il ragazzo percorre una stradina sterrata che affianca gruppi di case coloniche con i tetti e le finestre che risaltano nei loro rossi accesi, carretti ricolmi di fieno azzurri e vermigli, fino a raggiungere una vasta distesa di grano maturo, al centro della quale un uomo è intento a dipingere. Quando il giovane gli si avvicina quello, senza staccare gli occhi dai suoi schizzi, inizia a parlare. “Questo luogo trascende la realtà; io mi nutro di questo scenario, lo divoro totalmente e, quando ho finito di dipingere, ricomincio da capo lavorando come uno schiavo.” Alla domanda sul perché portasse una benda intorno al viso risponde quasi con indifferenza che, il giorno prima, mentre era alle prese con il proprio autoritratto, siccome un orecchio non gli era riuscito bene, se l’era tagliato e lo aveva buttato via. Poi punta il dito verso l’alto: “Il sole mi costringe a dipingere”. Ciò detto si allontana, ma quell’altro è deciso a seguirlo. Ne scorge la sagoma mentre risale un sentiero che si inerpica fra le spighe quando, all’improvviso, uno stormo di corvi riempie il cielo di un fragore assordante. Con le immagini si ritorna all’interno del museo, dove vediamo nuovamente il giovane togliersi il berretto davanti a Campo di grano con volo di corvi. Questo è uno degli otto Sogni di Akira Kurosawa (1990).
Akira Kurosawa, Sogni
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La cinepresa puntata su un traliccio, sui panni stesi al sole, mentre un treno attraversa la campagna. Il motore di una chiatta fa da sottofondo al dialogo di due uomini che parlano dei loro figli, appoggiati al parapetto del ponte in una placida giornata di sole. Le riprese degli interni eseguite sempre all’altezza del pavimento, in modo che lo spazio si restringa riempiendo i vuoti. Una serie continua di quadri, che si incastrano uno dentro l’altro, scivolando in quello che Enrico Ghezzi ha definito “un abisso quieto”. Ad un certo punto la voce del critico si interrompe; essa riprende dopo qualche istante di silenzio. “C’è stata una telefonata, ma non importa. Fa parte del tessuto quotidiano del cinema di Yasujiro Ozu.”
Jasujiro Ozu
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Il video che il presidente Trump ha postato sui suoi profili social mette in scena il progetto da lui annunciato sulla Striscia di Gaza. Dagli edifici distrutti dai bombardamenti israeliani, si passa in un batter d’occhio alla visione di un futuro distopico fatto di grattacieli, di spiagge affollate di turisti muniti di cocktail, di banconote che piovono dal cielo e raccolte da bimbi festanti; poi uno di loro regge il filo di un palloncino con la faccia di Trump, il quale appare ancora sotto forma di una enorme statua d’oro, curiosamente affine a quella di Saddam Hussein abbattuta dagli iracheni dopo la sua sconfitta. Data la concomitanza dei luoghi, ciò si potrebbe chiosare con le parole di un proverbio arabo mediorientale. “Quando un pagliaccio entra in una reggia non diventa un re, ma è la reggia a diventare un circo.”
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Se per immagine si intende non solo quella specifica di un oggetto, di qualsiasi genere o forma si tratti, ma quella traslata o ideale della ‘cultura’ e, in particolare, di quella che noi stiamo vivendo; se, cioè, si vuole provare a distinguerne meglio i contorni e la posizione che essa occupa all’interno di un tessuto come quello attuale, allora si dovrà fare ricorso a colui il quale, più di un secolo fa, si era assunto il ruolo, sempre assai scomodo, soprattutto per essere l’oggetto degli strali più velenosi dei contemporanei, del profeta. Nel suo Schopenhauer come educatore, proprio in materia di ‘cultura’, Nietzsche afferma che “il prossimo millennio avrà due nuove idee, per le quali a ogni vivente di oggi gli si rizzerebbero i capelli in testa.” Le “idee” in questione fanno capo “a quella nuova idea fondamentale della cultura”, in base alle quale “quando il capofila pronuncia la parola d’ordine, essa deve riecheggiare in tutte le fila.” E qual è questa parola d’ordine, questo obbligo assoluto? “Combattere allineati”. Da ciò deriva che bisogna “trattare come nemici coloro che non vogliono allinearsi”. Oggi un tale precetto è riscontrabile in quasi tutti gli ambiti dell’istruzione e si sta consolidando in particolare negli atenei più prestigiosi d’America, alle prese con le imposizioni liberticide dettate dal capo della Nazione.
Donald Trump
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In una foto scattata poco prima della morte, Wittgenstein è seduto su una sedia con un plaid sulle gambe, il viso scavato dalla malattia, le mani e gli avambracci inerti sui braccioli. La didascalia precisa che egli avrebbe appeso alla parete un lenzuolo preso dal proprio letto. Questo perché, ci si domanda; forse che la tinta era troppo vistosa e contrastava con la figura del suo corpo in modo a lui sgradito? Siamo poi così sicuri che il lenzuolo sia stato messo lì davvero? Tutto oscilla tra ciò che realmente si vede e ciò che soltanto si immagina e se tale incertezza potrebbe reiterarsi all’infinito, sono le parole dello stesso Wittgenstein a dirci che “un dubbio senza fine non è neppure più un dubbio” e se poi vogliamo imparare a filosofare “nella pratica”, allora ci si dovrebbe attenere a quest’altra affermazione, che sembra voler mettere fine una volta per tutte al problema. “I bambini non imparano che il libro esiste, che la poltrona esiste, ecc., ecc.; imparano ad afferrare il libro, a sedersi nella poltrona ecc., ecc.”.
Ludwig Wittgenstein
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– Si era detto che per girare la scena iniziale di questo film ci doveva essere una giornata di pioggia, ma questo è un nubifragio!
– E noi due qui, bagnati fradici, al riparo (si fa per dire) della vecchia porta di ingresso della città…
– O di quel che ne resta. Non so come faremo quando dovremo accendere un fuoco con queste assi marce, come prevede il copione. Il regista ci ha lasciati qui ed è sparito.
– “Gli uomini sono un vero mistero per i loro simili”. Ce l’ho l’aria del monaco saggio, o no?
– Sì, ma ricordati cosa ti ha detto il regista: “devi apparire triste e pedante”.
– Però a me questa storia sulla verità multifocale mi ha confuso abbastanza le idee. Tu cosa ne pensi?
– Io sono un attore e quello che mi viene detto di fare, faccio. Piuttosto, non so come andrà al botteghino; sappiamo che i nostri film in costume gli americani non li vedono di buon occhio. Il loro governo dice che riaccendono lo spirito nazionale del Giappone.
– Già, è così. Ma perché non cominciamo; siamo qui da più di un’ora mezzi nudi e fa un freddo cane. Ah, eccolo finalmente!
Akira Kurosawa – Scusate il ritardo, ma volevo sincerarmi che il bimbo, prima di entrare in scena, fosse al caldo e insieme a sua madre. Ora possiamo partire: Rashomon, scena prima…
Rashomon
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Nel nostro cielo un rombo di tuono è un docufilm diretto da Riccardo Milani, che racconta la vita e la carriera sportiva di uno dei più grandi campioni del calcio italiano: Gigi Riva. Dagli anni del dopoguerra nella tranquilla Leggiuno sul Lago Maggiore, dove Riva cresce e si mette in mostra nella squadra locale in cui si assiste, però, anche al dramma della perdita dei genitori, il conseguente difficile periodo del collegio, dove egli acquisirà quel carattere schivo e malinconico che lo accompagnerà per tutta la vita, al suo arrivo a Cagliari non ancora maggiorenne, al trionfo dello scudetto nel 1970 e ai fasti della Nazionale, ma anche ai gravi infortuni che ne hanno condizionato la carriera, conclusasi precocemente. Questo lavoro contiene non soltanto le imprese di un calciatore, ma è anche uno specchio del costume sociale degli anni Sessanta, basato sul contrasto tra la metropoli, rappresentata dalle grandi squadre del Nord, e la periferia nei panni di una Sardegna all’epoca tagliata fuori dal contesto comunicativo e politico del Paese. Tra le immagini che celebrano la figura di Riva, quella che si impone con più forza è quella finale in cui egli, ormai anziano, è ripreso di spalle sul lungomare di Cagliari mentre, all’orizzonte, un lampo improvviso squarcia le nubi. Gigi Riva è morto il 22 gennaio 2024.
