TAALA. Sedicesimo quaderno, Nadine

Ma finora, dove credi che abbia vissuto? La mia era una casa vera, come immagino sia vera la tua. C’era un tetto, anche se basso. Una cucina e una stanza da letto. Una porta. Non chiudevo mai a chiave. Chi voleva venire veniva, entrava e usciva, in pieno giorno o a notte alta. Nessuno mi guardava. Riposavano per un istante nel mio letto. Compagni, sì. Tutti compagni occasionali. C’era chi abbracciavo per un istante, chi amavo per un’ora, chi passava la notte intera con me. Poi, il giorno dopo, ero di nuovo sola. Ma mi illudevo che, quando tutti avrebbero ricominciato a fuggire, rumorosamente, al sopraggiungere della notte, io fossi comunque, sempre, in qualsiasi momento, per loro, un minuto di sosta, un secondo di pace…

Non so cosa ti diranno i miei compagni. Sai, loro mentono sempre. Ma ascolta me: Taala è una città nera, una fogna, è il ghetto del deserto, il luogo dove tutto si ricicla e si trasforma, dove si lavora la plastica e il ferro, si vive in mezzo alla spazzatura, si ha paura anche dell’aria, si diventa scuri, sporchi e scuri per tutta la polvere che penetra le unghie e i capelli, e si pensa alla città alta, alla magnifica, nitida, superba città di vetro e di luce che si protende come una prua sopra il nero dei nostri tetti e che noi non abbiamo ancora mai visto.

Immagine di Pietro Casarini

TERRITORI DI FOLLIA. Sylvie Durbec

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Robert Walser

1. La Svizzera

Non sono degno di camminare per le vie di Parigi.

Nono degno della Francia e dei suoi artisti.

Non sono degno di sedermi al tavolo dove sedette Ezra Pound.

Non sono degno di Lisbona e della poesia di Pessoa.

Non sono degno di traversare la frontiera verso Sud o verso Ovest.

Come posso azzardarmi a traversare le vie dove dei geni hanno camminato?

[…]

Non sono degno di rasentare le ombre di Nerval, Baudelaire, Rimbaud.

Sono svizzero.

Un nuovo scrittore svizzero.

Cioè un niente che sa la sua insignficanza, il suo nulla.

[…]

So pulire il focolare dei camini.

Ho scritto un dramma, Cenerentola, e un poema in omaggio alla cenere innocente.

Amo la neve e le cosce bianche delle ragazze.

Amo eccessivamente il vino rosso che mi servono negli alberghi svizzeri.

Amo la mina grigia delle matite e i segni giovanili, dolci.

Ho scelto di sparire dal mio essere vivo. Sono svizzero e vergine.

Svizzero e vergine. Scrittore anche, fratello della follia di Soutter.

Non voglio una camera da solo, ho detto al direttore dell’istituto di Waldau.

Non sono degno di scrivere con inchiostro nero su belle pagine bianche.

Ho bisogno di quadretti di carta, etichette, pezzettini, rifiuti.

Mi convengono, a me che sono niente. O poco. Non inchiostro, non penna, non fogli ben intagliati.

Mi accontento con gioia di ciò che è abbandonato.

[…]

Mi ricordo del mio viaggio in mongolfiera dopo Berlino fino al Baltico come di un momento piuttosto matto.

Scrivere il meno possibile. Camminare il più possibile.

Bere con Seelig quando viene a farmi visita.

Non credere alle persone che parlano di me come di uno scrittore.

Io? Veramente?

Sono il nuovo e ultimo bambino della Letteratura Svizzera.

Con cosa rima essere in buona in salute, ditemi?

Non sono degno di lasciare questo asilo di aliienati.

La neve come la follia è un paese.

Sono degno di un territorio?

Silenzio.

Il sonno gentile allevierà la febbre del malato fino al suo prossimo Natale.

Dormono.

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Louis Soutter

La posizione di un letto in una camera modifica non soltanto il sonno del dormiente ma la sua qualità. Voglio parlare non solo della qualità del sonno di chi dorm, ma anche della qualità di chi dorme. Tutto, in questo paese, è legato.

*

Camminare è l’attività che ci permette di respirare ma anche di disegnare. La sola. Che ci è spesso negata in nome della necessità di rinchiuderla, gente come noi.

Noi?

Lui.

Loro.

Nessuno qui sa chi siamo. Ancor meno da dove veniamo e dove andiamo. Perché noi poniamo domande che qualcuno giudica imbarazzanti.

Noi siamo là, semplicemente appoggiate contro il muro di questa sala, nude.

Molto spesso noi poniamo domande a cui non risponde nessuno. Lui, le mani imbrattate di nero, lui solo può risponderci perché saprà comprendere le nostre domande. Perché qui veniamo giudicati secondo il nostro capire il senso delle domande che formuliamo. Come noi, ci si è spogliati di abiti, costumi, camicie lussuose. Di un paese diverso da questo, in un paese che dicono costituito da stati riuniti in forma d’America.

Le mani giunte, completamente nudo, egli si esprime nel dipingere ciò che tutti qui chiamano inezie.

Non noi.

In quale momento cominciamo ad esistere?

*

Traduzione di Marco Ercolani e Lucetta Frisa

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*I testi sono tratti da: Sylvie Durbec, Territori della follia, con disegni e incisioni di Valérie Crausaz, éditions Cousu Main, Carpentras 2008.

COME UNA FARFALLA. Konstantin Vaghinòv

Konstantin Vaghinòv

Disegno di El Lisitskij

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Lettera non spedita del protagonista, Evgenij Felinflein, musicista, imbroglione, baro, fumatore d’oppio, con cui finisce il romanzo Bambocciata di Konstantin Vaghinòv (Pietroburgo, 1899-1934). Il romanzo è stato scritto fra il 1929 e il 1930 (trad. it. in Einaudi di Clara Coisson, 1972).

«Qui mi aggiro spesso con la chitarra per il giardino. Dicono che l’approssimarsi della morte semplifica l’uomo. Adesso vedo allontanarsi le coppiette variopinte. Qui, come nel mondo, si usa offrire dei fiori. Ma qui non si parla dell’avvenire. Qui l’amore ha un carattere libero e leggero, senza sovrastrutture raffinate. Sempre più mi vado convincendo d’esser capitato in un regno incantato. Di giorno in giorno dimagrisco e calo di peso. Non ho più appetito, m’indebolisco e presto non ci sarò più. Talvolta piango nel sonno e mi sembra che avrei potuto essere ben diverso. Adesso non capisco come abbia potuto vivere così. Mi pare che se mi fosse data una nuova vita, la vivrei diversamente. E invece, come una farfalla, ho svolazzato, svolazzato un po’ e sono morto».

