La memoria del futuro. Ladislav Chodasevic, Nina Berberova
Parigi, settembre 1924.
Sono partita.
A me non piace quello che piace a te, Ladislav. Detesto le tue necropoli e i tuoi ricordi. Io ho voglia di cose vive, oggi. Di tombe ne avremo a sufficienza dopo. Scarsi gli anni a venire, come sai. E dunque fammi partire, vivere, viaggiare. Non posso restare in quella stanza d’ombre con te. Celebra tu il passato, e le sue angosce. Sii il poeta dei lunghi ricordi. A me lasciami correre. Un titolo continua a balenarmi dentro: Il corsivo è mio. Buon titolo: credo che lo userò per il mio diario. Già, scrivo un diario, ma più che altro è un carnet di viaggi, di incontri, di amori. Se non fossi una scrittrice, che simpatica cortigiana sarei stata! Ma lascerò il segno anche con le parole.
Vivrò. Ogni segno è vita. Avanti, avanti, fino a cadere.
Tu non ami il sesso. Sei sempre stanco, un po’ freddo. Per me, invece, per me Nina Berberova la felicità sessuale, unita all’amore vero, è la perfetta bellezza del cosmo, la matrice della creazione, la sola strada per la felicità. Ma io, come sai, non sono normale. Preferisco morire piuttosto che sentir spegnere in me questa fiamma che da sempre mi consuma. Detesto la memoria del futuro, perché voglio costruirlo giorno per giorno e scrivere delle cose vive che vivrò, non dei miei fossili rimpianti di scrittrice. Molti enigmi si risolvono con il cuore, e non con l’istinto. Ne riparleremo.
Ma adesso ti lascio. Fossimo sulla luna, comunicheremmo meglio. Parto per un luogo, in Italia. C’è una via che si chiama Rocca dell’Abisso. Un luogo ventoso, senza numero di strada. Una bella avventura passarci. Ma insieme a un uomo vero. Vorrei, adesso, la lingua, il membro, le mani di un amante meraviglioso, e sapere, con lui, dentro di lui, che ci saranno ancora nuove e incredibili gioie durante la vita. A me accadono sempre nuove cose, perché io sono sempre in cammino. Fossi accanto a me e non nelle tue piccole necropoli ne vedresti di tutti i colori, piccolo Ladislav. Una vera aurora boreale.
Ciao, tua Nina
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Berlino, dicembre 1924
Sono partito anch’io, Nina. Sono andato a Berlino.
Berlino mi fa tremare, Nina. Altro che aurore boreali. Su ogni muro ci sono sigle sconosciute, oscuri richiami. Mi tocca, per salvarmi dalla vita, camminare, giorno dopo giorno, come se il mio corpo fosse il muro nel quale nascondermi, come se la mia voce fosse qualcosa di perverso che non può uscire dalla bocca finché, dalla sabbia, quel bambino continua a guardarmi come una pietra sopravvissuta a eroi, regni, odissee. Ho paura, ma ho bisogno della mia paura. Mi fascia come un guanto fascia la mano, come la neve ricopre l’intera pianura non lasciando spazio al verde dell’erba, e tutto è bianco, candido, abbagliante, come se il pianeta non fosse mai esistito al di là della crosta di ghiaccio in cui è sepolto, della neve immobile nella quale io passo e respiro pensando a te, Nina, e con la punta del bastone ne spezzo il candore, traccio orme di animali favolosi, che si mescolano alle mie…
A ciò che gli uomini definiscono armonia, Nina, preferisco il brivido della paura e il sudore della febbre: la testa recisa sul binario quattordici, il coltello sotto il capezzolo della dolce Mariechen, il rumore della massa d’acqua sul corpo annegato, la maschera mortale di Puskin, il triste mattino di tormenta dell’anno millenovecentoquindici, la lingua che trattiene il dissolversi delle cose, lo scaffale fluido, i libri disfatti, la paglia fra i denti del rastrello, il remo smarrito nei campi, l’amico logorato dai viaggi a Parigi. A matrimoni felici e sofferenze serene preferisco la mia stanza dove, ritmicamente, i muri cominciano a girare, l’aria mi porge la penna pesante, gravida di suoni, e vedo il mio alter ego sprofondato nel divano, una sigaretta fra le labbra, le gambe accavallate, che mi guarda con occhi non di carne e mi suggerisce di osservare se la montagna è immobile, se il cielo esiste ancora o se gli alberi non si sono polverizzati nel buio.
Il tempo, in assenza di parole, è inumano. La scrittura è solo un atto di pietà che rallenta la caduta delle ore e consente respiri più ampi, salvandoci dalla certezza che siamo vite in rovina, precipitate nel buio. Nell’oasi deserta, quando divampa l’incendio, non soffriamo l’angoscia delle grida, non sentiamo i tetti crollare, non guardiamo gli uomini fuggire come ombre nel fumo. La fiamma svetta sopra la sabbia, con lingue agili e abbaglianti. Dritta e pura, si perde nell’aria. Volatilizzato in cenere, il fuoco si estingue negli spazi del cielo. Ma non è così, Nina, quando scriviamo. Allora è forma che abita dentro di noi, fiamma fredda, immobile mercurio. La pagina conserva i segni dell’incendio come una maschera di gesso l’impronta del volto vivente. Ma sotto la maschera scrive Puskin, canta Blok, e la speranza, per loro come per me, è la memoria del futuro…
Tuo Ladislav
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Ladislav Chodasevic nasce a Mosca nel 1886. I suoi primi volumi di poesie sono pubblicati in Russia, dal 1908 al 1922:Giovinezza, La casetta felice, Per la via del grano, La pesante lira. I versi da lui scritti all’estero sono riassunti col titolo La notte europea, nel 1927. Tra il 1929 e il 1938 si dedica alla critica e alle rievocazioni letterarie, e scrive il volume di saggi Necropoli.
Nina Berberova, autrice de Il giunco mormorante e dell’autobiografia Il corsivo è mio, è negli anni Venti la moglie di Chodasevic, prima di emigrare definitivamente dalla Russia.
*I testi sono tratti da: Marco Ercolani e Lucetta Frisa, Furto d’anima. 40 lettere reali e immaginarie tra uomini e donne nella storia e nell’arte , Greco & Greco, Milano 2018.