Gigi Riva
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Gianni Clerici lo definiva “veloce, un po’ leggerino ma capace di giocate taglienti e soffici allo stesso momento”. Si riferiva ad Arthur Ashe, il primo e finora l’unico giocatore di colore capace di vincere Wimbledon, il torneo da sempre più iconico e prestigioso del circuito tennistico internazionale. La finale si giocò sabato 5 luglio 1975, ma è opportuno ricordare due momenti che portarono Ashe ad un evento così straordinario. Nel 1969 egli aveva chiesto il visto per disputare un torneo in Sud Africa, che gli venne negato. Ci riproverà, ancora senza successo, l’anno seguente, fino a quando riuscì ad ottenerlo nel 1973. Arrivato in finale e sconfitto da Jimmy Connors, quel giorno il pubblico, composto ovviamente da soli bianchi, avrà applausi più per lui che per il rivale. Ritornando a quel Wimbledon di cinquant’anni fa, durante le sessioni di allenamento Ashe si accorge che un ragazzino lo segue come un’ombra. “Vuoi un autografo?” “No, ma è che sei il primo nero veramente libero che abbia mai visto”. La finale, disputata ancora contro Connors, fu un trionfo. Quel pomeriggio Arthur era in totale stato di flow (di ‘grazia’, si direbbe in italiano). Memorabile, oltre alle giocate meravigliose, è l’immagine di lui che ai cambi di campo si copre la testa con l’asciugamano per isolarsi dal contesto e mantenere alta la concentrazione. Arthur Ashe morì per le complicanze insorte a causa dell’Aids, contratto a causa di diverse trasfusioni, il 6 febbraio 1993.
Adesso è il momento del tempo che separa il passato dal futuro.
Dicono che il muro sia più spesso di una casa, più lungo di una strada sterrata. Che sia più violento del dolore, più profondo di tutte le solitudini. Che sia più vero del motivo per cui lo edificammo, e che camminando in tondo nella coscienza non si possa trovare che il muro. Che sia la tua verità contro la mia, il tuo grido silenzioso contro il mio grido silenzioso, tutta la medesimezza di eguali che si fronteggiano per raggiungere la cima. Che sopra vi fosse il cielo ma molti di noi non riescono più a trovarlo, almeno non un cielo terso, azzurro, illuminato dai bagliori del sole e attraversato da nuvole passeggere. Che salendo in cima al muro si veda il mare, che se ne avverta l’afrore e che gli uditori sopraffini possano sentire il suono della risacca. Che in cima vi sia una parete riflettente e che ciascuno possa guardarvi attraverso e riconoscersi senza riflesso. Che sia il nostro senso di soffocamento, affogati dalle voci degli altri. Che sia forclusione, desiderio deviato, spietata indifferenza. Che sia mille volti e ciascuno somigli al giorno in cui abbandonasti il sentiero e ti lasciasti cadere sulla sabbia, senza cibo né acqua, interamente spazzato via dal vento. Le abrasioni dei granelli che graffiano la pelle resteranno ancora a lungo e poi arriveranno le carogne, gli avvoltoi, le arpie. Che avrà i nostri occhi, prima di crollare e lasciarci deserto.
L’avanzamento è inesorabile.
Ho costruito la casa nella coscienza. Ho fabbricato un fantasma e sono il residuo della mia fabbricazione. Madre, tu mi hai partorita dal tuo ventre folle, tu tornerai nella casa. Affinché la casa viva è necessario riavvolgere la freccia del tempo e per riavvolgerla è necessario che io torni all’origine, riavvolga l’infinito. Avevo tredici anni, a Margherita di Savoia, abitavamo a Roma ma le estati erano consacrate all’origine, il sud era l’origine. Avevo tredici anni e salii nell’auto di quattro ragazzi conosciuti in spiaggia. Mi portarono nella casa. In un cerchio di otto candele. Mi diedero una stella di mescalina sublinguale. Allora vidi il muro per la prima volta. Nelle otto candele otto donne vestite di bianco danzavano e si bruciavano le vesti. Io le inseguivo nella fiamma e il fuoco aveva il volto di mia madre. Nella madre rivivevo la nascita e nel nascere morivo. Dentro il mio occhio un caleidoscopio di vetro rifrangeva infinite me che si alzavano e vomitavano. Vomitavano otto volte e smettevano e rivomitavano otto volte. Fuori dal corpo mi vedevo divisa. Ottomila Lilith di cartapesta si sgretolavano sotto i polpastrelli. Carne della mia carne. Polvere alla polvere. Questo precipitare ossesso. Fui oceano e diventerò deserto. Mi abbandonerai ottomila volte e ci vorranno ottomila anni per trovare l’origine. Io cerco l’origine epifita. Sono pianta carnivora e mi cibo dei resti della coscienza.
Gli officianti indossavano cappucci viola. Non erano più quattro ma otto. Mi legarono mani e piedi. Mi incisero otto volte la carne, i seni, i fianchi, l’addome, le cosce, i piedi, le mani, la vulva, la fronte e bevvero il mio sangue. Carne della mia carne. Ripetevano: legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo legiones auxiliaque hostium mecum diis Manibus Tellurique devoveo.
Allora vidi il muro. E vidi la feritoia. Sotto i miei piedi strisciavano otto serpi. Sopra i capelli s’inerpicavano otto rami. Le serpi raggiungevano profondità telluriche, erano radici vive di una quercia secolare. I rami erano mani e lambivano il cielo. Nell’albero crescevo e mi moltiplicavo.
A quale velocità si muove il tempo? Alla velocità di un secondo al secondo.
Sono diventata Lilith e per Lilith intendo Lilith. Il tempo mi vince e mi vivo nell’adesso che scorre. Marco incarnava la rivolta sociale, io la rivolta metafisica. Avevo bisogno della fisica per metaforizzare l’assurdo. Io ero l’assurdo, la simultaneità impossibile. Ero una terra senza spazio che sugge le radici all’albero. Sorbivo l’eterno. Mi separavo dal corpo, ero il futuro. Nella stanza periclitante io ritrovavo lo specchio vuoto, m’indovavo nell’assenza. Vuota di specchi, resistetti alla tentazione di attraversarli. Ogni superficie riflettente è una mancanza. Io non so se fui messa nera o sacrificio. Quel che so sono i nomi che diedi a Dio. Volto. Specchio. Assenza. Perché io sono io e non sono te? Perché il big bang? Cos’era lo spazio prima di iniziare? Dov’era il tempo prima di scorrere? Chi era Dio prima di Dio? E dov’era Dio prima di essere genesi? Il tempo mi atterriva e infinitamente mi rivoltavo nel tentativo di riavvolgere. Mio padre mi abbandonò e fu Dio e fu Satana. Obis Quis Contra Nos. Sono l’assurdo. L’improbabilità di nascere dal silenzio. Sono il silenzio. Il coniglio. La ragnatela. La serpe. Sono il tessuto e il tessitore. E nell’assurdo mi vivo rovesciata nei corpi di chi non mi appartiene. La mia metafisica è fisica dei quanti. Sono molecolare. Quantica.
Quello che nessuno sa è che la fisica è poesia. La più pura, e perciò devastante, poesia. È possibile che l’adesso si muova a ritroso nel tempo? Io abitavo il rovescio. In ogni mio corpo ho provato a riavvolgere.
La bellezza della relatività sta nel rispetto a cosa
Quando mio padre se n’è andato non ho provato dolore, non ho provato rimpianti. So di essere stata iniziata alla luce. So di essere stata vinta dalla vita. E la vita alberga in me, e io sono il tempio della vita. I miei studi di fisica erano l’unica deviazione rispetto al muro. Non abito che il muro ma c’è un fuori. E con Heisenberg posso dire di aver creato il muro a mia immagine e somiglianza e di averlo chiamato ventre, seme, madre, eroina. Quel che sto cercando di fare è rompere i sistemi di riferimento. Il fattore di dilatazione del tempo, ovvero l’espansione temporale che si verifica quando si mettono a confronto intervalli di tempo in due sistemi di riferimento diversi si chiama gamma. Non essendo un’astronauta ho dovuto trovare un sistema di riferimento altro sulla terra. È la casa. Nella casa il tempo scorre in modo diverso. Ogni ora nella casa è un anno sulla terra.