SI PUÒ FARE

Hippolyte Bayard

SI PUÒ FARE. Dove sono riportate alcune riflessioni di Hippolyte Bayard, il vero inventore della fotografia. Parigi, 1840.

Ho molto amato i disegni di Alexander Cozens, un pittore inglese nato a san Pietroburgo. Quando guardo un suo paesaggio, in qualche museo, mi sembra di vedere una montagna ma troppo da vicino. Distinguo quelli che appaiono crepacci, dirupi, forre, versanti. Ma è tutto un nero opaco, un velo scuro. Sembrano segni tracciati in stato di sonnambulismo. Li osservo con meraviglia. In fondo è quello che vorrei fotografare: un paesaggio, un volto, un punto, che non esibisca la sua forma familiare, ma sia una rete intricata e indecifrabile come lo è l’anima durante il sonno, quando le vertigini si intrecciano alla realtà e ci si sveglia con il desiderio di mettere in luce quanto sfugge alla mente. Mettendo in luce, inevitabilmente si sfuocano i con torni, le linee, i colori, e alla fine resta solo l’inchiostro, la grande macchia scura, matrice di altre piccole macchie scure, e si aspetta che torni la nuova notte, per tornare a sognare. L’uomo vive con i suoi incubi come unico orizzonte. Ma poi, alla fine, questo orizzonte unico è solo un prisma che rifrange mille luci diverse.

Ho inventato la fotografia per trovare questa rifrazione. Il mio autoritratto è finito: Autoritratto come annegato. Si scorge la mia sagoma, sono addormentato su una sedia, immerso in una nebbia biancastra, le mani scure come putrefatte, il grande cappello appoggiato al mio fianco. Avrei voluto fotografarmi magrissimo, con un teschio fra le mani, ma poi ho cambiato idea e ho deciso di affondare il mio corpo dentro questa evanescenza. Come se fossi un bagnante sdraiato tranquillo su una sedia, ma sotto strati e strati d’acqua. Sommerso. Sotterrato dall’acqua. Eroso. Perché mi sono ritratto così? Daguerre grida al mondo che è lui il vero inventore della fotografia e io un volgare impostore. Ho voluto fargli uno scherzo: dimostrargli che, per la delusione sofferta, mi sono annegato, e fotografarmi. Ma in realtà io non scherzo mai. Io voglio continuare il mistero di Alexander Cozens: rappresentare l’invisibile. L’invisibile è necessario, il visibile volgare. Questo bianco del corpo, questo nero delle mani, questa narcotica spettralità – la fotografia – non è solo una fantasia della mente. Io l’ho realizzata fisicamente, con carta e cloruro d’argento. Si può fare.

ART BRUT. Jean Dufuffet

Jean Dubuffet

La mia idea – che ho già esposto altrove – è che l’arte non ha bisogno di nessun esercizio (ogni artista ha la possibilità di mettere a punto le sue tecniche) e di nessun insegnamento che venga da altri, nessuno studio di ciò che fanno o hanno fatto gli artisti del passato, gli altri artisti. Io sono del tutto convinto che chiunque, privo di conoscenza e di abilità speciali, senza cercare una sua qualche predisposizione innata, può dedicarsi all’arte con buone speranze di successo. Occorrerà soltanto che scopra i mezzi d’espressione più convenienti per lui, che gli permettano di esternare i suoi umori senza falsarli e senza perderci nulla; questo è difficile! È necessario per la maggior parte del tempo un lungo lavoro di esperienze e di ricerche. Difficile disporre i fili in modo che la corrente li traversi senza disperdersi passando velocemente e comodamente nei due sensi (dal pittore all’opera e dall’opera al pittore). Inutile cercare di prendere in prestito il dispositivo di cui si è servito un altro, perché la corrente non passerà e questo sfocerà solo in una serie di smorfie, in un’opera contraffatta. Per questo l’arte culturale, viziata dal manierismo e dal mimetismo, non è ai miei occhi, né da un punto ne dall’altro, che moneta di scarso valore (trad. di M.E.).

Il testo (“Art brut”, 1953) si trova in: Jean Dubuffet, ART BRUT et créateurs d’Art brut, Studiolo, L’atelier contemporain, Gallimard 2023.

LA PAUSA-SIGARETTA. Marco Sbrana

L’ambiguità della pausa-sigarettasu Coffee and Cigarettes di Jim Jarmusch

Coffee and Cigarettes (2003) di Jim Jarmusch va forse rivisto fino a conoscerne le battute a memoria perché sia reso possibile il districarsi tra i vari cortometraggi che lo compongono in cerca di un motivo ricorrente che ne giustifichi l’apparente gratuità.

I corti sono undici; autoconclusivi, attori diversi, diverse le storie. Le location, pure, si assomigliano, perché i protagonisti eseguono la stessa azione in tutti e undici i cortometraggi: accompagnano sigarette a tazze di caffè.

Il primo corto, con protagonista Roberto Benigni e Steven Wright, semina i leitmotiv che ritroveremo nel corso del testo: lo scambio di persona; l’alienazione; il senso che la vita si stia svolgendo in un luogo che non è quello in cui ci troviamo. Dopo una conversazione assurda tra i due personaggi sull’apparente capacità del caffè di “accelerare i sogni” che, nello svolgersi, “vanno come a Indianapolis”, Wright denuncia il suo malcontento: non vuole andare dal dentista. Benigni, invece, ama andarci: lo sostituirà, andrà lui al suo posto. Tremanti per le decine di tazze di caffè che hanno ingurgitato e con il cuore a mille della ventesima sigaretta in mezz’ora, si separano, felici e contenti.

L’altro tema che ritroveremo è la mancata adesione alla vita, il divorzio che lamenterà il personaggio di Taylor nell’ultimo corto. Testo denso di simbolismo, opera aperta come sono tutte quelle di Jarmusch, la responsabilità quasi totale della decodifica, anche erronea, è dello spettatore. Questa mancata adesione alla vita si traduce con l’assenza di desiderio di vivere, che porta all’improbabile scambio di persona.

Nel corto Twins, la confusione identitaria è al massimo grado: la gemella dice di “odorare” del gemello che, a dire di lei, si è messo la sua camicia e le sue scarpe; dovrebbe trovarsi uno stile, anziché plagiarla. Naturalmente, scarpe e camicie sono identiche. Segue il corto con protagonisti Iggy Pop e Tom Waits (nei panni di loro stessi), che affronta il tema, collaterale a quelli che abbiamo delineato, della volontà, in un vivere che non ci piace, di perderci nella vita, di dissiparci. Perché la cosa bella, dice Tom Waits, di aver smesso col fumo è che, qualche volta, una sigaretta te la puoi fumare. Capiamo, noi spettatori dotti: né Iggy Pop né Tom Waits hanno interrotto il loro tabagismo. E si distruggono i polmoni fumando con gusto. Alla stessa stregua, i protagonisti del quarto corto. Il primo rimprovera al secondo di bere troppi caffè, ne morirà; l’altro, di fumare senza misura.