Alcuni poeti infrangono gli schemi e finalmente dicono la verità: per loro non esiste la carriera privata dello scrittore, l’elenco dei libri stampati e premiati, la classifica degli onori, ma la segreta partecipazione alla moltitudine laboriosa e assurda di chi, scrivendo, ha messo fra parentesi il mondo e da scrittore vero fugge i confini del linguaggio per inventare altri limiti. Hugo von Hofmannsthal scrive: «le parole non sono di questo mondo», e afferma: «Mi sembra che l’esistenza dei libri abbia questo fine, di aiutarci a prendere coscienza della propria esistenza e in questo modo a goderne. […] Nemmeno a me appare in modo completamente distinto l’uomo che si nasconde dietro al libro: solo di tanto in tanto intuisco il suo essere. Quasi senza sosta vibrano però in me, in ogni esperienza da me vissuta, le esperienze fittizie che provengono dai libri, così come gli armonici, quando una corda vibra, risuonano assieme alla nota principale, e allora sono grato ai libri così come ai miei amici per avere arricchito a dismisura la mia esistenza». Chi vorrà parlare di questi poeti, nel momento della loro scomparsa, ricorderà una composizione di Johann Sebastian Bach, Capriccio in lontananza del fratello dilettissimo, che nel 1704 il musicista dedicò al fratello, l’oboista Jakob. Nell’incantesimo di questo ricordo, ironico e stupito, scriverà le sue pagine come un “capriccio” personale dedicato all’amico lontano, “fratello dilettissimo”.
All’origine, la parola è poco meno di un balbettìo, è qualcosa che interrompe un silenzio, testimoniando una presenza. Poi, in un tempo successivo, ciò che era incerto balbettìo, fragile grido, si riorganizza. Le sillabe incoerenti diventano parole. La parola si articola in frasi, diventa sicura di sé, del suo potere di incantamento. Nasce una lingua compatta, felice della sua pienezza, quasi superba. Linguaggio da celebrare. Ma nel suo intimo è e resta Sorgente che irradia luce: non a caso, nella formazione mitica del mondo, prima viene il suono, poi il suono decade e si trasforma in luce, infine la luce si fa materia, secondo le teorie mitico‒antropologiche di Michel Schneider sul significato della musica. Tanto Mallarmé quanto Celan ce lo insegneranno: la parola poetica, antitesi tragica a ogni forma di pienezza, è “buio senza fondo”. Canto, sì, ma che sgretola la compattezza del canto, lo dissolve in pulviscolo di prospettive. Il destino del poeta torna ad affidarsi a quella sillaba uscita dal silenzio. La parola è stata canto. Ha conosciuto quella natura di canto, quella felice onnipotenza. Ma è tornata, da tempo, a essere fragile grido, traccia di dolore. Non sorprende che i poeti, nella loro vita, traversino queste fasi alternanti del processo poetico. La Parole archetipale di Char non è certo sacrale venerazione del l’archetipo poetico ma il personale “ordine insorto” del poeta verso quello stesso archetipo. La sua celebre sentenza: «dì ciò che il fuoco esita a dire, e muori d’averlo detto per tutti» trova la sua eco speculare nell’altra: «Il giorno nutre, la notte affina la parte nutrita». La poesia deve innalzarsi (essere “sublime”, se condo l’etimologia della parola, sub-limen, affiorare dal basso, di sbieco), andare oltre di sé. Come scrive Yves Bonnefoy: “L’uccello varca il canto dell’uccello ed evade”. L’enigma della poesia è essere “fuori di sé” ma costruire le forme di questa “evasione” con scrupolosa esattezza. La poesia è sperimentazione dell’impossibilità della parola, in quanto parola, di arrivare al suo oggetto, di descriverlo: è stare, ai margini dell’afasia, la lingua mozzata davanti a qualcosa che ammutolisce il linguaggio e non consente altro che uno stupor da reinventare con le parole: essere nell’illimitato e fondare limiti nuovi al linguaggio che ne descrive il dissolversi. «Il senso troppo preciso cancella la vaga letteratura» – sostiene Mallarmé, che non a caso si era prefisso di sabotare il linguaggio. Un poeta contemporaneo, che voterà se stesso a una tragica fine, Lorenzo Pittaluga, osserva che la poesia è «progetto di veglia / con sogno e manovra». In effetti la veglia è un progetto, qualcosa che nasce dall’informe, ma questo progetto si sostanzia di due cose: il sogno (l’irrazionale) e la manovra (il controllo dell’irrazionale), fusi insieme. Luce e buio. Il silenzio è l’approdo a cui tende la parola. Ma non può essere il silenzio dell’inizio: deve essere il silenzio dell’arrivo. Il proprio silenzio, quello del poeta, determinato dalle sue – e di nessun altro – parole. Nessun silenzio è innocente. Nessuna armonia è possibile. Bisogna trovare, con il pro prio linguaggio, il proprio silenzio. e, mentre lo si trova, vivere l’esperienza di uno shock, di un allarme, di uno stupore sempre nuovi, perché la poesia è linguaggio ammutolito, meraviglia dell’impensato, magia fresca del dire, stregoneria del non‒detto. Celan scrive: «dovetti dunque anche dedurre che su quanto lotta da tempo immemorabile per trovare espressione si è deposta la cenere di significati antichi, ormai morti, e altra ancora! In che modo allora il nuovo dovrebbe scaturire con la sua purezza? Ben vengano, dai più remoti distretti dello spirito, parole e immagini e gesti, velati come nel sogno e in sogno svelati». e Jabès aggiunge, parlando del poeta di Czernowitz: «Celan ha quasi inventato una nuova lingua tedesca perché ha messo insieme delle parole, come se le parole potessero in quel momento salvarlo. […] Ha voluto fare l’impossibile con il linguaggio, ma questo impossibile non significava per lui solo desiderio di dire, ma anzi desiderio di tacere».