Ogni atomo della casa è un’orchidea tigre. Fiore del grano. Magnolia. Iris. Narciso. Io sono questa orchidea tigre. Fiore del grano. Magnolia. Iris. Narciso. L’afrore dei fiori mi rimanda alla vulva. Sono nata con il desiderio di tornare. L’utero è una casa senza muri. La casa è un muro senza utero.
Riavvolgendo la freccia si ottiene un cerchio infinito. Se attraverso due specchi mi moltiplico. Sono una legione di insetti. Provengo dall’oltretomba della casa. Sono la casa ma sono anche la filiazione. Mio padre è un deserto. Io lo seguo tra i granelli. Lo sbriciolo tra le dita. Divento padre. Abbandono Dio. Sono la colpa. Se riavvolgo qui, altrove srotolo. L’indietro è un avanti senza tregua. L’adesso è ovunque e altrove. Per capire la casa devi essere la casa. Ascoltare il silenzio. Ringraziare. Trasfigurare. Suggere l’assurdo.
Dirac definì lo spazio vuoto come un mare di elettroni con energia negativa riempito fino all’orlo
Nessuno sa perché la casa sia lì. Nessuno sa se sia lì. Nessuno sa chi sia stato ad aprire i portali. Si parlò di un asteroide. Si parlò di un meteorite. I più bigotti parlarono di Satana. La casa non esiste per tutti. Esiste solo per chi può vederla. Per chi non teme di entrarvi. Quando sono tornata al sud ho cercato la casa. L’ho cercata a Margherita di Savoia, ho chiesto consiglio a Maharhan, non si era sempre chiamato così, è il suo nome religioso come Lilith è il mio. I nostri nomi religiosi ci precedono. I nostri nomi ci nominano. Il nominare ci sbrana gli occhi. Siamo fuliggine di fuoco, ombra che scorre. Voglio tagliare le ombre e vivere il vuoto. Solo il nulla è. Oltre il me e il te vige la legge dell’esserci. Noi ci esistiamo e in questo esistere franiamo l’identico. Le stesse condizioni di partenza danno un’asse infinita di possibili. Il possibile è la morte del reale. Il reale è la condanna del possibile, il reale è il pasto nudo che mangia sé stesso e trasfigura in due specchi a N dimensioni. L’infinito mi annienta e frammenta. Solo l’eroina mi accoglie, torno nell’utero. E resto devastata dal padre. Sono una madre senza vulva, un padre senza seme. Sono devastazione pura, schizo che frange nell’oltretomba dello specchio. Maharhan mi ha accompagnata nella vecchia comune Maharshi Ramana, la ricordavo e l’ho trovata facilmente. Abbiamo cantato in sanscrito per otto giorni e dopo otto giorni Maharhan ha detto: La casa è ovunque tu voglia, ovunque tu possa pregare. Sono andata nell’uliveto vicino Canosa. Ho trovato la casa. Una donna tentava di impiccarsi a un ramo. Ho acceso otto candele e ho visto la sua morte. Il ramo si è spezzato. La donna è rimasta in vita. Le ho detto: Mi sei debitrice. Le ho chiesto di portarmi un tredicenne maschio. Ho atteso e ho radunato sei donne.
Segui le variazioni del fattore gamma.
In ogni istante la casa muta. Adesso ha la forma di un ottagono perché la mia mente vi proietta forme ottagonali. La casa è un sistema di riferimento che tutti li contiene. Nella casa non esiste il principio di equivalenza e si vanifica la gravità.
Siamo moltitudini. Ragni. Ragnatele. Vipere. Vermi. Scarafaggi. Siamo l’orrore che perpetra nell’assenza. Ossa di cranio. Rane. Anguille. Pesci blu in reti rosse. Io sono questo cranio antico spezzato. Simultaneamente viva e morta. Nella casa simultaneamente vivi e muori. Sei il gatto di Schrödinger.
Mi vivo nel ventre di animali morti. Ci sono animali in ogni mattone. Muoiono e non muoiono mai. Gatti di Schrödinger. Io sono questo gatto che guarda lo zingaro frugare nel cassonetto, che guarda la bambina danzare vestita di bianco, che guarda il parroco nell’omelia, che guarda il nano rotolare sulla placenta del gatto, che guarda la colomba volare nel foro sovrannaturale al centro della casa, che divide la casa dal castello, che trasforma la colomba in corvo, che supera il cancello e s’impicca senza morire, che fa della bambina granelli di sabbia, che apre la pancia alla bambina e vi ritrova vermi, che segue la bambina oltre lo specchio ed è ingabbiato nel muro. Murata viva nel ricordo, sono turgore di cemento che frana. Per aprire i portali dell’essere bisogna assurgere al nulla. E nel nulla mi separo dal giudizio di Dio. Inseguo la bambina nel pozzo del creato. Dove le acque sono torbide e le voci si fanno confine. Ho deciso di scendere nel pozzo. Nel pozzo incontro un bambino e mi dice: Io sono il passato. Mi tocca l’addome e dice: O forse il futuro. Il padre di mio figlio: un cocainomane perso. Mio figlio nascerà in un mondo che ride o non nascerà: io riavvolgerò la freccia. Se voglio riavvolgere è per via del dolore. Il mio l’ho annegato nella madre ma il dolore degli altri brucia e pullula. Ragni. Ratti. Vermi. Scarafaggi. Il dolore è un gatto vivo dilaniato dai vermi. Dai miei tredici anni si propaga nelle donne della famiglia. Se voglio riavvolgere è per Giuliana. Scendo nel pozzo e il pozzo ha ottomila anni e ottomila volti. Un’orchidea tigre nel fondo mostra i canini. Mi sbrana e torno bambina.
Le ipotetiche particelle più veloci della luce prendono il nome di tachioni.
Nel fondo del pozzo il buio inalba, un lucore ialino effonde violento e il pozzo stesso si allaga di una luce aurorale. Io mi decompongo e mi ritrovo con massa immaginaria. Cammino nell’orchidea. Sono l’orchidea.
La notte, la notte mi supera nel morso dell’orchidea, il muro si decompone e ricompone, tutte le porte si sbarrano. L’insaziabile sapienza del buio. Io sono questo abitare che non abita nulla. E sento i gatti e vedo i gatti con gli occhi gialli e abbacinanti nella notte. Non sono vivi. Non sono morti. Sono paradossi. L’esistenza lo è. La vita che pullula, l’espandersi del big bang, l’infinitizzazione del finito. Vorrei vivere in questa estasi sovrannaturale che fa della poesia fisica e della fisica poesia. Vorrei abitare l’immenso, spalancare l’altrove, io, nella metafisica della notte, voglio dividere il corpo fino a infrangerlo. Sono il baratro del tempo che si chiama spazio, la spettrale trama del buio, la fuliggine luminosissima nel fondo del pozzo, il dolore diluito in milligrammi di eroina e vene tumide. Sono nuda, una candela in mano, attraverso la tenebra e mi elevo. Una melodia di archi mi vince e sono il vuoto, trasfiguro, mi moltiplico. Quante me esistono? Mi sono specchiata nei tuoi occhi e sono anche te, sono lo sguardo che non cede al regresso della memoria, qualcosa si estingue mentre divido, moltiplico coscienze e mi rifletto infinitesimale nell’abisso dello sguardo. Ho i tuoi occhi, Marco. Siamo velocità, caduta libera, luce accecante e ci smembriamo in particelle luminose, non siamo mai stati. Non siamo nati se non nell’illusione dello spazio. Siamo orbite senza direzioni.
Cammino a piedi scalzi nell’orchidea. Rifulgo nei petali traslucidi e ceruli, glauchi e topazi, nella corolla ritrovo mio padre sulla barca. Seguo Caronte nella barca, nel fondo dell’abisso. Ora sono la madre suprema, la cura che beve sé stessa e torna all’origine. Nelle otto fiamme mi vesto di bianco. Inalbo e frango. Adesso, mamma, sono tutte le donne della famiglia.