Esemplificativo è il cortometraggio numero cinque. Una donna bellissima beve caffè, poco zucchero, e sfoglia una rivista di armi e di motociclette. E qui il decodificatore che è in ogni pubblico comincia a chiedersi che testo stia leggendo. Cos’è Coffee and Cigarettes? Un momento di pausa dalla vita, un film su ciò che interrompe la vita, un film su ciò che accade mentre la vita – registicamente fuori campo – seguita senza di noi. Sicché la backstory della donna è lasciata solo all’intuizione, non viene approfondita. Perché non è importante. È importante solo che lei, da quella vita presumibilmente avventurosa, si sia presa una pausa, abbia scelto un pur breve divorzio. Così nel corto a seguire, dove è palpabile che i due protagonisti abbiano conti in sospeso, ma dove è chiarissimo che non abbia importanza.

Coffee and Cigarettes riesce a far avvertire il peso gravoso della vita che incombe, che circonda e che, una volta conclusa la pausa sigaretta, ricomincerà a divorarci. È un film sulla sospensione: si sospende il lavoro, si sospende il disprezzo (vedi il corto con Cate Blanchett in doppio ruolo), si sospende l’emozione per trarsi fuori dalla vita grama e aspettare, deputare foss’anche solo dieci minuti a un ozio che non include in sé la vita, che la vita la lascia fuori, così gravida di sofferenze indicibili, un ozio, una pausa che ci permetta di sputare parole vane, discorsi senza capo né coda, ma che pure costituiscono il grande discorso del mondo, e che la bobina di Tesla (introdotta nel corto numero otto e poi ripresa nel finale) non può ignorare, se davvero, come voleva il genio, la Terra è un conduttore di risonanza acustica. No, la bobina di Tesla, che il film simboleggia, non può ignorare l’inanità dei discorsi che sputiamo quando ci esautoriamo dal tessuto della vita che opprime.

E poi di nuovo scambi di persona negli episodi divertentissimi con Alfred Molina e Bill Murray, rispettivamente terzultimo e penultimo cortometraggio.

È solo a fortiori che si dà un senso a queste storie che come filo rosso (immediatamente ravvisabile) hanno le parole del titolo. E solo studiando il cortometraggio di chiusura.

Due vecchi operai. “Taylor”, chiede quello seduto a destra, “stai bene?”

“Non tanto. Mi sento divorziato dal mondo.”

E Taylor cita Mahler, il lied che dice: Del mondo ho perduto ogni traccia.

Coffee and cigarettes essendo un testo sull’alienazione, propone, in quest’ultimo, triste, episodio, un modo per risolvere il divorzio (Camus, Sartre): porci noi come bobina di Tesla e, nel soffocante vociare del mondo, essere ricettori anche della musica che il mondo emette. Ma è bastevole questo sforzo per salvarci? Pare di no, perché i due vecchi operai sono costretti a fingere che lo squallido caffè (in bicchieri di plastica) sia champagne, per tollerare una pausa troppo breve. Perché la pausa è ambigua per natura: se, da un lato, ci esime da una vita “tristi come chi deve”, dall’altro ci esime dai piaceri che la vita dà. L’alienazione è connaturata all’individuo postmoderno della società tardoindustriale, non vi sfugge mai; ma quando l’alienazione diventa scelta per sopperire alle mancanze? Quando, a fronte delle orribili carenze dell’esistere, ci chiamiamo fuori dalla vita, che ne è di noi? I due operai brindano con lo champagne immaginato e, dopo che il lied di Mahler ha risuonato nello spazio, provenendo, ovviamente, da un campo non inquadrato (mai altro filma Jarmusch che lo spazio necessario a riprendere i caffè e le sigarette), Taylor chiede di essere svegliato non appena la pausa finirà. Ma ha solo due minuti per dormire, gli dice l’altro. Taylor, pure, non lo sente: ché dorme di già.

E, ora, le notizie è la voce fuori campo che chiude il film e dà avvio ai titoli di coda. Rumore ronzante di radio. La vita non è cessata, malgrado gli sforzi che i personaggi hanno fatto per accomiatarsene. Il mondo ha seguitato la sua corsa con noi dislocati. La vita era altrove e succedeva mentre bevevamo caffè e fumavamo sigarette, nel limbo alienati, incerti se essere agenti nel mondo o soggetti passivi di una vita che, il regista di Solo gli amanti sopravvivono lo sa, è troppo complicata, troppo dolorosa, una vita che è troppo.

*Marco Sbrana (26/03/2003) studia scrittura creativa presso la scuola Mohole, a Milano, dov’è nato. È nella redazione di Zona di disagio e Evidenzialibri. Cura la rubrica settimanale di cinema per Odissea di Angelo Gaccione. Scrive per il blog Scritture di Marco Ercolani. Ha scritto un romanzo e una raccolta di poesie finora inediti. Cura il blog di critica e cultura cinematografica Carrello a seguire (carrelloaseguire.com)

MOZART STRUMENTALE. Francesco Denini

Impressionante scelta espressiva con cui Mutter e Orkis iniziano questa sonata: un suono davvero spettrale, perfetto, così diverso da quello di ogni altra interpretazione, eppure giustificato nel suo procedere. Gli ‘spasimi d’oltretomba’ si alternano a tratti drammatici ed altri addirittura apollinei, ma non c’è anche in loro ‘rappresentazione’. Siamo ancora oltre, molto oltre “Ah padron siam tutti morti” del Don Giovanni. Questo clima non è più teatrale, forse solo parzialmente liederistico. Qui Mozart, secondo questi interpreti, esperimenta emozioni pressoché solo ‘strumentali’, extraverbali, cioè solo comprensibili e raggiungibili nell’ambito di un brano astratto da ogni interpretazione narrativa, ma perfettamente ‘classico’, in quel che il classicismo viennese ha di peculiare, le sue forme di sviluppo, l’avventura interna che esse implicano e che lo differenziano rispetto a tutta la musica precedente e successiva. La narrazione non è esclusa, ma narra cose inenarrabili in altro modo. Il tratto liederistico è serenamente accettato nel secondo tempo, ma solo a tratti, e anche altri moti quasi operistici non sono esclusi nelle variazioni, ma non sono mai resi dominanti, anzi. Certamente Schubert ci si sarebbe ritrovato moltissimo. Hofmannsthal della ‘Briefe’ proprio questo diceva nel suo ammutolire. Ma qui Mozart, almeno in questa interpretazione specifica, dice qualcosa di assolutamente unico, anticipa certamente molte cose, ma nell’essenza rischia di risultare del tutto dimenticato. In questo senso Mutter e Orkis compiono un atto di reale ‘pietas’, sia musicale sia storica, nei confronti dell’uomo Mozart e delle possibilità irripetibili del classicismo viennese. Ed è una pietas a due direzioni, in quanto ci salva, noi oggi, da questa ‘dimenticanza’. Il misto di nostalgia, compostezza, forza, sguardo nel nulla e accoglimento delle convenzioni, in quanto essenzialmente rassegnazione e civiltà, subito afferrate da un’angoscia tanto più composta quanto più è forte, e poi i ritorni alla civile educazione, e infine l’atto di rabbia ancora più essenziale di quella bethoveniana, nel finale, partecipe dell’affanno esistenziale alla base di tutta la composizione, del nulla su cui tutto si regge. Caro Kant, quanto ti sbagliavi a considerare la musica qualcosa di unicamente concernente la sfera del ‘piacevole’! Quanto il classicismo viennese si opponeva proprio a questo ‘pregiudizio’. Ma come fai a non rimanere sbigottito di fronte a questo inclassificabile sublime! Rispetto a questo Mozart, la tua ‘Critica del Giudizio’ è pervasa in fondo dalla stessa audacia sperimentale.