In sintesi, la poesia, mentre raggiunge con forme diverse, la sua natura espressiva, di frattura potente nella sintassi del discorso e nel suono del linguaggio; si scopre porosa, lacunosa, smossa da sussulti. ogni arte autentica ha qualcosa di elementare, di atroce, di irriducibile alla logica del dire. Poi, dopo aver traversato il sogno e la notte, dopo essere stata a un passo dall’afasia, riprende a essere logica ma come canto nudo, breve, sempre all’inizio, che è anche approdo, di sé. Per Novalis «La poesia è il reale veramente asso luto», e contemporaneamente: «Il poeta ordina, raduna, sceglie, dispone». realtà totale: tutto ciò che potrebbe essere reale, che lo è stato o lo diventerà, e nello stesso tempo capacità di filtrare questa percezione in forme. Se le parole hanno parlato a lungo, prima di arrivare a noi, e arrivano a noi non coniate, piene di silenzi e di suoni, il compito del poeta è ri‒coniarle, per il tempo che durerà la sua opera. Scrive Odisseus Elitis: «La poesia è una fonte d’innocenza colma di risorse rivoluzionarie». Innocenza e rivoluzione: un ossimoro felice, un’architettura nel disordine. E cos’è, questa architettura, se non la necessità di dare forma consapevole, da poeti, all’esperienza del grido? Lo confermano le parole inconsolate di Hölderlin, non ancora definitivamente folle, qualche mese prima di perdere la ragione, essere rinchiuso nella torre di Tubinga vegliato dal falegname Zimmer, e comporre tranquille quartine sui paesaggi e sulle stagioni, libero dalla breccia che lui stesso aveva contribuito ad aprire nella pienezza del linguaggio: aperte le finestre del cielo e lasciato libero lo spirito della notte assalitore del cielo, che ha la nostra terra sedotto, con molte lingue impoetabili, e rotolato le macerie fino a quest’ora. La poesia, sfondando “buchi insospettabili” nelle forme della voce, non può che rientrare docilmente nel regno della notte, nei riti del sonno, a “tirare il fiato”, a strappi, quel “fiato” che prima era canto ricco di versi ed ora è vuoto pieno di silenzi; a tirarlo giù come un peso, sul filo sottile della tragedia e della catastrofe, personale e linguistica, a occhi chiusi, senza vedere, con i piedi legati, senza camminare. Ancora Hölderlin:
E ciò che tu hai
Tirare il fiato.
Chi infatti l’ha
Innalzato alla luce
Lo ritrova nel sonno,
Giacché dove gli occhi son chiusi
E i piedi legati,
Là tu lo troverai,
Giacché dove riconosci….
Atonale silenzio che avrebbe generato, quasi vent’anni dopo, il leopardiano Coro dei morti di Federico Ruysch:
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell’alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n’avanza
DDel viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Ancora Leopardi ci rammenta, nello Zibaldone (26 luglio 1820): «Notate che nei pazzi i più malinconici e disperati, è naturalissimo e frequente un riso stupido e vuoto, che non viene da più lontano che dalle labbra. Vi prenderanno per la mano con guardatura profondissima, e nel lasciarvi vi diranno addio con un sorriso che parrà più disperato e più pazzo della stessa disperazione e pazzia». dalla prosa dello Zibaldone affiora sempre un qualche imminente pericolo. La sintassi non mostra niente di classico, il fraseggio si sviluppa per frasi appese, scandite da virgole, archi di frasi con ritorni all’indietro, ripetizioni avvolgenti, in un andamento aperto che spesso si perde in un “eccetera”. Leopardi non “mette in prosa” blocchi di pensiero già pronti, insegue idee che si sviluppano con e nel flusso delle parole; produce una mobilità di scrittura che può espandersi in ogni direzione, inseguendo la sorpresa del dire qualcosa che fino ad allora non pensava. La linea della prosa non è retta: è erratica e frammentaria, mobile e sospesa, come un pensiero sempre interrogante e incompiuto, del tutto privo di protezione. La mancanza di protezione è il pericolo perfetto di questa prosa; ogni frammento dissemina parole per ricordare che il cammino si sta svolgendo all’aperto. La nostra letteratura non possiede un altro esempio del genere, con il fraseggio che scivola a ogni pagina tra diversi punti di un orizzonte non definito. A ogni pagina si passa da un tema all’altro, da un punto teoretico all’altro, senza una visione riassunta in una teoria conclusa. Si va avanti per onde di pensiero, aperture, sequenze, richiami musicali. La visione di Leopardi non prescrive limiti: invita all’erranza, allo sperdimento. Non si può leggere lo Zibaldone sperando di ricavarne una teoria; si può solo trovarvi il senso di un cammino che si sta svolgendo all’aperto, con lontananze e riflessi che possono attrarre lo sguardo dell’osservatore. Sono i poli dell’illimitato e del finito, tra cui si situa ogni visione del sensibile non bloccata da astrazioni. La linea della prosa leopardiana si muove seguendo i richiami delle immagini che affiorano, gli stati emotivi del pensiero. ogni citazione dallo Zibaldone corre il rischio della vaghezza, è un frammento estraneo a ogni sistema. Lo scrittore deve essere spericolato, privo di steccati, mosso da attrazioni, umori, estri, erudizioni, camminamenti, riflessioni da flâneur. Quello che conta alla fine non sono le mete a cui arrivare, ma il continuo transitare attraverso stati emotivi, gioie, dolori, umori che insorgono: l’anima di questa scrittura è un modo di scrivere non ancora catturato dalle “rappresentazioni del reale” o dalle “categorie della mente”. Le frasi pensate, il pensiero confezionato, hanno perso il ricordo di questa mobilità nervosa delle parole, determinante in Leopardi come nucleo della sua “filosofia non filosofia”, e che pone in primo piano gli stati di sensibilità, le inclinazioni del pensiero, gli ànsiti, i desideri. Lo Zibaldone è un diario “affetto” dalle parole. Come quando “si è affetti da una malattia” così si resta affetti dalle parole, e i pensieri diventano onde, desideri della visione, allucinazioni percettive, idiosincrasie. La “ultrafilosofia” leopardiana non avvolge le emozioni con i riflessi psicologici dell’interiorità, ma le intende come effetti dei sensi che sfuggono al volere. Nessun altro pensatore richiama con tanta sicurezza questa germi nazione naturale del pensiero che permette di uscire dalla triste ragionevolezza e dalla noia uniforme delle filosofie analitiche e delle antropologie culturali: il linguaggio della prosa è il vettore fluido e ideale per rappresentare il ritmo di questa ondulazione, indicibile reso dicibile senza l’andare a capo della poesia, flusso emotivo espresso da uno strumento più duttile e meno assoluto delle nitide epigrafi dei versi. Non “prosa poetica” ma “anima” della prosa, lunare fantasticheria, musica-improvvisazione, che tende sì a diventare frase poetica ma senza completare mai la metamorfosi, che resta sospesa in un lungo e inconcluso journal. Hölderlin, il tragico poeta degli Inni, ha interrotto il suo rapporto con la bellezza che lo avrebbe sprofondato nel caos.
Ma inevitabile il lutto li colse quando
si fece sera.
