Scrive Paolo Castronuovo a premessa di Opera. 2004-2024 (Il Convivio, 2025): “Questa prematura opera omnia in versi – meno che nella maggior parte delle poesie presenti in Bugiardino, a mio avviso il mio miglior libro – è fondata sul morbo di un Tu anonimo sempre presente, per quanto fuggitivo. Sono le poesie che voglio lasciare al lettore e che ritengo debbano essere lette nella loro interezza. Tutto ciò che è stato scartato non è di vitale importanza. Perché questo libro? Ho la “necessità biologica” di chiudere un cerchio. Spazzare via il Tu – per quanto possibile – dalla mia Voce e Parola. Opera è un excursus della mia evoluzione poetica, dall’acerbo-ostile di Labiali alla morbosità de La croce versa, fino alla rassegnazione de La giostra d’inverno. Senz’altro il mio libro più importante in questi vent’anni di scrittura”. A neppure quarant’anni Castronuovo sente l’esigenza di dare alla propria opera in versi una nuova unità, che però non unisce dei frammenti ma li trasfigura. L’epigrafe del libro, “l’irraggiungibile è esplorazione di sé stessi”, segna l’inizio del viaggio. La fine è una citazione da Zbigniew Herbert: “Dove passerai l’eternità? Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose”.
Libro complesso, Opera : il lettore assiste al laboratorio di un’angoscia incessante, in metamorfosi, di una parola che cura se stessa attraverso le proprie visioni. Così ne scrive Alfonso Guida: “E di questo andirivieni tra porte strette e larghe, tra vocazione alla solitudine e necessità di dialogo, si staglia una poesia netta col grande e raro dono della serietà”. Partirei proprio dall’accento sulla serietà. Chi fa correre lo sguardo su questi versi è sedotto da una crudeltà surreale, anche eccessiva, che però non deflagra nel caos ma si raccoglie in forme icastiche, al limite dell’epigramma, della sentenza: “sto eliminando il tu dal verbo / per dare spazio a nuove immagini/ ma nulla resterà che rifugiarsi nella propria voce”; “come in tutte le esplosioni/ prima o poi ogni cosa cade/ e si riduce in macerie”; “le muse hanno disossato la gabbia ma/ per fortuna lo sterno regge il petto”; “il trauma lascia la cicatrice,/ la nascita lo squarcio”; “Bruciare nel buio/ non ha altra luce/ che la morte”; i libri sono sbarre di un carcere/ che non apre a nessun universo”. Castronuovo cerca una misura che si adatti alla sua vertigine: “è nei dettagli la casa delle grandi opere/ non negli avverbi e superlativi assoluti/ lascio che la lingua si nutra/ del vento delle pagine voltate”. Quel vento sembra mèta e utopia del poeta. La piccola opera omnia che leggiamo non è affatto un libro conclusivo ma lo scheletro di libri futuri in cui la visione potrebbe non disgregarsi in urlo ma espandersi in costruzioni verbali animate da un’utopia positiva e potente quanto finora è stata potente la descrizione del dolore: “attraverso i cavi dello stendino ho visto uno/ stormo volare. erano note di un canto celeste/ su un pentagramma. poi solo silenzio a illuminare”. Castronuovo non crede solo alla materia delle parole, alle aspre immagini evocate dalla sua lingua (“il vuoto mi affligge come un deserto sconsacrato”), ma al disegno di una nuova consapevolezza: “ci si allontana dalle avanguardie/ per buttarsi nel fiume/ e sapere di che morte morire”. Anche questo sapere negativo è un inizio. Nel fiume è lecito tanto annegare quanto scegliere di nuotare. Nessuno è immune dall’acqua che lo sospinge verso la deriva: dipende da quanta energia vitale e costruttiva contenga il movimento verso la deriva. Opera ne è l’iniziale, attenta, adulta esplorazione, anche se “avvicinarsi a se stessi / è un’allucinazione”. (M.E.)