Immagine di Pierre Tal Coat

TAALA. Dodicesimo quaderno, Charin.

Sei l’ospite che ci ha salvati o il nemico che ci ha seviziati? Uno psichiatra, nient’altro che uno psichiatra. E chi sono gli psichiatri? Gli scienziati dell’anima? Quelli che pretendono di spiegare quanto non è possibile neppure immaginare o ricordare? La mente è un’invenzione stupida, una strategia infantile contro il terrore. Non ti dirò niente. E, se ti parlerò, le mie parole ti inganneranno. Non illuderti di conoscere mai la nostra vera storia. Non potresti capire. Noi siamo cresciuti nel sogno. E nella presenza del vento. Anche quando le nostre notti erano senza sogni e senza vento, pensavamo alla prossima folata o alla prossima visione, incapaci di tollerare il silenzio. Taala era luminosa e immensa. Non userei altri aggettivi. Pensa a una città grande e muta, con muri di carta. Vie, soffitti, pavimenti di carta. Tutta carta piena di immagini, di macchie, di parole. Carta usata, spiegazzata. Bastava il vento, e subito si raggrinziva, si accartocciava, volava via. Fui la prima ad avvertire una forte sensazione di freddo. E un ragazzo – lo ricordo, si chiamava Ander – ci convinse a incendiare tutto. Ogni muro, ogni porta. Gli stessi tetti. Bruciare e fuggire. Solo così avremmo potuto scaldarci. Ecco il segreto di quelle montagne bruciacchiate, di quei falò neri che avete trovato nel deserto, prima di trovare noi. Rifiuti di carta: tutto quello che resta della nostra favolosa città, descritta da nomadi e imperatori come una delle meraviglie del deserto di Khash.

*

Mi spiate mentre dormo. Li vedo sempre, i vostri schermi, i vostri occhi. Li odio, maledetti… Perché girate con la telecamera tra i nostri letti? Cosa cercate tra i cuscini? Lasciatemi sola! Non so perché sono qui. Non ho nessuna malattia da cui guarire. Scopro, qui, persone che non avevo mai visto prima a Taala. Non le riconosco. Non le ho mai viste camminare nelle nostre strade. Diffidate. Osservateci attentamente. Siate cauti. Quelli che dormono tra queste lenzuola dicono cose false. Studiate bene le loro voci. Mi sembrano molto belle, regolari, intonate. Troppo belle e troppo regolari.

I nostri volti non sono intatti come dici: questa è la tua illusione. Sai come era veramente fatto il mio viso, quando non lo guardavi? Sai come i miei occhi vedevano e come la mia bocca parlava? No. E allora non giudicarmi. Se adesso vedi in me la faccia di una giovane donna, sappi che quella faccia potrebbe mentirti. È qualcosa di assurdo, quanto è accaduto. Non so neppure parlarne. È qualcosa di riferito al tempo, ma non so dire altro. Vorrei lavarmi, cambiarmi, correre lontano. Bisogna stare qui come cose. Attendere. Essere guardati. Rispondere.

*

Non puoi immaginare, e come potresti? Sai qualcosa dei misteriosi intonaci di calce che reggevano le nostre mura o della terra argillosa, essiccata con arte così sapiente da evitare l’erosione dell’acqua? Sai qualcosa del numero di fibre che rendeva così solide le nostre case? Sai qualcosa dei cavi d’acciaio degli ascensori, delle equazioni che reggevano i ponti di cristallo e i grandi specchi? Ricordi le fortificazioni di Fabhraj, il castello-cisterna di Anbor, le torri di vento di Ghir, la doppia cupola di Bam, i giardini a scacchiera di Ulder, le torri celesti per i colombi, le stanze di lana e velluto, i vasi di farina rossa, i grattacieli sotterranei e le grotte di corallo? Ricordi lo ziyadal che cingeva la moschea? Ricordi la grande maqsurah, dove il principe si inginocchiava a pregare?

*

Mancavamo di tutto, fin dall’inizio. Dal cibo quotidiano agli abiti per coprirci dal freddo. E il nemico, per beffarci, ci torturava con odori semplici, che disseminava nelle strade. Cominciò col gelsomino, poi con la mimosa. Quindi maggiorana, menta, rosmarino. Ogni odore evocava qualcosa, che non ricordavamo: ora il mare, ora la foresta, ora il cibo più saporito. Non potemmo resistere. Uscimmo all’aperto, per respirare meglio, e così fummo inermi, in loro balìa. Ma era bello, mentre si aprivano i tendoni dei carri, respirare a pieni polmoni odori così dolci.

*

Idee politiche? Le hai mai provate, quando il vento logora, trasforma, dissolve a ogni istante? Quando ti strappa le cose di mano, ti toglie le rughe dal viso, seppellisce sotto la sabbia l’amico che voleva venirti a trovare e che solo ieri, con te, faceva progetti felici in quella birreria fumosa? Il suo rumore – il boato che ti preme le tempie e non ti libera mai – ti permette di pensare un solo pensiero: come salvarti la vita. Un giorno, mentre il cielo si rannuvolava e la brezza faceva stormire un castagno, vidi delle persone guardarsi in un grande specchio, sotto l’insegna di un cinema: inorridirono e scapparono via. Erano giovani e belli, vestiti come in un giorno di festa, ma non seppero resistere a quanto avevano visto.