Una parola che metta il poeta a contatto della notte, dell’“aorgico”, di una natura sottratta al potere dell’uomo, sgretola la parola stessa, rende folle il poeta e folle la poesia. Nella parola si apre un varco, e niente è più come prima. La poesia esiste non perché sa trovare la bellezza del ritmo poetico nella lingua ma in quanto esperienza dell’indicibile, esperienza che nasce da Parmenide, da Lucrezio, dagli Oracoli Caldaici. Il luogo del poeta, secondo Benjamin, è il luogo dell’origine, ma non all’interno di un mito favoloso, di un archetipo di purezza, bensì dentro un consapevole ritorno all’origine, a quella “spoliazione” originaria che l’uomo avverte in sé, balbettando di fronte all’irruzione di ciò che lo fa ammutolire. Scrive Hölderlin:
«Non so come dirlo: diventiamo veri quando siamo sollevati da noi, presi alla sprovvista, ombre senza paura… Un “sentirci rapiti” da noi stessi, come il famoso sollevarsi per i capelli, un’impresa più che un dono… tu, quasi profeticamente, annunci la tragica bellezza della mente come l’unica patria possibile – lasci intendere si possa essere una comunità (due, più di due…) che cerca fino all’osso il linguaggio che ci faccia diventare un’esplosione di verità. È così?».
Alla domanda del poeta devo rispondere: sì. Dobbiamo restare “ombre senza paura”, mai collocate in un “posto fisso”, cercando “Il linguaggio che ci faccia diventare un’esplosione di verità”. e, dopo quell’esplosione, continuare a giocare, con il foglio bianco, nelle ore che ci sono ancora concesse. Si parla spesso della pagina bianca come del luogo dove potrebbero apparire le parole, dettate da ingegno e volontà, dello scrittore. Per il poeta è il contrario: scrive, nello schermo del foglio, come un pittore/scrittore che addensa i segni bianchi dell’alfabeto nel bianco tessuto della tela, avendo ormai dimenticato quale sia il primo, esatto progetto. Leggere le sue pagine è leggere pagine che la scrittura renderà ancora più bianche, qualcosa che dovrà pur accecarci, splendendo senza significare. Qualcosa che reinizia sempre. Un ri-cominciare, disperato dal non “poter finire”. Immerso dentro un arrivo senza fine, il poeta parte: bisbiglia di finte fughe, di un’alba viva nel tramonto, di foglie che come puledri galoppano via, fuori dall’albero, senza fuggire dai rami.
La voglia di parlare con te si è spenta. Preferirei giocare a scacchi, se sapessi giocare, perché potrei farlo con me stesso. Preferirei sentire una partita di Bach per violino solo, anche se Bach non mi fa sentire l’acqua che scorre ma la solenne pietra illuminata dei grandi pensieri. Mi disturba che tu prenda appunti e faccia pochissime domande. A cosa ti servo? A tener viva la leggenda degli ultimi anni del matto scrittore che è ancora scrittore? Smetto di compiacerti. Senza rancore, davvero. Torna alle tue cartelle cliniche. Voglio essere veramente solo, e con te non posso. Anche parlarti di me è stupido orgoglio, e tu che annoti le mie frasi non sei certo Eckermann che parla con Goethe. Io voglio essere la pietra che non ha coscienza di vita. Il matto vero. Da tanto lo desidero. E solo le parole possono avere la magia di trasformarmi in quel sasso perfetto senza parole. Non ci sono scritture minuscole. I miei 727 foglietti sono un delirio.
Libro
Ti lamenti di non leggere niente di mio, Weiss, ma non disperare. Lo sto copiando proprio ora per te. È stato nella mia mente per vent’anni. Ora apparirà su carta. Ora, ma con calma. Non oggi. Non domani. Ogni libro è la vita stessa, è cartavita. Anche non letto, anche gettato via, agirà. Sprigionerà magie. I libri restano anche quando le pagine marciscono nelle fogne e un bimbo un giorno le userà come barchette negli stagni di Biel. Restano, e mettono il mondo a soqquadro. O dolce disordine! O terra ballerina! La mia etica è scrivere per scongiurare il terremoto. Scrivere e riscrivere: atto soprannaturale che nasce dentro il frutto spaccato come un seme nuovo, una nuova fiamma. Ecco la cenere dei miei vent’anni di Herisau: il retro di una lettera indirizzata al Direttore del Manicomio dove un ospite di Herisau, tale Thomas Werfel, dice di non essere lui quel Thomas Werfel ricoverato per schizofrenia ma di chiamarsi Robert Walser. È solo un foglietto, Weiss (gli altri 726 forse esistono, forse no, tu cercali se vuoi…), dove devi distinguere la grande e nervosa calligrafia di Werfel dalla mia, fitta e minuscola…
Le belle nuvole
Vedo di fronte a me, per così tanto tempo, così tante belle nuvole, che non posso ingannare se non con un artificioso trastullo, una tale quantità, un tale mucchio di tempo, che non posso esser lieto di tutto cuore di aver trovato questo passatempo. Non mi si vuole e non mi si può dare un’occupazione, non si ha bisogno di me, sono completamente al di fuori di ogni necessità. Ebbene, allora sarò io a servirmi di me stesso, sceglierò da solo il mio scopo e mi considero sufficientemente portato per svolgere qualsiasi lavoro, fosse anche il più strano ed inutile. Sono robusto e pesante e pieno di sentimenti e di capacità pratiche non comuni. Per quanto possa anche essere miserevole la mia attuale condizione in questa Herisau, io mi sento comunque stranamente libero e coraggioso, e il mio cuore è abile e coraggioso nello scovare pensieri consolanti. Solo di tanto in tanto, per dirla apertamente, mi sento triste e privo di speranze, penso al mio futuro come a qualcosa di perduto e di oscuro, ma si tratta solo di momenti, nulla più.
Essere e sparire
Chi dice sentire dice memoria, chi dice memoria dice movimento, chi dice movimento dice quella concretezza piantata da qualche parte, che prende slancio da un punto preciso. Le belle nuvole fuggitive e grandiose non sono attaccate a nulla e quindi non producono nessuno scuotimento. Ci sono montagne di nuvole e fortezze di nuvole la cui posizione ha qualcosa della noncuranza dei cigni che nuotano, dell’indolenza di donne che si lasciano andare a un sorriso, a un gesto. Le variazioni del bello e del sublime culminano in una docilità silenziosa e totale, come accade per idee elevate, opere di pietà, di giustizia o d’amore. In un silenzio inudibile il più maestoso dei concetti si allontana, soffiato via dal buco arcaico dove scaturisce il vento, dove essere e sparire si confondono. In quest’istante, per esempio, gli alberi sono scossi dal vento per la ragione, immediatamente percettibile, che sono perseveranti. Nella misura in cui i rami si rilasciano può nascere quel senso di scuotimento. Se non fossero ben radicati non si potrebbe parlare delle loro foglie e, di conseguenza, non ci sarebbe ragione di sentire nulla.
Chi è lui?
