
Cy Twombly
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Un tratto caratteristico della personalità di Baudelaire è il suo gusto per la mistificazione, esercitata fra l’altro cercando di far credere agli amici storie inventate relative alla propria vita. Ad esempio, Maxime Du Camp riferisce quanto aveva saputo dal poeta stesso, ossia che quest’ultimo, durante il suo soggiorno in India (in realtà mai avvenuto), si dedicava al commercio di bestiame a beneficio dell’esercito inglese e faceva escursioni stando sul dorso di un elefante. Théodore de Banville, a sua volta, racconta una storia ancora più assurda: «In non so più quale paese dell’Africa […], se n’era andato a vivere da solo su una montagna, con una giovanissima e alta ragazza di colore, che ignorava il francese e che gli cuoceva degli stufati stranamente piccanti in un grande pentolone di rame liscio, attorno al quale negretti nudi urlavano e danzavano. Oh! quegli stufati, come li descriveva bene, e come li avremmo mangiati volentieri!».
È curioso che Rimbaud e Mallarmé, in missive private e senza poter sapere l’uno dell’altro, nel parlare di Baudelaire abbiano fatto ricorso alla stessa immagine. Rimbaud scriveva infatti nel 1871: «Baudelaire è il primo veggente, re dei poeti», e Mallarmé gli faceva eco cinque anni dopo, asserendo che Villon e Baudelaire «sono i due veggenti di due epoche diverse».
In una lettera del 1986, volta a rivendicare la propria libertà di pensiero, Claude Simon affermava: «Io non aspiro ad alcuna gloria, alcun posto, alcuna carica: non ho altra ambizione […] che quella di svolgere al meglio il mio lavoro di scrittore, che ai miei occhi non autorizza alcuna specie di concessione». Parole chiare, che però attualmente solo pochi intellettuali sarebbero disposti, in maniera credibile, a condividere.
Se ci si aspetta che un critico manifesti in maniera diretta, nei propri scritti, opinioni sui grandi temi dell’esistenza, si è destinati a rimanere delusi. Egli, infatti, preferisce far propria una frase di Lautréamont: «L’autore spera che il lettore sottintenda».
Poiché i romantici tedeschi hanno anticipato molte delle idee che si ritroveranno negli autori venuti dopo di loro, non sorprende il fatto che Balzac, attento lettore di Hoffmann, abbia (o quanto meno avrebbe) potuto trovare in due testi dello scrittore tedesco altrettanti spunti per Le chef-d’œuvre inconnu. In questo celebre racconto, il pittore Frenhofer modifica a più riprese un proprio quadro con l’intento di perfezionarlo, senza accorgersi che lo sta trasformando in un insieme di macchie in cui quasi più nulla è distinguibile. Analogamente, in un romanzo di Hoffmann leggiamo: «Conosco un giovane pittore il quale insiste talmente nel ritoccare, riprendere i propri quadri (anche quando sarebbero abbastanza riusciti), fino a farli sparire sotto una patina plumbea ed opaca». Anche il fatto che Frenhofer, subendo una sorta di allucinazione, creda di scorgere nella propria opera una perfetta riproduzione del reale è già presente in un passo hoffmanniano in cui a soggiacere a un delirio dello stesso tipo è un «vecchio pittore dilaniato dalla follia che passava tutte le sue giornate davanti a una tela soltanto mesticata, bella tesa nella cornice, e che a tutti quelli che lo andavano a trovare non faceva altro che celebrare le svariate bellezze di quel ricco, magnifico quadro appena ultimato».
Ogni volta che si torna a visitare la Catedral de la Santa Creu in Santa Eulàlia, le oche bianche del chiostro sono sempre lì ad accogliere, starnazzando, il turista. È possibile che, ad anni di distanza, non siano più le stesse, ma senza dubbio non lo è nemmeno il visitatore.
È celebre l’analisi del dipinto di Velázquez Las Meninas condotta da Michel Foucault nel capitolo iniziale di Les mots et les choses, del 1966. Alcuni anni dopo, al filosofo viene chiesto di scrivere un altro testo, relativo stavolta al ciclo di 58 quadri e studi realizzati nel 1957 da Picasso a partire dal capolavoro di Velázquez (l’intero ciclo è conservato al Museu Picasso di Barcellona). Foucault nota lo strano trattamento che, in questa serie di variazioni sul tema, viene riservato a Velázquez, che com’è noto aveva rappresentato anche se stesso all’interno del dipinto. Nel primo suo quadro d’assieme, Picasso ingrandisce a dismisura l’immagine del pittore seicentesco, che giganteggia tanto da sfiorare col capo il soffitto del salone. Per contro, negli altri lavori del ciclo, tale immagine non appare più in forma riconoscibile. Anzi, nei molti dipinti in cui Picasso sceglie di raffigurare solo uno «dei sei personaggi che sono in primo piano nel quadro di Velázquez, quest’ultimo è il solo a non essere trattato a parte, il solo a cui non venga dedicata singolarmente alcuna tela». Foucault spiega questa strana assenza del personaggio-pittore dicendo che, «dopotutto, è lui che ha realizzato la tela. Anche se è invisibile, respinto fuori, passato dall’altro lato del bordo, non può staccarsi da essa».
Ogni uomo dovrebbe avere coscienza del fatto che, per quanto la sua esistenza possa essere lunga, egli non potrà mai dar fondo alle proprie potenzialità, una gran parte delle quali resterà dunque inespressa. Tuttavia occorre tentare, foss’anche in un solo ambito, di verificare ciò che ci è concesso, e che forse varrà anche come segno di quello che ci sfugge. Come scrive Bataille, «la vita degli uomini è sempre un dialogo tra il possibile e l’impossibile».