*

Siamo già stati saccheggiati e depredati una volta, spinti dal nemico a vagare nel deserto di Kasch, e io ho già raccontato questa storia a dei giornalisti. C’erano tante telecamere, anche allora. Solo che era un altro anno, un altro momento della mia vita, e Taala – lo ricordo bene – non si chiamava Taala.

*

Basta con gli inganni! Ridammi il mio corridoio, la mia cucina. Ridammi la spalliera del letto, con il mare appeso alla parete. Ridammi quello che avevo. Non credere a chi parla la mia stessa lingua. Qualcuno ti riempie la testa di menzogne. Riferisce emozioni, ma non le ha mai provate. Vuole metterti su false strade, deviare i tuoi pensieri. Anche questo ospedale è un miraggio.

Ma guardami bene! Ti sembro malata? Rispondimi. In realtà, non sai cosa dire. Non sai per quale strana ragione, tra tutte le persone che avete raccolto nel deserto, non ce ne sia una che dimostri cinquant’anni. Ma è proprio certo – te lo chiedo con determinazione – che le persone con cui stai parlando siano quelle che appaiono? E io, quanti anni avrei, allora? Puoi darmi una risposta precisa? Puoi portare qui uno specchio, e dirmi esattamente che cosa vedi?

*

Sì, sparivano da un giorno all’altro, gli abitanti. Io, ad esempio, odiavo un tipo zoppo, vestito di grigio. Ogni volta che lo vedevo, mi immaginavo, con sottile piacere, che non esistesse più. E, col passare dei giorni, lo vidi sempre di meno. E, quando lo vedevo, era basso e zoppicava di più; la sua pelle aveva assunto un pallore spettrale. Sembrava malato, molto malato. Arrivai, alla fine, col non vederlo più. Mi capitò lo stesso con un vecchia chiesa. Non ne sopportavo la decrepitezza. Allora chiusi gli occhi e divenne un giardino sudicio di cartacce, con ubriachi che ridevano attorno alla carogna di un cane. Scoppiai a ridere. Altre persone, intorno a me, si comportavano come se la chiesa ci fosse: si fermavano, ammiravano il portale solenne, la magnificenza delle vetrate. Per me era tutto finito: semplicemente, aveva smesso di esistere.

Ma non sempre era così facile. Potevi desiderare che sparissero, le cose, ma quelle continuavano ad esserci: in tanti, in troppi, attorno a te, desideravano che ci fossero. Sentivi i loro pensieri – pesanti, ostili. Avresti voluto strapparli dalla loro mente, perchè ti impedivano di trattare il mondo come un sogno. D’altronde, i sogni non sono mai uguali perché cambiano notte dopo notte.

*

Hai mai provato a tenere fermi i muri di una stanza? È difficile, quando il vento è troppo forte. Non impossibile, comunque. Ci si sposta da una parete all’altra. Si piantano chiodi sui tappeti. Si sposta la scrivania contro la porta. Si ammucchiano libri. Il gioco è possibile. Lo si può fare, volendo, anche con la città. Se giri attorno alle mura e vedi chiaramente il lato da cui le case cominciano a oscillare, puoi lanciare un grido: «Aiutatemi!». E qualcuno sorreggerà le mura con te.

L’altro giorno, ho fatto una scoperta bizzarra. Alcune pietre erano molto colorate e d’un tratto hanno cominciato a muoversi. Passavano per strada un vagabondo e un ragazzo. Li ho chiamati. Ci siamo messi lì, a bloccare le pietre, quando queste, per incanto, si sono dissolte. Erano farfalle colorate. Mi sono chiesto: e se ci fossero solo farfalle al posto delle pietre? Potrebbe bastare battere le mani per spaventarle e farle volar via. Allora scopriremmo che la città non aveva nessuna cinta di mura, ma solo un unico filo – una linea lunga e sinuosa, estesa per migliaia di chilometri, di cui non si vede l’inizio e non si vede la fine, formata solo da immobili ali variopinte.

*

Lo chiamavano Manner. Viveva nei punti più segreti della città. Era lui a conoscere la mappa di tutte le vie e di tutte le piazze: era lui a sapere. Una volta lo vidi, da lontano. Il suo sguardo era sdegnato, quasi intollerante. Una folla si radunò attorno a lui, silenziosa. Alcuni gli chiesero cosa accadesse ma lui non diede risposta. Era un uomo alto, aveva gli occhi chiari, i capelli annodati in una treccia scura, le braccia abbronzate. Si raccontavano storie diverse su di lui. Che fosse stato un ingegnere e avesse insegnato all’università. Che avesse avuto una lunga relazione con una schizofrenica. Che avesse partecipato a diverse lotte armate. Che fosse un profugo ungherese, di origine ebrea. Per parecchie settimane si allontanò da Taala e camminò a lungo per il deserto, fino ai confini dell’altopiano. Poi ritornò, ma non riferì a nessuno quello che aveva visto. Chi incrociò il suo sguardo cominciò a progettare la città che conosciamo. Una città nuova, per uomini che capissero. Una città consapevole delle sue eclissi. Una città di cui non essere sicuri. Una città che nessun saccheggio e nessun abbandono avrebbero potuto far morire. Ecco Taala. Manner ce lo insegnò: era un luogo da custodire sempre, con la stessa, identica tenacia di chi conserva la propria identità. Ognuno di noi doveva tollerare l’altro, per essere vivo. A Taala, chi osservava una strada o una casa aveva, talvolta, il potere di trasformarla. Se, per caso, tre uomini passavano davanti a un palazzo che non volevano vedere, quel palazzo si cancellava, o almeno non appariva più per molto tempo, e i suoi abitanti non erano più presenti. Manner non ci spiegò mai dove andassero, gli uomini e i palazzi. Scrisse che «le passioni potevano modificare il mondo» e che «non bastava toccare la materia di un muro per essere sicuri che quel muro fosse eterno». Poi aggiungeva: «Però dovete conservarle, le cose. Restate uniti. Pensate alla loro esistenza».

Un giorno Manner mi fermò. Era pallido, l’occhio stravolto, uno zaino sulle spalle. Mi farfugliò qualcosa che non capii. Poi esclamò, a bassa voce: «Non ne ho colpa, io. Dillo, agli altri. Non ne ho colpa. È andata così, ma doveva essere diverso. Oh sì, molto diverso!». Quasi gridava: «Hanno stravolto tutto! Oh Taala, mia Taala!». E bisbigliava: «Il mio sogno era puro. Era giusto». Poi mi fissò negli occhi e disse: «Salta agli occhi, non è vero? La città doveva essere festosa, affollata e moderna. La popolazione sarebbe stata giovane e felice, immune dal dolore. Ma qualcosa è andato storto. Un incidente. Un cortocircuito». Trafelato, aggiunse: «Nella piazza di Kajàk, il 9 gennaio. Mi raccomando…».

Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Taala, Greco & Greco edizioni, Milano 2002.

Immagine di Pietro Casarini

TAALA. Undicesimo quaderno, Guened.

Ora la vedi, Taala; un secondo dopo è come se non esistesse o non fosse mai esistita. Credi di scoprirne la forma, di percepirne il calore, ma è come un animale in fuga: è già scappato oltre, e sul terreno restano solo le tracce. Non sopporta definizioni, lei. E soprattutto, appena cominci a descriverla, le parole diventano troppe o troppo poche, le frantumi, le mastichi, ti si sbriciolano in bocca. Alla fine non restano che poche sillabe da pronunciare e la città è ancora tutta là – favolosa e irraggiungibile. Qualcosa di regale e di straordinario, con strade lastricate d’oro e palazzi di cristallo. Ma chissà cosa è accaduto. Siete gentili a ospitarci. Ci rimboccate le coperte, ci sfamate, ci dissetate. Ma cosa è successo? Non ricordo.

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Qualcuno che volesse fuggire da qui? Non ne so niente. E poi, perché avrebbe dovuto fuggire? Chi lo facesse non potrebbe raccontare nulla di strano, perché non c’è proprio niente da dire.

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Le cronache non lo riportano e le leggende non lo celebrano. La storia lo ha certamente dimenticato. Ma Taala è stata, per due millenni, la capitale del deserto di Khasch. Dominava l’altopiano, a tremila metri di altezza, con vie sospese tra palazzi sottili, case di cristallo, piazze circolari, giardini pensili, templi di rubini, miniere d’argento. Poi venne coperta dalla sabbia e nessuno parlò più di lei. Adesso Taala è una città nuova. Cinta da un cerchio di fortificazioni estese per decine di chilometri, ha novantanove strade, centosedici scalinate e quattordici piazze. È tutta fatta di acciaio e di vetro. Lunghi cavi ruotano in tutta la città seguendo un disegno elicoidale e le case gettano le fondamenta su quei cavi. Potrei paragonarli a delle lance o a delle onde che d’improvviso si metteranno a vibrare, coinvolgendo l’intera città in una danza sismica che tende le case e curva le strade.

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Qui non sono mai scoppiate rivolte e non si ricordano casi di infanticidio o di stupro. Le quarantasei leggi che regolano la democrazia della città non sono mai state violate. Chi ha avuto l’ardire di farlo, è stato allontanato da Taala e ora sicuramente farà razzie nel deserto, trasformato in uno dei tanti predoni che lanciano invettive contro la città perfetta. E allora perché devo essere chiuso in una corsia d’ospedale? Per quale colpa? Nessuna delle tue domande ha un senso oggettivo, né i vostri esami si discostano da una rozza verifica empirica. Non eravamo disidratati o moribondi quando siamo stati ritrovati nel deserto: questo ti sconcerta. Ma le risposte razionali sono così evidenti: buona tolleranza al clima, sistema immunitario funzionante, adattabilità. Cosa ne sai del nostro patrimonio biologico? Nulla. La nostra storia e la nostra mappa genetica sono un mistero per voi, come per tutte le razze del pianeta. Un esempio fra tutti: parliamo correntemente la vostra lingua. Ma lo faremmo anche se ne parlaste un’altra. Noi riusciamo a imparare l’alfabeto e le regole di ogni nuova lingua in un tempo che, per le vostre capacità di apprendimento, è semplicemente incredibile. Ma siamo noi che dovremmo stupirci della vostra ignoranza, e non voi della nostra intelligenza.

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Devi classificarmi, lo so. E il mio silenzio ti disturba. Ma parlare, nelle circostanze in cui mi trovo, è umiliante, perché non sono libero. Sono oggetto di esperimenti, caso clinico, cavia. Non ho nulla contro di te: tu cerchi di fare il tuo lavoro. Ma ascòltami. Io vivevo in una città incantata. Era una vera e propria oasi. Ricordo la pace di certi pomeriggi, l’aria mite e il cielo azzurro, la finestra spalancata sulle colline profumate. E quel senso di salute, di benessere, di pazienza. Mi sembrava di essere al centro della mia vita. Tutto risuonava in modo esatto. E le cose erano belle, colorate. Non c’era niente di più sereno che abitare a Taala. La curva delle strade, la geometria delle case, l’assenza di vento: era splendido. Non capisco come qualcuno possa ricordare cose diverse. Avrei altri mille esempi: ragazzi felici, scuole spaziose, parchi, giostre, feste, concerti. Mi sembra persino strano parlarne: Taala è stata l’esperienza decisiva della mia vita. Ed essere qui, ora, a doverla difendere dall’interpretazione assurda di alcuni estranei, a cercare addirittura di persuaderli che Taala era una vera città e non un mio delirio personale, mi sembra penoso. Dovremmo entrambi prenderci un aperitivo nel centro di Taala, sotto il grande orologio di vetro, e chiacchierare di cose piacevoli. Forse mi dirai: «Ma io non ho visto nessuna città». Allora io ti risponderò: «Perché, quando non ti vedi dormire, significa che non esisti?».

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Ricordo solo che, dove abitavo io, c’era una bellissima distesa di sabbia, un grande lago azzurro e un cielo nitido, accecante. I leopardi guardavano fissi le gazzelle. Ma quelle non fuggivano e quelli non le inseguivano. Si spiavano con attenzione. Le praterie erano colme solo d’erba. Il silenzio non era mai opprimente. E, quando il sole tramontava, la sabbia mandava un profumo piacevole, d’acqua appena sgorgata, che aveva il potere di ipnotizzarci. Qualche viaggiatore – lo rammento bene – per esprimere inesprimibili sensazioni bisbigliava: «Taala».

Oggi bisbiglio i nomi dei miei farmaci. Felison. Flunox. Sonar. Nottem. È l’unica felicità che mi rimane. Sono stato strappato dal luogo che amo. Ripetendo questi nomi e ingoiando le pastiglie, talvolta affondo nel sonno. Taala, allora, ritorna intatta – un paradiso. Un cerchio perfetto. Ricordo quello che amavo: le fontane zampillanti, il soffitto di rubini, le pareti di cristallo. E noi che, giorno dopo giorno, diventavamo più belli e leggeri, vivendo giorno dopo giorno con la stessa, rasserenante dolcezza. Anche un incidente mortale sofferto da un essere amato ci sembrava solo uno dei modi in cui si esprimeva il destino. Non ci sentivamo infelici. Provavamo un sentimento profondo e definitivo: che ogni rabbia fosse futile, ogni rivolta inutile. Ci stavamo abituando alla bellezza della rassegnazione.