Non so come si chiama. Non si sveglia mai. Vive solo nel sonno. Cresce ma continua a dormire. Vive negli ospedali. Io lo vedo mentre dorme, io, povero calzolaio, amico di amici (lui non ha né padre né madre). Mi chiedo cosa stia sognando. Non lo so. Ma lui preferisce non svegliarsi. All’età di sedici anni, ne sono testimone, finalmente muore. Forse è andato a riposare in qualche altro regno, senza lasciarci un cenno.
I pittori
La materia del mondo la appiattiscono nella tela, con bellissimi colori, e lì la guardano stupiti. Sono i pittori. Fissano mappe, cartografie, mondi paralleli, sfavillanti. Non si accorgono che fuori si è già scatenato l’ultimo temporale della terra, che nessuno è più vivo, e che stanno decorando l’interno delle loro tombe con offerte segrete. O forse se ne sono accorti, lo sanno da sempre e sorridono proprio per questo.
In sogno
Mentre camminavo per le colline, da ore e ore, seppi che stavo sognando e cercai di svegliarmi. Ma fu inutile. Continuai a camminare per boschi e radure, senza sentire la fatica, e quando lei mi guardò e sorrise, non provai nessun rimpianto per il mondo, lontanissimo, nel quale non riuscivo a tornare.
Musica
La musica non mi è mai piaciuta completamente. Era così bello non sentire suoni. Ma un giorno fui costretto a rimanere dietro a una cascata, perché il sentiero si era interrotto, e da allora capii tutti gli incantesimi che possono essere generati dalla ininterrotta dolcezza del suono. Come faranno, i libri, a restituire quell’incanto se non mancandolo sempre? Se non restandosene muti a desiderarlo? Non è necessario trovare una finestra perché il paesaggio abbia un senso. Senza delle finestre da cui possa essere visto, tutto questo mare di campi e di alberi è una musica indefinita, senza strumenti. Arte della fuga?
Riga per riga
Mi ritrovo dove non credevo di essere, tutte le ipotesi sul tappeto, un passato che parla del mio ininterrotto futuro. Di certe vite che si dicono sommerse non si deve piangere mai: sono opere delicate, nomi interrotti. Occorre guardarle dal vetro, ma senza gridare. Tutto questo sparire è grande chiarezza nella notte e nel sonno, è dimenticarsi sulle rive del fiume. Non avere quasi nulla. Terra senza di noi, da vedere a notte alta. Io studio la paura riga per riga: diari di poeti, viaggi, vertigini, nuvole sparse. Tutto, ancòra, esiste, specchio di quando smetterà di essere.
Cantilena
Trascrivo la cantilena con frasi dettate dall’incanto della luna, e così sparisce il mondo – neve monti giardini. Ripeto la cantilena, termino il libro, ed esco nel mondo vuoto. Domani non ci saremo più. Tutti. Scrivo perché nulla fermi i miei pensieri, sono fiori delicatissimi, appartengono a tutti. Cado, mentre cammino, ma non più in disparte. Invito gli altri a guardarmi e applaudire con gioia. Odio gli esseri tristi. Ho sempre obbedito al mio sorridente e distratto dio.
Basta
Il mio dialogo con te è quanto ho espresso negli ultimi vent’anni a Herisau. Ora basta, con la mia risposta e con la tua curiosità. Basta con la scrittura, la paura, il dolore. Perché a Waldau scrivevo e a Herisau ho smesso? Risponderò semplicemente: sono molto, molto peggiorato. Nessuno mi ha più visto con una penna in mano. Dopo Waldau non mi sono più interessato ai miei libri ma alla mia follia. È quello il mio unico libro, e non vorrei che mi sfuggissero le frasi migliori. No, nessun inferno: è un vivere sottovoce, dentro la trasparenza di me, un po’ come Bartleby nel grande ufficio da cui non voleva muoversi più. Siamo tutti vuoti, nel momento stesso in cui ci dedichiamo alla scrittura. La scrittura non è nient’altro che l’incarnazione della vanità, è nulla. Io rinuncio in tutto e per tutto alla mia vanità. Perdo le parole, sacrifico me stesso, mi salvo.
Segreto
Si dirà che scrivo in segreto, quando nessuno mi vede, anche dentro le suole delle scarpe. Se fosse vero, e questa è la grazia, mi dimentico di farlo. Dimenticare è salute. Ricordare, solo ossessione e mania. Tutte queste cose, adesso, le mura dell’ospedale, le facce dei malati, ho l’impressione che si accartoccino. Ma non c’è nessun incendio, solo che si trasformano e le osservo trasformarsi. Non mi sento tranquillo. Sì, certo, intrecciando canestri, annodando pacchi, leggendo vecchie riviste, conversando con te, mio innocuo scienziato, mi calmo. Capisco che tutto è sonno e non mi impongo nulla. Il mondo mi invita a diventare lo zero che sono, a non avere speranza. Appena inizio a sperare, le cose finiscono per essere troppo vive, per ardere come puro fuoco. Ma dopo bruciano, oh pena e orrore! No, mai, basta col fuoco! Fischietto impassibile, il largo cappello bene aderente alla testa, così i pensieri non volano via come api. Cammino nel freddo. Nel freddo cammino. Non devo vederti più, non voglio vederti più. Buon Natale, Weiss.
Fluo è il romanzo d’esordio di Isabella Santacroce. Il clima culturale italiano andava appiattendosi insieme col dilagare del consumismo. Era il 1995 e gli italiani avevano eletto Silvio Berlusconi primo ministro. Avevamo, nel cinema, il militante Nanni Moretti che, in Aprile, disperato con sua madre davanti alle elezioni del ’94, annunciava che il declino del Paese lo aveva portato a fumarsi il suo primo spinello. E ci portavamo gli strascichi di Tangentopoli. Televisioni private, ambiguità morale. Borghesizzazione delle classi, appiattimento consumistico, come già Pasolini avvisava negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane.
Nanni Moretti si fuma il primo spinello della sua vita; Isabella Santacroce costruisce una protagonista, Starlet, che preferisce le droghe sintetiche.
Conosciamo Starlet che fa caldo, è luglio, è Riccione. La nostra ascolta i Beastie Boys per “cercare divagazioni al mal d’animo” (Fluo, Isabella Santacroce, Il Saggiatore, 2025) mentre i genitori litigano per via dell’under 20 amante del padre. Poi con le amiche Moni e Nina al club. Ed è l’eccesso: il copulare per anestetizzarsi e, per anestetizzarsi, la droga. La trasgressione, capiamo fin da subito (Santacroce non si preoccupa del rischio di apparire moraleggiante, definendosi di fatto come ideologa, e non solo testimone di certe culture giovanili) un riflesso a condizioni di penuria interiore.
Quella di Fluo è una narrazione cumulativa dove l’eccesso è tanto reiterato che, dopo trenta pagine, non provoca più scalpore ma è l’esito di un movimento spiraliforme, di un eterno ritorno dei medesimi antidoti alla vita.