Un salto quantistico si verifica quando cambiamo bruscamente sistema di riferimento
Sono l’orchidea che ride, il vento che frange, il fiume che esonda. Voi mi cercate nello spazio e sbagliate. Perché io sono il tempo. Il tempo si spacca in un muro di occhi. L’uomo corpulento che vende whiskey è una maschera verdazzurra di teschio. Ritrovo la croce, sono la croce. Allargo le braccia, le braccia, le braccia. Mi supero, dinastia di soli, nell’estasi suprema di un’autocrocifissione. Voglio smettere di divenire e assurgere alla stasi. Alla parusia del tutto. Il tutto è indicibile e perciò lo chiamiamo nulla. Sto cercando nell’universo l’essenza pura dell’anima. E non mi basta sapermi questa pelle. Questa carne. Voglio spaccare la carne con otto lame, otto candele, otto fuochi, fiume che esonda. Assurgere allo spirito. Nel fuoco divento l’occhio scuro della casa che si guarda dentro. Mi divoro.
Imperscrutabile, mi muovo nell’invisibile e somiglio al tuo Dio, madre. Il tuo Dio non è più reale dello spaziotempo. Il pozzo è un buco nero, lo spaziotempo si curva e siamo presenza nella memoria della casa vuota. Siamo la casa, l’altrove. Quante me posso esperire? Frattali. Senza terra trasporto rovine.
Quanta potenza ci vuole per diventare deserto.
Il concetto di simultaneità è relativo.
Dentro la Casa tutto è relativo. Accanto a me ho la bambina, simultaneamente nel pozzo, nella casa, a Castel del Monte e nel Castello di Otranto. Davanti a me ho l’anziana, prende per mano Giuliana e la porta nel ventre della casa. La interroga sul non essere. Se il sistema di riferimento è la casa, la casa si muove e modifica la coscienza di coloro che vi sono entrati. Lasciate ogni speranza. Siamo nella luce.
La velocità è relativa. Siamo luce cruda camuffata da buio.
Ho vissuto tredici anni a Berlino, a Kreuzberg, andavo spesso nel pub di un danese amante di Nick Cave, ho studiato lì intere notti, l’alcol non era un impedimento, sotto effetto etilico vedo le cose nitidamente, esperisco le formule. Lì ho incontrato il padre di mio figlio, un brasiliano. Nell’acme dell’amplesso, in soffitta, mi ha detto: T’ingravido. Quando sono andata a dirgli che ero incinta mi ha gridato: Non voglio saperne, è tuo figlio, una tua scelta. Avevo le chiavi e ho dato fuoco alla soffitta mentre dormiva. Ha chiamato le guardie ma non mi hanno trovata. Non c’erano prove. Mi hanno trattenuta solo cinque giorni, poi mi hanno imposto di lasciare Berlino. Mia madre era in Puglia. L’ho raggiunta. Ho riabbracciato Giuliana.
Ho spaccato gli orologi. Un orologio non è il tempo, solo numeri e molle. Per attraversare il tempo bisogna tornare all’origine e sono nell’origine, essere simultaneo, quante me nel passato? Quante nel futuro? Solo l’adesso è vero. La durata dell’esistenza è questo adesso che fugge e noi, senza terra, fuggiamo nell’istante. Dondolo nelle candele, anelo alla fiamma, entro ed esco dalla fiamma. Marco una volta mi disse che si può entrare e uscire dalle cose. Se vuoi frequentarli frequentali (i tossici) ma devi entrare e uscire, come in un teatro. Mascherata da madre sono stata accolta da figli perversi. Non sono mai uscita dal teatro della dipendenza, non è un teatro, è una fabbrica, produzione macchinica, muro immondo. Nella casa sono fuori dalla fabbrica. La casa produce sé stessa nell’infinitamente otto. La casa si eleva e torna in essere. Nella casa nulla può morire, nessuno può morire, perché il tempo può riavvolgersi nell’ottagono infinito, all’infinito. Nella casa siamo tutti proiezioni astrali di sospensione. La simultaneità infrange le barriere dei corpi. Siamo trasmigrazione continua. Fluidità viva. Paradosso.
La massa è energia affastellata.
Nella casa possiamo spostare i muri. Quando leggerai questo diario ti chiederai se gli abitanti della casa siano vivi o morti. Essendo un paradosso spaziotemporale, sono vivi e morti simultaneamente. Nella Casa tutto è mentale. Tutto è rappresentazione simbolica, nulla è oltre il vissuto e il vissuto è simile al sogno. Ma non si sogna perché la casa non dorme mai. I suoi occhi sono ripetizioni di otto ciechi. La casa non vede se non il fondo dell’incoscienza. Nella casa siamo uniti al gatto, al ragno, alla mangusta, al serpente, alla quercia, alla magnolia, all’orchidea, al padre abbandonico, alla madre delirante, al fratello castrante, alla moglie paranoide, alla nipote visionaria, alla deriva della percezione. Nulla è vero nella casa e nulla è falso. È il fuoco stesso della vita che bruciando si rigenera costantemente. La casa è elevazione di simultaneità e ubiquità. Se sono nella casa sono anche fuori. La casa è la forma dello spazio fuori dal muro. Nel muro la casa è bidimensionale. Fuori dal muro, pentadimensionale. La casa è un paradosso di Schrödinger. La casa è paura cruda. Desiderio estremo. Io vi sono entrata e ho toccato la placenta viva della parete. Io vi sono entrata nuda e la casa mi ha accolta, sbranata.
Nell’occhio della casa un’orgia di corpi e coscienze. Nell’occhio buio della casa mi sono lasciata sbranare e ho sbranato. L’uomo è arrivato dal passato, gli ho infilato le dita nell’ano. Mi è venuto in bocca. Ho succhiato il seme e leccato il glande fino a rinvigorirne il turgore. Ci siamo morsi a sangue.
L’uomo è arrivato dal passato e ha rovesciato il mio corpo, riempito tutti i miei buchi. Ha ridetto: T’ingravido. Ho lasciato entrare e diguazzare in me lo sperma. Nel buio otto donne mi hanno leccato il ventre. Otto candele. Vesti bianche divampate nella fiamma. Squame fredde sulla pelle. Ho aperto le cosce. Le serpi mi sono sgusciate dentro. Nella casa non esiste sogno e non esiste veglia. Il tempo si sopravvive separando lo spazio. Non c’è modo di lasciare la casa ma si può imparare a modellarla. Si può scegliere cosa vedere.
I buchi neri sono oggetti di grande massa dentro cui si può cadere ma non si può uscire.
Io ti parlo dalle profondità telluriche dell’assurdo. Io sono il muro e sono anche la casa. Qui tutto è pesante, tutto si smembra, diventa leggero e inconsistente. Io sono questa inconsistenza di cui non conosci regole e confini. Io sono quest’assenza di regole e confini. Entrerai mille volte e mille volte t’illuderai di uscirne. Io sono l’increata variabile che sussume il mondo, il centro inestinguibile della vita, sorgente. L’occulta essenza che mi abita mi sovrasta. Sulle mie braccia camminano otto ragni. Apro le braccia e le ragnatele si riproducono nelle pareti. Metto le mani nel muro e strappo le ragnatele. Sono il filo e riavvolgo la ragnatela. Sono il ragno e mi avviluppo nella ragnatela. Sono tessitura eterna. Disfacimento e ricomposizione. Percorro fino al culmine il filo e il filo scompare. Diventa luce. Divoro la luce e mi lascio abbacinare dalla folgore del cielo. Nella folgore sono la bambina dal vestito nero.
Corro lungo le stanze ottagonali e incrocio gli occhi di Giuliana. Nel fulmine la bambina mi riconosce coesistente. A volte la parola mi supera. Vive di sé stessa. E io le obbedisco come un cane.
Il fattore gamma dei tachioni è la radice quadrata di un numero negativo
Sto addentando l’infinito, la luce brama la velocità, nella velocità mi supero e infrango gli argini. Carne della mia carne. È una prigione questo corpo ma è menzogna. Posso superarlo nel disfacimento della luce. È potente il buio che trapassa il raggio, ogni buio è mille volte la luce. Cammino nel raggio di ragnatela che si fa tessuto e nel tessuto che si fa pistillo e nel pistillo che si fa corolla e nel colore spalancato che frange luminosissimo. Cammino nell’orchidea che torna a rinvigorire il buio e si espande universale deserta.