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Per farti capire meglio la mappa della città, immagina delle strade mobili e curve come nastri. I nastri si infilano tra pareti d’acciaio, e sono percorsi da macchine affusolate, simili ad elicotteri. Al di sopra dei nastri-strade palloni aerostatici galleggiano, sostenendo schermi piccoli e grandi, dove scorrono immagini e notizie che arrivano da tutti i paesi, trasmesse in tutte le lingue ad altezze diverse della città. I palloni, sorretti da fili invisibili, se ne stanno sospesi tra i tetti dei grattacieli e qualche volta, sospinti dal vento, arrivano a incunearsi nelle strade più piccole. Può capitare che, uscendo di strada, tu veda, davanti agli occhi, un volto enorme e sorridente, una donna che nuota succhiando il gelato, un orso polare, una calza trasparente, delle bolle di champagne, un bicchiere lanciato nel vuoto. Intanto, alle pareti dei palazzi, salgono e scendono ascensori mobili formando delle scie elicoidali. Dal basso della città e da tutti gli altri quartieri, vengono spesso, a grandi folate, nuvole di fumo. Il sole resta nel cielo molto a lungo, e le giornate, sotto un cielo caliginoso, sono interminabili. Talvolta, camminando, mi imbattevo in grandi strutture di metallo, come lamine piatte, solcate da ascensori che ricordano nidi di insetti. La sensazione che quelle strutture, fitte di uffici, negozi, gallerie, supermarket, fossero sottilissime, era impressionante: e la percezione di uno spessore quasi inesistente si associava alla certezza che fossero collegate a cavi o cinghie invisibili. Se cavi e cinghie avessero preso a oscillare, mossi dal vento, non sarebbe stato sorprendente vedere quelle strutture muoversi, galleggiare, oscillare, e approdare in altri luoghi, come grandi cespugli.

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Talvolta, a Taala, si fantasticava di un possibile assedio, solo per provare a noi stessi che neppure la fine della città avrebbe potuto renderci infelici. Ma perché ci sia un assedio ci vogliono luoghi da assediare, città chiuse da mura, porte da varcare, ponti da minare. Taala non è mai stata niente di tutto questo. Chi dice che fosse una città minacciata o un deserto di sabbia o un inferno metropolitano, è un bugiardo. Magari parlerà di apparizioni e di mostri. Ma mostri io non ne ho mai visti. C’erano scale, botole, corridoi, e io, diversi anni fa, vivevo in una stanza buia. Qualcuno ti riferirà – se non l’ha già fatto – di uomini-albero, di bambini a due teste o a tre mani. Ma si tratta di fantasie perverse e trascurabili, di assurde menzogne. Ciò che sentivo, dietro tutte le pareti, in tutti gli angoli della casa, era la sensazione che brulicasse sempre qualcosa di nuovo e di bello, portato da una brezza profumata. Un uomo alto, che passeggiava spesso nei giardini di Taala, mi salutava, ogni giorno, con un cenno solidale e affettuoso.

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Perché non posso tornare laggiù? Cosa mi trattiene qui? Per quanto tempo dovrò essere giudicato un folle che racconta le sue visioni? Non sono io il responsabile, se i vostri occhi non hanno saputo vedere. Bastava spingere lo sguardo appena più in là e l’avreste vista. La perfetta Taala, abitata da funzionari onesti e cittadini democratici. Un luogo ordinato, tranquillo, con leggi giuste e costumi civili. Almeno, prima che arrivaste voi. Prima che noi pensassimo il vostro arrivo. Certo, in tutte le cronache si riporterà la verità ufficiale: voi ci avete salvati. E magari, in qualche archivio telematico, conserverete la memoria dei sopravvissuti, il catalogo di tutti i nomi e il peso di tutti i corpi. Ma i selvaggi siete voi. Noi non avevamo bisogno del vostro intervento. Eravamo felici tra quelle mura di vetro. Camminavamo per vie regolari e ci era noto il senso della pietà. Avremmo scoperto facilmente le complessità della matematica, il disordine degli astri, la potenza dei numeri, le strategie della scrittura. Avremmo vissuto la pienezza della follia e la gioia dei rituali, e la morte ci avrebbe stupiti quanto la vita. Ma non sapremo mai quello che avremmo vissuto. Con sciocca intempestività ci avete interrotti nel pieno delle forze, nel mezzo del nostro lavoro. Siete arrivati. Ora prendiamo pastiglie, soffriamo d’insonnia, sembriamo pazzi, come tutti gli sconfitti.

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Sì, abbiamo rischiato di perdere la ragione, quando qualcuno ha cominciato a dubitare. Da allora abbiamo preso l’abitudine di sognare cose malinconiche – la fine della città, la scomparsa dei suoi abitanti, il deserto. Ed è quello che i soldati hanno visto, catturandoci: questo triste sogno. Ma niente di quello che hanno visto è vero. Non si sono accorti che, a pochi metri dai loro occhi, cristallina e simmetrica, regnava la nostra vera città.

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Taala era sempre troppo bella. Le case più alte, col soffiare del vento, vibravano con suoni acuti, come violini; quelle più basse con suoni gravi, come voci di contralto. Le porte continuavano ad aprirsi sui corridoi e le finestre a spalancarsi sui terrazzi. Niente era delimitato, tutto si specchiava in tutto. Se guardavi l’angolo di un muro, ecco che smetteva di essere un angolo ma diventava un posto pieno d’aria, proteso verso l’orizzonte. Le cose più chiuse sembravano dilagare ovunque, disperdersi come musica. Le finestre si polverizzavano. I soffitti non c’erano più. Una leggerezza straordinaria. Ma qualcuno ci accusava di parlare con troppa disinvoltura di quella leggerezza. Le aperture di Taala erano le crepe delle bombe – dicevano – e sarebbe giunta l’ora che noi ce ne accorgessimo, finalmente, e ne denunciassimo l’orrore. Ma che colpa avevamo, noi, se non provavamo quel sentimento di orrore? Eravamo felici, e basta. Ma qualcuno volle esserlo più degli altri: cominciò a parlare della sua gioia, a descriverla nei minimi dettagli. Qualcosa di impercettibile e di sgradevole, che non ci aspettavamo. Tutte quelle inappuntabili, scrupolose, noiosissime descrizioni ci fecero provare un senso di sazietà. Alla fine, furono in molti che lasciarono Taala e il suo progetto. E ricordarono solo il deserto, le strade strette, la nebbia, la sabbia. E la sensazione che il vento potesse tornare.