L’analogia con Bret Easton Ellis, forse l’unico rappresentante degli anni Novanta americani, appare naturale. E per le tematiche scelte (il disagio e l’eccesso giovanile; la droga e il sesso come compulsioni della generazione MTV) e per la forma. La struttura delle frasi della Santacroce vuole essere quella di un lungo monologo che riproduca il parlato, dove il lirico di certe frasi emerga naturalmente dal discorso emesso a voce. La paratassi è estrema, con un utilizzo della subordinazione ridotto a zero e il polisindeto che accumula accumula e accumula dettagli, i quali dettagli sono sempre scabrosità e devastazione.
L’Italia rappresentata è reale. Si cita Emilio Fede, per dirne una, ma anche figure come Craxi. Eppure, abbiamo l’impressione che il dissiparsi volontario della nostra Starlet avvenga in una bolla autonoma, in un microcosmo che è riuscita a creare per garantirsi sopravvivenza in un mondo molto ma molto più marcio di lei, che non si vende se non vuole, laddove il paese intero è stato messo all’asta. Nella Riccione la cui toponomastica è precisa e coerente, Starlet frequenta luoghi che sono, in un certo senso, lynchiani. Laddove David Lynch mostrava un’America riconoscibile solo per condurci in meandri che erano incubo sotterraneo, ecosistema privato, così fa la Santacroce mentre segue le vicende della narratrice.
Tornando alla prosa, un esempio di ellissi è:
Moni dice che molte santerelline perfettamente Cielle rincorri palla in cortili sacrestani sono delle vere troie. Convinzione nata da qualche esperienza parrocchiale vomita code di cavallo e gonna appena sotto il ginocchio.
Laddove un esempio di spinta paratassi lo troviamo qui:
Alle venti sono ancora sola. Ho bevuto tutta la birra che c’era in frigo. Infilo short di Vivienne, maglietta stretch comprata da Uso Esterno e sandali di pelle lucida. Cerco Camel nello zaino di Edie, trovo la foto di un certo Manuel seduto nel salotto del Maurizio Costanza Show. Nessuno apre la porta. Ingoio due En e chiudo gli occhi.
Starlet, notiamo, ha coscienza politica. Un lungo capitolo di Fluo lo dimostra. È quello dove constata di essere sottopeso con gioia (ecco la disfunzione, ecco i canoni imposti, ecco le veline), è quello dove si rende conto che, solo perché si veste da puttana (lei lo dice di sé; anzi dice di sé che, sembrando puttana, puttana è) e ha i capelli colorati, è vittima di occhiatacce. Ma per lei, dice, è molto più squallido vedere la bruttezza di certe pance molli o tette cadenti. Eppure, è lei che viene guardata e trattata da lebbrosa.
Le prospettive future dei giovani di Santacroce sono assenti in un paese al collasso, e dissiparsi tra droghe e sesso è un atto politico che può fungere da resistenza a un mondo che richiede sempre più e fornisce sempre meno. Perché mai accettare i compromessi con una società che esclude certe ontologie private, certi privati mondi? “Non scegliere la vita”, per citare un altro caposaldo degli anni Novanta, cioè Trainspotting – prima Welsh e poi, al cinema, Boyle – è dignità, è scelta valida in questo mondo perfido, dove i ruoli simbolici della famiglia crollano, dove la televisione non propone più Pasolini ma tv show.
In questo contesto, i numerosi riferimenti alla cultura pop danno l’idea di un assedio: il soggetto postmoderno è assediato dalle immagini dei media, e si spossessa perché ipersaturato. L’iterazione, anche senza deragliamenti, nella prosa di Santacroce, è quanto di meglio possa rappresentare il dolore, il tempo del trauma essendo ricorsivo.
Di Starlet, pure, conosciamo un altro lato, che è l’innocenza perduta ma ricordata. Oscilla, Starlet, tra la dissipazione, non poco lontana dal suicidio – quantunque suicidio legittimo, e anzi riflesso di un mondo atroce e dunque, forse, omicidio – e la purezza andata via. E l’iterazione ossessiva restituisce, nel fiume di accadimenti sempre più eccessivi, come la morte dell’amico olandese di Starlet che chiude il libro, l’immobilità esistenziale – indotta – di una intera generazione.
Eppure, l’ultimo slancio del libro è il vitalismo dionisiaco. Questa dissipazione, questo suicidio, hanno, al contempo, un altro volto: quello del furore, della rabbia giovanile. E si oscilla tra l’istinto a disfarsi e la rabbia, tra l’autoannichilimento e, proprio nell’annichilirsi, la vita. Perché Starlet vuole l’amore, in fondo, poco più che ragazzina, “come un gelato al limone mangiato in riva al mare in un pomeriggio di maggio quando il più bello sta per cominciare e continuare come prima, così veloce e così immortale”. Così si chiude Fluo di Isabella Santacroce. Con una domanda, in fondo: la dissipazione di Starlet, nel mondo che Santacroce delinea – un mondo che come lei è dissipato – è forma di pulsione vitale energetica dionisiaca, o un modo per accomiatarsi da un mondo che, come Starlet stessa dice, rifiuta chi si colora i capelli?
«Cosa poteva affascinarmi di più se non tentare di riscrivere, seppure in forma frammentaria, proprio il Messia di Bruno Schulz? Ogni libro, per me, è la scommessa di un “libro impossibile”, che non può esistere perché è composto di testi apocrifi ma che tuttavia esiste, e Il mese dopo l’ultimo è la principale scommessa della mia poetica personale: riscrivere un libro perduto, sapendo che non potrà mai essere solo quel libro, perché è il risultato della mia immaginazione, ma sapendo che, alla fine, qualcosa di ciò che sono andato sognando, attraverso questa ri-scrittura, resterà presente: scommessa di un libro infinito e interminabile, che sarà sempre di più e sempre di meno del libro finito, classificabile, giudicabile da critici e filologi. Un libro come racconto fantastico, appunto diaristico, lettera personale, frammento. Un libro instabile, progettuale, un non libro che contiene già il germe, se non la forma, del libro futuro. Nel mio romanzo apocrifo io ho voluto non tanto riscrivere il Messia perduto ma trascrivere degli abbozzi, degli appunti, che potessero segnalare un “lavoro in corso” intorno al Messia. Entrare nel laboratorio di Schulz è stata la mia utopia, il desiderio di reinventare la storia anche contro la realtà degli eventi compiuti. Perché, in sintesi, ho scritto questo libro per combattere un sopruso irreparabile perpetrato contro l’opera di Schulz – relativamente cancellata dalla memoria storica – e la vita di Schulz – eliminata totalmente da quell’assurdo colpo di pistola».