Vorrei credere nel vostro Dio ma mi viene difficile immaginare una causalità nelle stelle. È una sequenza di divorazioni il fuoco. Il tutto, inconsapevole, vive della disgregazione delle parti. Solo la fiamma è vera. Nel resto non siamo che residuo, cenere. Ho infilato otto volte la lingua nella fica della morte e sono tornata. Ai confini dell’incoscienza ho ritrovato la nemesi, madre, sorella. Divenire animale. Divenire pianta. Divenire flusso. La mia bocca nella tua fica. Sono una donna che scopa altre donne. Sono una donna che sugge i seni della madre. Sono un corpo che rovina nei paradisi artificiali dell’antimateria. Io, negativo assoluto, sono l’angelo della divinazione. Sradico ogni residuo di umano e il mio corpo accoglie la primavera dell’abisso. Nell’oltretomba del mare mi riconosco sparsa. Sono ottomila coscienze, ritorno all’antico e rivivo il futuro. Sono gesto che rovina in eterno, mano che infrange. Nella mia sete, ho rivoltato la morte. Ritorno.
Sono un oggetto di massa immaginaria. Man mano che mi avvicino all’infinito decresco. Ecco come riavvolgo. Mi sono consacrata alla fisica perché è il sistema più avanzato per creare immaginari. Io abito i numeri immaginari. Sono il nessuno che ti siede accanto.
La distorsione dello spaziotempo rende variabili le superfici in quanto ogni cosa ha massa immaginaria.
Noi nella casa attraversiamo i muri e siamo insieme dentro e fuori dalla casa.
Lo spazio non è solido, la quantità di spazio presente in una data regione non è fissa
Ci vuole un tempo infinito per cadere dentro un buco nero e se la casa è un buco nero il processo di caduta è infinito e inarrestabile. La distanza che separa l’esterno dalla casa è infinita, si arriverà al centro della casa solo quando si raggiungerà il fondo ma il fondo è infinitamente lontano. L’infinito non dura che un millesimo di secondo. È la distanza di Plank. Da quando la casa esiste la distanza tra me e il mondo è infinita e infinitesimale. Posso vedervi, agire su di voi, ma sono separata da voi da un infinito.
Forse tutti gli elettroni sono connessi e in realtà c’è soltanto un unico elettrone che rimbalza avanti e indietro nel tempo
L’antimateria è un mare di elettroni con carica negativa ma l’antimateria è anche una materia ordinaria che si muove indietro nel tempo. La tua anima dopo la morte si muove indietro nel tempo. Rimbalza e diventa un’anima che si muove in avanti. La casa è un tunnel spaziotemporale. Non sappiamo cosa ci sia dall’altra parte della casa. Un tunnel spaziotemporale può connettere punti fisici o tempi. Dio è un’equazione.
La violazione della causalità implica la negazione del libero arbitrio
La mia debitrice porta il ragazzo chiamato Infinito. Ho riunito altre sei donne. Stanno cercando Dio. Ho offerto loro il sangue. Infinito si sottopone all’esperimento, simultaneamente vivo e morto. Morto nel futuro e vivo nel passato. Dice di averlo sempre saputo. E per questo gli hanno diagnosticato una schizofrenia dissociativa.
Prendiamo otto candele, le disseminiamo intorno al suo corpo. Incidiamo con un tagliacarte otto parti.
È stata la ragazza a portaci il tagliacarte, l’ha portato dal futuro. L’ha donato a me. Incido la carne di Infinito. Tagli intercostali, inguinali e dorsali. Prendo le mani delle sette donne. Una musica antica sorge purissima dalle pareti. È un concerto di archi. Il mantra s’impossessa di noi. Le parole ci elevano:
Beviamo il sangue di Infinito praticando ulteriori tagli e agganciando la carne con i denti. Il rito si compie e la freccia, il cerchio, l’otto rovesciato va a ritroso. Infinito resterà vivo nel passato. Sarà eternamente vivo a tredici anni. Il sangue stilla e la donna che mi è debitrice, nuda, si scaglia sul corpo, lo avvolge e lo monta. Metto le mani nel fuoco e sono il fuoco. Il mio ventre torna piatto, la mia pelle torna liscia, la mia carne intera. Sono la freccia a ritroso. Il cerchio antiorario. L’otto rovesciato che si piega. Nel buco bianco trasfiguro in luce. Non posso più. Sono. La. A.
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PARTE 8
LE VOCI DELLA CASA
scintille sparse tra le pareti pencolanti
quando sto con te divento te quando sto con lei divento lei quando sto con e ho paura di questa ingerenza di questa anche la fisicità si cancella scolora perché poi devo sentire e non sopporto e arrivo a quella cosa quella sì quella cosa che sta dentro la casa ed è la casa mio padre dice ascolta questo canto e trasformalo in agosto sulla spiaggia di Margherita di Savoia le onde hanno il colore della calce murata viva nel mare mi spezzo l’osso del braccio ehi perché ve ne andate ehi perché ho undici anni sull’osso del braccio un bracciale grandissimo nero e turchese dove inizia lo spazio e finisce il tempo bisogna entrare e uscire vuoi frequentarli frequentali ma devi sapere che non sei come loro si entra e si esce tu ami la mamma dico e che significa amare eros philia o agape forse non la amo con eros dice e chi ami con eros dico solo chi non possiedo dice e io come sono amata agape e tu quante volte mi vedrai morire quante volte il tagliacarte piantato in petto non saprò mai sono vivi o morti vivi o morti non ho notizie dall’ospedale non saprò mai Infinto mi ha detto sono stato ricoverato tre volte sono stato in mezzo ai matti veri e mi hanno dato il prozac e l’abilify camminavo morto guardavo dalla finestra bianca la collina di Minervino Murge un ragazzo è entrato nella mia stanza e mi ha regalato un libro di poesie di Paul Celan ho sfogliato il libro e tutto intorno un manto bianchissimo ho sentito di tornare indietro particella infinitesimo atomo elettrone fotone quark onda miliardi di onde riassorbito nello spaziotempo il corpo non è che proiezione di memoria allora mi sono chiesto sono vivo o morto quando sono nato mio padre se n’è andato per questo tuo padre mi voleva bene il mio mi ha abbandonato e a lungo nella mente cercavo le radici della mia coscienza nell’incoscienza la madre è la mia rovina sono stato la sua ho bisogno di essere ucciso per tornare senza fratture l’ho abbracciato e Infinito ho detto io e te siamo bambini del mare camminiamo verso l’orizzonte e le mani si frantumano e Infinito ho detto non devi morire non morire resta con me restami accanto i miei problemi ha detto i miei problemi sono così grandi da oscurare il sentiero divoro l’orizzonte e mi vivo rovesciato sono la notte l’oscura immensità che tutto sovrasta uno non dovrebbe vederla a tredici anni non dovrebbe parlarle ogni sera non dovrebbe la dama dal velo nero esce dai mobili e si fa gigantesca si trasforma in corolla bianca di magnolia ho sacrificato la madre io stesso sacrificando e officiante ho sacrificato la madre l’ho divorata lei mi ha divorato ricordi Giuliana l’immagine del pesce un grande leviatano che mangia i pesci verdi e i pesci verdi abitano il suo ventre ecco Giuliana tu l’hai vista questa malattia l’hai vista nell’abisso l’hai guardata in faccia e così hai guardato in faccia il mio delirio gli dico Infinito noi siamo fatti di ricordi e nel cuore della casa dispieghiamo la memoria sai quanti anni abbiamo ne abbiamo cento forse anche milioni miliardi abbiamo gli anni della terra e dalla terra ci lasciamo deglutire i volti si sono fusi in un frantume di luce e attraverso le pareti Lilith mi apre il torace e mi mangia il cuore la casa brucia il cielo si squarcia esce una falce è la luna padre sei il mio solo padre ma ne ho conosciuto anche un altro e dimmi come si chiama non lo so non è uno sono tanti stanno qui dentro restano lì posso dividerli e renderli totem oppure no guarda che un osso spezzato dovrebbe far male non sento niente non sento niente non sento niente e dimmi dov’è questa casa abbandonata oltre il muricciolo Cristina ha detto che possiamo andarci covoni sterpaglia ci sono le vipere le vipere le vipere addosso ovunque le squame le vipere