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Avevamo costruito un mondo di numeri e i numeri erano precisi e le architetture che corrispondevano a quei numeri perfette: Taala era il risultato di quelle formule. Finché un giorno, per chissà quale caso del destino, una corda da bucato si ruppe, cadde un lenzuolo, un uomo si sentì soffocare, agitò forsennatamente le braccia, scoppiando in lacrime. Da allora, la certezza che sareste venuti fu inevitabile. Era solo una questione di giorni. Qualcuno disse: «È il caso. Tutto, in qualche modo, deve finire». Ma lo disse senza serenità, con una certa rabbia silenziosa. Attaccandoci e depredandoci, avete visto tutti come vivevamo, come erano soffici le nostre strade. Tappeti ovunque. Taala era questo. Una città-tappeto, fatta di lana e di seta. Non saprei dire quando è nata questa usanza: ma sicuramente qui, davanti alle porte, alle case, ai negozi, ci sono solo morbidi e splendidi tappeti che smorzano il suono dei passi. Altri tappeti sono dentro le case. Altri sono appesi alle finestre. Rossi, blu, oppure bianchi. Il dettaglio, in fondo, vi ha agevolato: siete potuti irrompere in silenzio, senza che ci accorgessimo di nulla. Ci avete preso di sorpresa, nel silenzio del sonno. Avete avuto fortuna: se aveste atteso qualche giorno, magari, invece di queste case ci sarebbe stato un obitorio, un mercato, oppure un magazzino di utensili. Siete stati tempestivi nell’agire, ma io non lo sarò nel risponderti.

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È inutile nasconderlo. Proprio ora, poi, che non c’è più niente da fare. Avevamo un progetto, ma mi è impossibile descriverlo nei dettagli: sono legato a un patto che ho giurato di non tradire mai. So che i lavori si stavano svolgendo nel migliore dei modi. Sotto i miei occhi nascevano architetture di acciaio e di vetro, stazioni e aeroporti, parchi, cinema, grattacieli. Qualcosa di bello e di utile. Uffici a orario continuato. Musei aperti. Feste. Concerti. E ora sono qui, come un alienato, a rispondere al tuo povero tentativo di classificare quello che è stato il mio universo. Se proprio vuoi tentare di capirlo, immagina un numero infinito di fotografie, capaci di collezionare in modo plausibile l’intera rappresentazione di un mondo. Immagina un film interminabile.

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Non comprendo le tue domande. Soprattutto non capisco cosa vorresti capire. Facevo una passeggiata nel deserto, oltre Taala, prima di tornare nel mio palazzo, quando sono stato arrestato, insieme ad altre persone. E adesso sono ricoverato. Sono un paziente in osservazione, come dite voi. La realtà è che sono chiuso in una corsia psichiatrica. E questo significa una cosa sola: tu pensi che Taala sia un delirio, o al massimo un miraggio. Al contrario, Taala è una città moderna, una metropoli dove si studia come guarire i tumori e le malattie, come conservare intatta la vita. E, al centro della città, una splendida fontana continua a zampillare. È bella e geometrica, Taala. Vuoi altri aggettivi? Armonica, mite, rilassante, luminosa. È un luogo che ricordo con gioia. I tuoi interrogatori sulla nostra razza e sui nostri pensieri sono solo ridicoli. Cosa pretendi da me? Cosa vuoi che dica, per obbedirti, perché tu mi lasci libero?

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Era sempre circondata dal deserto. Ma quanto era difficile vederlo! C’erano giorni in cui sembrava che ci fossero solo strade, poi le strade sparivano, e allora affiorava. Dapprima un biancore lontano, uno scintillìo indistinto. Poi vedevo piante aguzze nascere dal bordo dei marciapiedi, come rampicanti. Uccelli dal becco a rostro trivellavano la sabbia per trovare acqua. Altri si caricavano sulle ali la sabbia del deserto e poi si alzavano in volo. Ricordo insetti piccolissimi e luminosi, che guizzavano sulle rocce. Ricordo, sulla pietra dei muri, grandi pesci fossili.

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Betulle. Erano tutte betulle. Una macchia bianchissima. Qualcosa di splendido, di felice, di magico. E perché ora mi trovo qui? Dove sono finiti quegli alberi? Dove sono andate le meravigliose betulle che circondavano la città come una siepe bianca?

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Al centro c’era una chiesa, molto grande, con un campanile bianco. Dalla chiesa si irradiavano novantanove strade, curve come i raggi di una stella. I palazzi, interamente coperti di specchi, scintillavano. Le strade si moltiplicavano, ma sempre in perfetta armonia. I palazzi erano costruiti in una lega di metallo che sembrava l’intreccio di una rete: quella rete aveva proprietà riflettenti, e ogni palazzo duplicava il precedente e il successivo attraverso piccole sfaccettature di cristallo, che emanavano aloni dorati. Tubi al neon sospesi sulle terrazze proiettavano luci verdi, con immagini di foreste. Cupole di vetro smerigliato ricoprivano vere e proprie gallerie. In ogni galleria c’erano gioiellerie, studi legali e finanziari, con schermi accesi in ogni punto della volta, a riferire le oscillazioni del denaro e le mutazioni del clima. In ogni galleria c’era un giardino, con diversi bambini che giocavano. Ascensori e scale mobili collegavano un ufficio all’altro. Non c’erano più porte ma rettangoli trasparenti, che si aprivano o si chiudevano, rivelando scrivanie, telefoni, segretarie, impiegati. I rumori erano brusii appena percettibili. Ci si sentiva liberi di passeggiare. Talvolta si usciva dai palazzi e si vedeva, oltre il giro delle mura. qualcosa. Poteva essere una lamina che scintillava: una striscia azzurra, sfavillante, di un bagliore bianchissimo, che sembrava metallo fuso. Talvolta pensavo fosse solo un riflesso. Comunque, non c’erano differenze fra riflesso e realtà. A Taala, se andavi d’accordo con un amico e camminavi con lui, strada per strada, tutto era giusto e bello: la città esisteva solo per te, armoniosa, simultanea, felice.

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Ricordo un uomo. Vagava spesso per le vie della città: era un balordo, un mentecatto. Si diceva che, negli anni della giovinezza, avesse abitato in Europa. Che si fosse drogato e avesse fatto saltare banche ed aerei. Un terrorista intelligente, un perfido assassino. Ma non c’erano prove contro di lui. A Taala camminava avanti e indietro per le strade, in pieno giorno, con uno sguardo dolente e sconsolato, colmo di disprezzo. Quegli occhi erano atroci: disturbavano l’equilibrio della città. Perché non aggrediva nessuno? Perché non rubava? Lo avrei denunciato, la polizia sarebbe arrivata, lo avrebbero arrestato e portato via, quello sciocco balordo! Che sollievo!

*Il testo è tratto da: Marco Ercolani, Taala, Greco & Greco edizioni, Milano 2002.

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