In queste parole sigillo il senso del mio libro, e anche della mia assenza dal mondo degli autori. Io sono colui che sta nell’ombra di un altro, e trascrive ciò che lui potrebbe sognare o pensare. Chissà se riesco, Angelo, a comunicarti con quale commozione quel libro andrò formandosi in me alla fine del secolo scorso… No, non mi interessava trovare il Messia quanto sapere che avrei potuto farlo, diventare rabbino, mago, figlio, fantasma di Drohobycz, e non essere, come Kafka, ascetico notaio della mia angoscia ma estasiato bambino travolto dal calore e dalle stelle di una notte di luglio dove non era mai vissuto. Ma dove sono realmente vissuto per tutto il tempo che il non-romanzo agiva dentro di me come una fioritura stregata…
Oh, Bruno, potessi incontrarti non appena finisco i miei giorni qui, da uomo ridicolo!
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Quarantottesima lettera. A. L.
Oh! anch’io ho il mio oh! – Marco, hai mai pensato a un oh! da solo, in posizione di oh! – una posizione senza inclinazioni, mantenuta perfettamente verticale, dopo innumerevoli esercizi, dopo le lusinghe…
Caro Marco, la tua lettera e la mia rilettura, in questi giorni ospedalieri, del tuo Il mese dopo l’ultimo, mi hanno profondamente toccato, non soltanto perché il tuo libro c’è, meravigliosamente esistente, “nero di frasi, pulsante di vita”, ma perché la sua esistenza è, come l’arrivo del Messia, fuori tempo massimo, quando, per poter esistere, ha dovuto assentarsi, darsi per morto, come alcuni piccoli animali, inseguiti…
“Non può mancare al suo venir meno: è la forma necessaria della parola… Un artista non può mancare al suo venir meno. In nome di questa fedeltà, se diventasse consapevole di non essere all’altezza del suo compito, dovrebbe avere la forza di morire” (p. 64). Tra affermazione e morte, facendosi beffa del sistema binario, Bruno Schulz, in Le botteghe color cannella, avanza un’ipotesi geniale, che tu hai preso al volo: “… quel grande eccentrico che è il tempo crea dal suo seno altri anni, diversi, particolari, degeneri […] Altri paragonano questi giorni ad apocrifi segretamente introdotti fra i capitoli del grande libro dell’anno” (p. 77).
Nella nota al tuo libro, Giorgio Galli, pur con cautela, lo definisce “romanzo” – tu, nella tua lettera, lo definisci non-romanzo: Ma dove sono realmente vissuto per tutto il tempo che il non-romanzo agiva dentro di me come una fioritura stregata… Il non-romanzo appartiene a quella fuga dal libro che, mentre mette in salvo l’autore (nel tempo degenere), lo rende fantasma, ombra della vita? – “… il mio romanzo… per esistere veramente, deve fare a meno di me, deve essere l’esecuzione capitale in cui il condannato a morte sono io, l’autore, e nessun altro” (p.77).
Mi verrebbe da dire – da tanti segnali che tu, Marco, lasci in giro tra le pagine – che la tua scrittura abbia una prioritaria funzione riparatrice – nel suo vivere accanto al non accaduto, al non detto – tanto da occultare la sua portata teorica, la sua radicale teoria della prosa e, tout court, del romanzo
Tu scrivi, negli appunti di Bruno Schulz: “Chi non cerca viene trovato. Il non-senso lo afferra e diventa senso […] Scrivere è il desiderio di parlare della fiamma che, appena sprigionata, si dissolve. […] Sciogliere l’identità di una cosa perché vibri della possibilità della sua assenza. trovare la notte della luce. Accettare i lampi come neri più lucenti” (p. 66).
Avremo tempo per indagare ancora, per farci del male. ora vorrei chiarire l’inizio stravagante di questa mia lettera Oh! anch’io ho il mio oh!
Tu sai come sono le giornate all’ospedale, quelle senza dolori, giornate apocrife direi, in tuo onore – nel dormiveglia (oh beatitudine, gratis) avevo stampato in fronte quel tuo: Oh, Bruno!
Accanto al tuo Oh – pronto a crollare, per amore, per compassione, per l’allegria e il dolore della mente– pronto alla scrittura! – si ergeva un mio oh! latente, che era lì da tempo, senza inclinarsi, isolato, nel più solenne abbandono – chi lo aveva ridotto così? era il primo verso di una poesia che non potevo scrivere! Quel primo verso, trasformava me in un’esclamazione, neutrale, segnata da una passione oscura, alla quale dovevo offrirmi. È dal 2020 che nessuna parola regge ai miei attacchi! – sono più di tre anni. Il tuo oh! è piombato sul mio oh! dei tempi lontani della propria vita rimangono alcune immagini viventi, qualche decina nel mio caso, richiamabili in ogni momento, dettagliate fino allo spasimo. Una di queste, tornata nel pomeriggio di lunedì, mi portò nella vecchia cucina, una sera d’inverno, mentre facevo i compiti di seconda elementare, sgomberato il tavolo dai piatti. Non c’era ancora la luce elettrica, arrivata nel 1961 – c’era una lampada a petrolio, con la fiamma sempre agitata, fabbricante di ombre sulle pareti, con un debole lampo, ogni tanto. da dove ero seduto, la luce, venendo da destra, proiettava l’ombra della mia mano sul quaderno. Mia mamma si avvicinò, alle mie spalle, guardò e disse: se ti metti dall’altra parte del tavolo l’ombra va via. L’immagine si chiude, il mio film è finito.
Perché m’interrogo ancora adesso sull’ombra della mia mano? Mentre rimanevo incantato dall’enigma dell’ombra della mano, sempre nella giornata di lunedì, mi sembrò di seguire, passo passo, attraverso la porta della tua scrittura, Bruno Schulz. Mi sembrò di accompagnarlo per tutte le sue righe scritte e in giro per Drohobycz. Poi arrivammo al momento fatale. Stavo aspettando. Ho aspettato per alcuni interminabili secondi – nessuno mi voleva sparare. Un’incredibile malinconia, una irrimediabile delusione s’impossessò di me.
Sono messo così, in questi giorni.
* I testi sono tratti da: Marco Ercolani, Angelo Lumelli, Cento lettere, I libri dell’Arca, Joker 2023.
Giovanissimo, lavora con cartoni, fotografie, fumetti, e compone, in materiali diversi, originali forme ossessive. Negli anni novanta, in un impulso di follia, toglie la vita alla madre. Ricoverato in reparto psichiatrico, chiede carta da disegno dove comincia a tracciare volti atterriti, spaventosi. Dopo un lungo periodo di ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, dove non smette di produrre opere e di fare mostre, è stato ospite, prima della morte, di una comunità ligure.