dov’è questa casa dove vai non si esce alle due del pomeriggio è controra io e Cristina ci masturbiamo in silenzio tra i ruderi in silenzio ci guardiamo e ci spogliamo furiose apro le cosce lascio entrare le sue dita lascio che si stenda su di me apro tantissimo spalanco la bocca e vorrei mangiarla vorrei strapparle anche la pelle mi sale addosso lascia colare la saliva tra le gambe strofina l’addome sul mio mi prende per i capelli strofina la clitoride contro la mia lascio che i suoi umori mi bagnino le stringo i capezzoli fino a farla urlare e sarà un segreto dice sarà il muro si apre le mattonelle vengono giù sale una nube di polvere entro nell’apertura Cristina m’insegue urla il mio nome e il varco si chiude lei resta dall’altra parte Lilith ha il sangue sulle labbra mi viene incontro con il sangue sulle labbra e vedo dieci Lilith dieci età diverse la bambina che danza a Castel Del Monte la ragazza che corre nelle segrete del castello di Otranto la donna con bambino che entra nel fuoco la donna anziana che insegue la donna del diario nonna con i capelli neri e il Vangelo in mano nonna in ospedale trasfigurata in malattia nonna sulla sedia di vimini a casa e mia madre giovane con i capelli neri mia madre bambina con le trecce e gli occhi grandi mia madre con il ventre e i fianchi laschi mia madre con una raggiera di rughe intorno alle labbra mia madre che cammina claudicante e si poggia alle pareti per non cadere mio padre che la segue con un bastone in mano mio padre senza capelli e con il volto solcato da profonde faglie mio padre con i capelli lunghi la barba e la maglietta rossa torace corporatura gracile e la stessa oscurità nello sguardo mangia dice Lilith mangia il suo cuore sto cercando di riavvolgere se riavvolgo la freccia le sciagure finiscono mangia il suo cuore se riavvolgo la freccia mangia il suo cuore mangia il suo non è una freccia è un otto rovesciato infiniti Infinito mangiane adesso mangiane il corpo di Cristo e io m’inginocchio e chiudo gli occhi mi mette una benda sulle palpebre non vedo che buio ma apro le labbra le apro bene e mastico carne e sangue carne e sangue carne e sangue e sangue e sangue non sono Lilith dice sono Giuliana sono dieci volte Giuliana sono te viva o morta nessuno vive nessuno muore vivi o morti siamo masticati dal tempo vicini all’eternità infinite copie di noi la casa è un portale il tempo è squarciato ecco che siamo il tutto e il suo nulla assurgere al nulla nel buio luminosissimo mi toccano l’addome mi toccano le gambe mi aprono le braccia accolgo la lama al centro del petto se vuoi frequentali entrare e uscire otto candele al centro una donna vestita di bianco il vestito brucia e la donna scompare entrare e uscire uscire uscire uscire non posso padre non posso non esco otto candele addosso la cera la cera lacera adesso stracciata fuori dai bordi muta chi sono lo specchio chi sono la casa chi sono la frattura chi sono mio padre e io esco dalla vita con gli occhi di mio padre e gli occhi di mio padre sono il tempo ho illuso il mondo di esserne capace ho illuso gli uomini feriti e li ho salvati nessuno può salvarsi nessuno esce vivo allora ti dissi aspettami cosa sai tu che a me conviene ignorare figlia mia anima mia quanto è trascorso non ho memoria tutto è presente fummo immacolati nella casa vuota ho scacciato l’ideale per donarmi a te la morte è una danza di resti che bruciano la vita è una danza di resti che bruciano i fiammiferi e la benzina distruggere la casa riemergere dal fango siamo fango linea che separa il dentro dal fuori dentro il cerchio siamo infiniti fuori dal cerchio finiti verrà il giorno in cui ti dar i miei occhi ma senza tempo il giorno è presente l’istante eterno forse era questa la malattia sapersi dissipati senza direzioni è un fiore di magnolia e nei pistilli stanno i silenzi mille bambine di carta aspettano fuori dalla stanza ho tagliato gli occhi alla luce e divampo con te nell’indistinto io t’insegno la rivolta ma ogni volta vinci il fuoco con il cielo sai cosa siamo siamo la casa che brucia il rito dell’altrove siamo spaziotempo curvato all’infinito cos’è l’amore in questo dissiparsi cantina gloria di giornate in frantumi dai chiodi affiggere quadri guardare la madre cospargerla di sperma morire nella fica dell’alba lasciarsi assorbire dall’utero primigenio figlia mia hai abbandonato il tempo e resterai in eterno nel riverbero dell’albero le radici sono serpi i rami braccia dita milioni di dita arrampicate al cielo la luce non è che illusione oltre la barriera le categorie si vanificano solo la polvere è vera siamo granelli nel deserto siamo deserto saprai vincere il dolore l’ingiuria l’assenza ricordo chiuder a chiave affinché tu non esca in piena notte affinché tu non vada a cercarli li hai cercati per troppo tempo e ti hanno maledetta ti ho vista piangere a piedi scalzi nel bagno della scuola le braccia sugli occhi ti ho sentita urlare ti ucciderai mille volte affinché io possa mille volte salvarti ma ascolta sono lo specchio la casa la rovina ci che sarà è eterno e ci che sarà è già stato ecco il segreto del mare il mare è dove le mani si spezzano e le onde si riempiono di mostri sai cosa sono i mostri siamo noi che ci guardiamo dal futuro siamo futuro assenza materia ombratile ogni forma di vita è una forma di morte il segreto del tempo è la simultaneità mentre cresce inabissa si eleva e scombuia adesso risorgi aspetta non andartene sappi che ogni istante è già stato al centro dell’ottagono il corpo di Infinito e quello di Giuliana dissanguati riverberano privi di età adolescenti e senescenti corpi senza organi miliardi di Giuliane miliardi di Infiniti di ogni età infestano la casa miliardi di Marco miliardi di Antonia miliardi di Chiara miliardi di Lilith di ogni età la casa pullula e le donne vestite di bianco si gettano nel fuoco si gettano nel fuoco si gettano nel fuoco Lilith innalza lacerti di carne al soffitto franato corre nella fiamma si getta nel fuoco la casa divampa si frantuma multipli di noi si vanificano nello spaziotempo siamo le voci della casa moltiplichiamo coscienze attraversiamo il cemento attraversiamo le ere li guardiamo sacrificarsi e morire e rinascere invano li guardiamo disporre candele e pregare ridiamo a lungo e lasciamo che s’illudano ecco degli stolti che imitano la nostra potenza ma è un’ovvia caricatura.
Wols
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Ilaria Palomba, pugliese di di origine e romana di adozione, è nata nel 1987. Ha pubblicato il romanzo Fatti male (Gaffi), tradotto in Germania per la Aufbau-Verlag nella collana Blumenbar, con titolo “Tu dir weh”; il saggio Io sono un’opera d’arte. Viaggio nel mondo della performance art”(Dal Sud); il romanzo Homo homini virus (Meridiano Zero), Brama (Perrone editore), Vuoto (Les Flâneurs); e le sillogi poetiche: Città metafisiche, Microcosmi, Scisma. Il suo ultimo romanzo è Purgatorio, pubblicato da Alterego edizioni. Il suo sito internet è: www.ilariapalomba.it L’indirizzo del suo blog: http://ilariapalomba.wordpress.com
Adesso ti cucio un vestito, addosso meditando i gesti gioie rubate a un rigattiere li serbo per te con cura mentre tutto fuori è in disordine il cielo le cose il grido disperato di un bambino allora in tutto questo caos getto lo sguardo dalla finestra e m’accorgo di non averti mai parlato e di essere in questo vuoto di parola testimone della tua morte che t’invade le vesti le porta a sorgenti limpide più quiete precoci lame del tuo pensare chiuso in una scatola, dove ascolti soltanto la voce dei tuoi dèi ribelli, traditi e beffeggiati.
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Ad Alfonso
Alfonso, voce della terra,
lasci l’inchiostro innamorato
dei giorni, macchiare il dorso,
gli omeri, nascosti gioielli nella tua
parola, eloquenza campale
come il suono delle campane
nell’umiltà vespertina.