Negli anni più dolorosi della segregazione Grondona non smette mai di praticare la sua arte. Affascinato dalla musica estrema e di avanguardia, continua a bere, perché – come spesso confessa – bere gli piace. Scrive, nel suo Teatro della mente (Titivillus editore), che vorrebbe lasciare qualcosa di sé – un “segnetto nel mondo”. Lavora in modo suggestivo e spiazzante. Inventa sculture di cartone, ma intagliandole dall’interno. Sono sculture con molto vuoto all’interno, incentrate su temi e figure espressioniste (la «Giovanna d’Arco» di Dreyer, dettagli della vita quotidiana.) Uno degli autori prediletti dall’artista è Francis Bacon e così Grondona scrive di lui: «Quel ciuffo di capelli che divide in due parti la fronte di Francis Bacon non vuole forse dichiararci apertamente quale terribile confusione alberghi nella sua mente nel momento stesso in cui egli, con un’audacia che ha dell’empietà, ci impone ambienti e personaggi in maniera così categorica da poter avvalersi anche solamente dell’unica ragione che è quella la sua visione del mondo? Difficilmente capita che un artista fornisca delle soluzioni; egli non può fare a meno di esibire l’angoscia di esistere, consapevole del fatto che soltanto un aumento di sensibilità e la capacità di saper trascrivere lo possono distinguere dagli altri esseri umani, i quali, a modo loro, vivono i suoi stessi guai».
Il “segnetto nel mondo” è la violenza dettagliata, minuziosa, esatta, con cui vuole sottrarre all’informe qualsiasi nebulosità e restituirlo a una nitidezza gelida, con le figure che si muovono misteriose dallo sfondo e, nel taglio da cui si profilano, avanzano verso lo spettatore – spettri non dell’accumulo ma della spoliazione, della fessura, delle ferite. Grondona, attento alle tattiche distruttive e riparative dell’arte, continua a vivere la frammentazione dell’oggetto amato-odiato – il corpo della madre letteralmente tagliuzzato, dissanguato, separato dalla vita – come un pullulare di pieni e di vuoti in cui quella tragedia continua a ritornare, con la disperazione dell’evidenza e l’illusione della riparazione. C’è, ancora e sempre, per Grondona, un corpo da sfregiare e rimodellare, come se la madre fosse da uccidere ancora.
Scrive di lui Flavia Motolese: «L’atto creativo è totalmente libero, risponde solo alle sue esigenze narrative ed espressive, ma nelle sue opere nulla è casuale: come un esperto regista Grondona immagina la trama, predispone la scena e la fotografa, incidendola nella carta – il procedimento elaborato è frutto di anni di sperimentazione in campo fotografico. Artista visionario e geniale, è capace di tratteggiare scene di perfetta orchestrazione, stilizzando le figure e riducendo al minimo gli elementi compositivi. […] La lama che incide con chirurgica perizia i cartoncini colorati corrisponde alla lama intellettuale che disseziona la mente e l’anima senza lasciare margini di fuga a soluzioni consolatorie… Le opere di Grondona si possono ricondurre a filoni tematici la cui ispirazione spazia dal campo letterario a quello cinematografico: l’immagine sacra, la città nuda, gli strumenti musicali, i Cristi, i vizi, le scene dell’Apocalisse. Influenzato dal Surrealismo, dalla Pop Art, dall’Espressionismo e dall’opera di Bacon e Munch, se ne discosta attraverso l’elaborazione di un linguaggio del tutto originale che non è possibile relegare nella definizione di una sola corrente artistica. […] Grondona ha saputo rappresentare i tormenti della società contemporanea in cui verità oggettiva e capacità immaginative si mescolano in una concezione filosofica simile a quella che Herzog definiva “verità estatica”: più profonda di quella apparente, banale e superficiale, che si ottiene riproducendo i fatti reali, una verità che scuote l’anima e che si può raggiungere solo attraverso invenzione e immaginazione e stilizzazione».
Il «segnetto nel mondo», come testimoniano le ultime opere su cartone, non è il segno perentorio dell’artista che domina la sua materia, ma qualcosa di meno e qualcosa di più. Un tagliente scarabocchio. Un «quasi nulla» come direbbe Sartre parlando di Wols. Grondona scrive ancora: «Per fare arte bisogna sempre pensare delle cose semplici… Ciò che narro è un ricordo perduto nel tempo, un istante ricreato artificiosamente impossibilitato a perdurare, esso è solo una piccola parte di un lungo avvenimento inspiegabile, solamente un frammento, anche se sempre più particolareggiato».
Grondona riorganizza una costruzione del mondo a partire dalla distruzione del corpo della madre, evento clamoroso e violento della sua vita individuale. La geometria delle sue sculture di cartone, solidi esempi di «vuoto», l’amore per Bacon e la necessità dell’angoscia, sono i compagni quotidiani di questo artista oggi devastato dalla precoce vecchiaia e dalla disperazione psichica ma risoluto a lavorare sempre alla sua opera. La sua ultima mostra, impressionante e feroce, ha come titolo I quadri hanno gli occhi e mi rodono l’anima (Palazzo Stella, 2015), dove Grondona costruisce sculture tridimensionali stratificando cartoncini intagliati e distanziandoli con un materiale plastico che gli permette di infondere profondità alla composizione e di accentuarne l’effetto drammatico, la “verità estatica”: questo, in sintesi, è e resterà il suo “segnetto nel mondo”.
Non eravamo ancora arrivati a casa per scontare le offe se, non potevamo vedere il nostro mantello eroico di acqua calda che ci ha fatto sentire la poesia di ieri e il suo tempo di pace senza sapere quando smetterla di parlare dei soldi finiti. La nostra vita è sempre stata incoscienza e poche parole. Ad ogni modo si può fare un passo indietro per esser certi che ancora canta la nostra corazza di cicala.
La mia preghiera sprofonda in un altro uomo come me mescolato all’acqua e all’argilla, figlio del fiume che raccoglie tutte le piogge, ospite sacro, bambino che bussa dietro la porta con occhi di lacrime secche e piedi bruciati dal freddo, si fa agnello che chiede il grembo di una madre.
Dietro il profilo degli alberi all’alba, sorge un indaco perfetto, una tentazione divina. I cani al mattino tornano a casa lenti, i pettirossi tra i rami si lanciano in manovre ardite, canta in ogni cosa il libero arbitrio di un altro giorno, il bene alto di ogni cosa.