Hai capito l’oscurità
demone sottile,
sei in ogni gesto
ogni anfratto della madre
tua origine, filtro
di memoria bellezza cauta
degli dèi che ispirano
nel caos serale il tuo
lavoro,padrone dell’officina
tanto cara a te, fulgido
angelo della creazione gettato
nel vagone d’un treno deragliato,
spina del cuore rossa moltitudine
sonora, florilegio arcaico
di notti dipinte sul dorso
della tua mano
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Michele Ferrara degli Uberti (1971-2025). Ha iniziato a pubblicare nel 1992 su riviste di cultura e poesia quali “Pagine”, “Galleria”, “Poetry”, “Fermenti”, “Produzione e cultura”, “Inchiostri”. Del 1998 la prima raccolta poetica, I richiami della luna nuova; nel 2004, con Liberi editore, Il compagno invisibile. È presente in diverse antologie e ha vinto vari premi fra cui la sezione inediti del “Dario Bellezza”.
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Un ricordo, di Alfonso Guida
Un altro che scende dalla carrozza, un altro e poi un altro. Ma oggi è sceso Michele, poeta geniale della parola innamorata, della parola riflessa dallo specchio attraversato da un’Alice a lui tanto cara, insieme a Rosselli, Campana, Auden, fino a psicoanalisti come Laing. Quante strade aveva tentato Michele. Mi chiamava un giorno al fisso (allora non esistevano i cellulari) e si diceva innamorato di mia sorella che non aveva mai visto. Mi chiamava un giorno e mi cantava, roco, cavernoso, oltretombale, un inglese inventato – jazz. Rideva grasso. Andava coi travestiti che sostituivano le donne, impossibilitato ad averle. Era completamente compromesso da una malattia crudele che però lo rendeva geniale con le parole, con l’arte in generale. Suonava il pianoforte. Anche suo fratello gemello era schizofrenico. Stava in una comunità psichiatrica quando ci conoscemmo al Premio Bellezza. Un rapporto troppo conflittuale aveva fatto sì che i medici lo allontanassero dalla madre. Eppure veniva da una buona famiglia. Sua madre psicoanalista freudiana, suo padre lavorava alla Treccani a Venezia. Non era me, figlio dell’ignoranza che mi ha ucciso, dopo anni di sevizie. Ma seviziato era pure Michele, seviziato fin nelle radici che si ostinava a percepire “stellate”. Ricordo questa sua immagine relativa a La libellula. Gli piaceva Sleep e diceva sempre al telefono, nel primo pomeriggio: “Hello, Shallops”. Shallops è il nome usato da Amelia in una poesia di Sleep che sta per “scialuppa”. È sparito un giorno nel nulla. Sono passati trent’anni… Quanti primi pomeriggi d’estate passati a leggerci poesie. Vanno via tutti… L’ultima volta fu di mattina: “Devo andare a piazza Venezia a leggere una poesia sulla Shoah”…
Michele, classe 1971, occhi spiritati e barba alla Charles Manson. Sapeva le poesie di Testamento di Alda Merini, libro che gli regalò la madre, a memoria…
non vi ruberò troppo tempo. Il mio nome è Robert Mächler. Questa mia breve relazione nasce dalla mia lunga solidarietà con il grande scrittore Robert Walser, di cui mi onoro di aver decifrato i manoscritti e interpretato alcuni dettagli biografici. Io avevo diciannove anni (scuserete questa digressione personale, ma mi è utile per chiarirvi il senso della mia brevissima relazione) e non conoscevo affatto la sua opera quando, disgustato dalla normalità della mia famiglia (mi amavano, non mi picchiavano, erano solo buoni), me ne allontanai, mi finsi pazzo e passai un certo periodo di tempo nella Maison de Santé de Malevoz, tentando di scrivere il mio libro Come tacque Zarathustra, articolando scrupolosamente il mio suicidio perché morendo avrei salvato l’umanità. Cercavo le Sette Regole della Salvezza quando, come per incanto, leggendo avventurosamente e casualmente un libro di Robert Walser (che oggi neppure ricordo), scoprii le Sette Regole del Silenzio – Prudenza, Segretezza, Simulazione, Sogno, Fantasticheria, Metamorfosi, Malinconia. Le scoprii intatte, perfette, indissolubili, nei criptici appunti a matita delle sue micrografie, dipanati in quel modo austero, fittissimo, fatto proprio per non dire, scritti nell’ingenuo desiderio che le sue frasi incompiute e gentili alla fine ricoprissero l’irritante e rumorosa superficie del pianeta come un lungo manto di neve, dopo una lunga notte d’inverno, ricopre l’intero paesaggio. La scrittura, liberata e indifferente, è solo una silenziosa conversazione con il proprio segreto. E Robert Walser, a cinquant’anni come io a diciannove, dopo romanzi, prose, racconti, poesie, ha finto di essere pazzo; internato prima a Waldau e poi a Herisau, ha intrecciato mitemente canestri, in silenzio, senza più pronunciare e scrivere parole, lo ha fatto perché solo così poteva servire il Grande Ordine della Struttura Chiusa e realizzare le Sette Regole del Silenzio, smettere di fare il girovago di una scrittura senza fine, essere senza più dolore l’anacoreta del nulla, approdare, infine, all’incantesimo di una neve senza suoni. Vi assicuro, signori, che Robert ha simulato la follia solo per essere più vicino alla sua mente e il più lontano possibile dal mondo. È stato prudente. Si è chiuso nel suo segreto. Ha simulato la follia trasformandosi in un matto. Ha continuato a fantasticare e sognare. È rimasto malinconico. Vedete: Prudenza, Segreto, Simulazione, Metamorfosi, Fantasticheria, Sogno, Malinconia.
Questo io ho cercato di dimostrare, interpretando la sua opera come devono fare i puri interpreti, avvicinandosi e allontanandosi dal loro oggetto, tra le sabbie mobili e il cielo puro. Il fuoco arde con maggiore precisione se al suo interprete è concesso di non accostarsi troppo alle fiamme, consumando così tutto l’enigma. Di tante, troppe ceneri sono pieni i cimiteri della critica tradizionale, attenta più alle tracce dei libri che alle anime degli scrittori.
Direi che non ho nulla da aggiungere.
Lascio tutto lo spazio ai (veri?) interpreti che vi parleranno dell’opera (opera?) walseriana.
Io torno a casa per trovare la Grande Regola della Salvezza con la quale potrò, finalmente, far quadrare il Magico Cerchio dell’Umanità. Solo chi scorge i contorni di questo cerchio riesce a vedere, intera e perfetta, l’ombra del suo corpo, e non ha più bisogno di nulla.
Lui? Sempre a costruire una vita segreta, dove nessuno lo vedesse. Lui, a scrivere chiuso nella sua stanza parole che cancellassero le penose cose del mondo. Felice quando, con suo padre, allungava l’elastico della fionda e tirava pietre contro la fabbrica di birra vicina al terrazzo. Il sasso rimbalzava sulla tettoia di ferro con una freschezza felice. Qualcosa, finalmente, accadeva. Lui, in quel suono, esisteva. Uscì di casa fingendo di essere testimone alle nozze di un altro: era vestito a festa, sorrideva, ma vagava come un fantasma in quel matrimonio che era il suo e non era il suo. I suoi amici scattavano fotografie da cui la madre sarebbe stata, per sempre, assente. Quell’assenza, oggi, è un macigno che non raccoglie più dal suolo. La vera biografia è amare chi si desidera amare. La sua vita è stata Einfhart, regno dell’immaginazione interiore, modellato dalla madre. Poi divenne Erlebnis, l’esperienza amorosa con le creature umane. I momenti bellissimi, pur restando nascosti nella vita reale, lo abbagliano ancora, come meteoriti disseminati negli anni, come prati luminosi nei pendii di montagna. Alla fine, lo sa, è stato lui il regista di tutti i suoi segreti.
Hofmannsthal, scoprendo a Parigi la prima mostra dello sconosciuto V. Van Gogh nel 1901, ne è sconvolto come da un cataclisma. Nulla è più identico a quello che era, dopo che ha visto quei colori. «Ma cosa sono i colori se non prorompe in essi la vita più fonda degli oggetti? E quella vita profondissima era lì, albero e pietra e muro e sentiero davano di sé quel che avevano di più segreto, me lo gettavano per così dire incontro, ma non la voluttà e l’armonia della loro vita muta, quale in passato mi fluiva talvolta incontro dai quadri antichi quasi un’aura incantata; no, il solo fatto che esistessero con quella violenza, il furibondo stupefacente miracolo della loro esistenza investì la mia vita umana. Come posso farti intendere che ogni creatura […] mi si levava incontro come rinata dallo spaventoso caos della non-vita, dal baratro dell’irrealtà, così che io sentii, no, seppi, che ognuna di quelle cose, di quelle creature, era nata da un terribile dubbio del mondo e con la sua esistenza copriva ora per sempre un’orrenda voragine, il nulla spalancato!» Hofmannsthal davanti a Van Gogh è l’uomo psichico travolto dalla follia dell’oltrepsiche. Il nulla spalancato è la sua ombra quotidiana, ma non è in grado di soffrirla dentro di sé: la regge per un attimo, da spettatore incantato.
Una psicologa di nome Nausicaa scrive un libro dedicato ai “fantasmi gentili” ricoverati nel manicomio di Quarto. Il libro, accompagnato dai disegni burleschi di un matto anonimo, viene pubblicato quando lei ha ormai più di ottant’anni. Pochi mesi dopo, prima della presentazione del libro, muore, nella sua casa di campagna, per coma diabetico. Vivo il libro, l’autore deve sparire, come quando si fugge all’improvviso e si lascia la scena. Ma la parola resta, con le piccole fiamme dei racconti. Eccone uno: «Ho esitato a lungo prima di scrivere questa storia. Penso però che sia giusto parlare di quella sera d’inverno, fredda e piovosa. Ero stanca, timbrai il cartellino con un senso di sollievo, Finalmente potevo tornare a casa, al caldo, dia miei cari. Poi mi accorsi d lui, era là nell’atrio e chiaramente mi stava aspettando, non ne farò il nome anche se risuona da anti anni nella mia mente e nel mio cuore. Si avvicinò, con il suo sorriso di sempre. Lo guardai, forse un po’ infastidita, ero stanca, gli dissi: “Hai qualcosa da dirmi?”. Lui rispose, sempre sorridendo: “No, forse non è importante, ne parleremo domani mattina”: Tornai a casa sollevata… L’indomani mattina, arrivata al cancello, mi dissero che durante la notte si era tolto la vita. Sono trascorsi agli anni e il suo fantasma gentile mi appare spesso, quasi volesse consolarmi perché io quella sera non l’ho ascoltato. Non saprò mai cosa mi volesse dire, se in qualche modo avrei potuto evitare il suo gesto. So che sicuramente lui mi ha perdonata ma la colpa rimane, e pesa…».
Di quel mare così azzurro, le onde osservate da intelligenti e da idioti, da cani e bambini, che fare? La luce sta per arrivare alla finestra. Ricordo quando guardavo le saline azzurre, il mulino di Mozia. Cos’è lo stile, se non l’aria asciutta che prosciuga il vento? Lo scudo potente e sicuro che controlla le infinite rifrazioni dello specchio? Rifrazioni, non fantasie. L’immaginario non è una plaga remota ai confini del mondo: è il mondo stesso come un tutto straziato. Sono io che curo, io che faccio all’amore. D. mi scrive, mi dice che ha vinto il cancro alla vescica e ringrazia i Grandi Medici del Grande Staff che lo ha curato. Ma, prima di tutti, ringrazia me. Che, nella mente, lo avevo già guarito. Tiene, sul comodino, il mio Demone accanto (copia introvabile che ha trovato e acquistato sul web), e a tratti lo legge, perché sente che da lì si sprigiona una forza. I. mi dice che, con Galassie parallele, ho costruito un edificio con le pietre dei matti e ci abito, fingendo di essere sano.
La scrittura come una tela che cuci e che scuci secondo la tua tempesta emotiva. Ma non perdere l’ultimo controllo. Una lucida vigilanza, dentro il disfacimento, e l’opera è scritta, è dipinta, risuona: come se vedessimo un quadro di Bacon colare colore e disgregarsi (ma anche se stanno disfacendosi dei lineamenti, anche se intravediamo una macchia astratta, sappiamo che tutto deriva da una figura, da un volto). La vigilanza: necessità di mantenere i confini mentre tutto si disgrega. Se la tempesta si cristallizza in delirio, il dolore viene zittito nella gabbia del sintomo. Ma se il crogiuolo di immagini fluttua e la forma tiene; scopriamo attimi attoniti dove la poesia trova la sua cassa di risonanza. Sarebbe un mio antico sogno invitare un matto al rigore ostinato dello studio, sapergli insegnare come slacciarsi dai suoi traumi: «vedi, quelle sono corde inservibili che hanno solo il potere di soffocarti…». Ma io, cosa posso insegnare sulla libertà, a parte queste annotazioni teoriche? Nulla, avendo vissuto sempre da prigioniero, in ogni secondo della mia vita, ribellandomi contro ogni dovere ma restandone ostinato custode. In guerra sarei stato medico come in tempo di pace, curando le ferite dei combattenti ma imprecando contro gli orrori bellici che non sapevo evitare. Mai stato homo politicus: solo un soccorritore, una creatura compassionevole. Tutte le mura intorno, tanti soldati che cercano di sgretolarle con l’esplosivo. Tante sentinelle, tutte racchiuse in me. Come dice C. «Ho in dote una matassa di voci».
L’idea dell’essere come tremore. Non conosco una seconda idea: filosofi la studiano, io la vivo.
Ho salvato vent’anni di lavoro: solo poesie, scarabocchi qui e là. Sapete che io resto muto per giorni. Ma le parole scritte mi salvano dal tacere senza ritorno.
Fermo qualcuno per strada, gli leggo i miei versi. Non potete immaginare con quanta sufficienza mi ascolti, aspettando che io finisca. Per fortuna, dopo, non mi regala due spiccioli (ma forse sarebbe meglio). Ho già deciso che sarò un accattone della poesia, con le postume grandezze fissate come chiodi nella testa. I miraggi sono solo raggiri.
*I versi sono tratti dalla raccolta A puntu strittu a puntu largu, Edizioni del Verri, Milano 2025.
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a lingua
ah a lingua a to lingua
còmu a chidda di to matri
tantichiedda ammintata
còmu a chidda di to patri
ah a lingua a to lingua
lingua taliata e muzzicata
lingua rimmuttata e sputata
lingua zzittuta e scuncichiata
ah a lingua a to lingua ncarnata
nnâ ti peddi è rrugna camurrriusa
ah a lingua a to lingua cusuta intra
u to pettu cü u lu versu curtu curtu
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la lingua
ah la lingua la tua lingua / come quella di tua madre/ un poco inventata/ come quella di tuo padre/ ah la lingua la tua lingua/ lingua guardata e morsicata/ lingua rifiutata e sputata/ lingua zittita e derisa// ah la lingua la tua lingua/ incarnata/ nella tua pelle è rogna fastidiosa/ ah la lingua la tua lingua cucita dentro/ il tuo petto con un verso breve breve
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u checcu
u checcu u cunta chicchiannu
ca a so lingua s’impidugghia
nnu palatu còmu intra na cassa
chiuiuta ‘ntornu
i corda vocali ammuttannu i gutturali
nnâ vucca unni a lingua chicchia
lucannu cu’ i sona a so vinuta
ncapu ê labbra
i sillabba nun cantanu
sciàtanu a palora
ca a picca a picca nasci
ca a picca picca nesci
il balbuziente
il balbuziente balbettando racconta/ che la lingua si ingarbuglia nel palato/ come dentro una cassa chiusa intorno/ le corde vocali spingono le gutturali/ nella bocca dove la lingua balbetta/ giocando con i suoni il suo arrivo// le sillabe non cantano/ ma soffiano la parola/ che a poco a poco esce/ che a poco a poco nasce
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Angela Passarello, nata ad Agrigento, vive e lavora a Milano. Ha pubblicato Asina Pazza, La Carne dell’Angelo, Ananta delle voci bianche, Piano Argento, Pani scrittu, Bestie sulla scena, Poema Rupe. È stata cofondatrice della rivista “Il Monte Analogo” e ha collaborato con “La mosca di Milano”. Ha realizzato la mostra personale “Scritto in mare (Fondazione Mudima, Milano 2019). I versi di A puntu strittu a puntu largu sono scritti nella “parlata” di Girgenti e mescolano tragedie, amori, prodigi, fiabe, silenzi, con metafisica leggerezza: la lingua italiana traduce il dialetto agrigentino con una intensità lieve e felice, diversa ma simile a quella della lingua madre.