Il passatempo preferito di Stéphane Mallarmé consisteva nel dedicarsi ad escursioni fluviali sulla Senna alla guida della barca che aveva acquistato. Julie Manet (nipote del grande Édouard e figlia della pittrice Berthe Morisot) la descrive così: «È molto bella, verniciata, la parte alta è di color verde chiaro, la vela è di forma graziosa e ha in cima una bandierina con le iniziali S. M.». Sempre Julie riferisce che, a chi gli chiedeva se durante le sue gite gli capitasse di scrivere, il poeta replicava così: «No, rispose gettando uno sguardo sulla propria vela, questa grande pagina la lascio bianca».
Julie Manet commenta in questi termini una lettera ricevuta dalla figlia di Mallarmé dopo la morte del genitore: «Geneviève scrive che ha finito col trovare nella scrivania di suo padre un biglietto […] indirizzato a lei e a sua madre, nel quale egli chiede loro di bruciare le sue carte, trattandosi soltanto di cose incompiute. Che duro compito, e quanto è terribile pensare che il frutto di un assiduo lavoro di molti anni sparirà così tra le fiamme, e che una parte della sua opera morirà con lui». Di fatto, com’è noto, tale distruzione non avrà luogo, anche se è vero che fra i testi letterari di Mallarmé editi postumi non figura alcuna opera finita. Ciò nondimeno, tali appunti o brogliacci restano assai preziosi. Infatti è possibile riferire a Mallarmé un’acuta osservazione di Nietzsche: «Vedo qui un poeta che, al pari di tanti uomini, esercita una superiore attrattiva, più con le sue incompiutezze che con tutto ciò che sotto la sua mano si arrotonda e si configura compiutamente – anzi, piuttosto che dal pieno delle sue forze, egli trae vantaggio e gloria dalla sua finale incapacità. La sua opera non esprime mai del tutto ciò che lui propriamente vorrebbe esprimere, ciò che vorrebbe aver veduto: si direbbe che ha avuto il pregustamento di una visione e non la visione stessa – tuttavia è restata nell’anima sua un’immensa avidità di questa visione, e da questa avidità egli attinge l’altrettanto immensa eloquenza del suo desiderio».
In una lettera, Mallarmé diceva che «ogni poesia di un “volume di versi” deve poter essere letta a parte», ma al tempo stesso occorre che sia inserita nel libro, ossia «in un’architettura evidente e che non abbia nulla di artificiale». Ma la stessa cosa vale per i testi saggistici, se li si considera con la dovuta serietà.
Indipendentemente da ciò che gli riserva ancora la vita, deve ritenersi fortunato l’anziano che può ripetere per sé le parole di Mallarmé: «Qual era il mio ideale a vent’anni, non è improbabile che io l’abbia sia pure debolmente espresso, visto che l’atto da me scelto è stato di scrivere: ora, se l’età matura lo ha realizzato, questo giudizio spetta alle sole persone che hanno protratto il loro interesse per me. […] A sufficienza, fui fedele a me stesso perché la mia umile vita conservasse un senso».
In L’Eau et les Rêves, Gaston Bachelard a un certo punto si pone la seguente domanda: «Ciò che non può essere scritto merita di essere vissuto?». Se lo si considera indipendentemente dal contesto in cui l’autore lo inserisce, il quesito dà da pensare. Il primo impulso è quello di rispondere in maniera affermativa, dato che i momenti più intensi dell’esistenza di ciascuno sono incomunicabili agli altri, sia per motivi di discrezione, sia per evitare di banalizzare o profanare tramite il linguaggio esperienze che devono rimanere affidate soltanto alla memoria di chi le ha provate. Se però ad essere in causa è uno scrittore, la risposta si fa più complessa. Questo perché nel suo cosiddetto «vissuto» l’atto di scrivere costituisce qualcosa di essenziale, ma anche in quanto ciò che rimarrà dopo la sua morte saranno unicamente le opere (siano esse lette da molti, da pochi o da nessuno), mentre tutto il resto sparirà.
Quando una persona è ossessionata da qualcosa si è soliti dire che lo sogna anche di notte. Nel caso di Giacometti e del suo lavoro artistico ciò doveva essere un dato effettivo, visto che più volte, nelle lettere che scrive in italiano alla madre, è lui stesso ad ammetterlo: «Tutta la notte sogno di continuare a disegnare o fare scultura. Continuo in sogno, notte per notte ciò che faccio di giorno e il più curioso è che mi alzo sempre un po’ più avanzato che la sera». Dunque, quando sostiene «lavoro in fatto giorno e notte perché quando dormo sogno sempre di pitturare o di far scultura», non intende lamentarsi. Anzi, all’opposto, è persuaso che i suggerimenti che gli vengono dall’attività onirica agevolino la sua ricerca: «Ne sogno quasi ogni notte! e serve sempre per il giorno dopo; ho fatto oggi un po’ ciò che ho sognato due o tre notti fa o piuttosto diverse notti di seguito».
La lettura interpretativa non è tanto, per il critico, un modo per dar prova di acutezza o erudizione, quanto piuttosto un esercizio in cui egli lascia trapelare qualcosa di assai più personale, ossia «le proprie scelte, i propri piaceri, le proprie resistenze, le proprie ossessioni» (Roland Barthes).
La riflessione sulla letteratura, negli anni Sessanta del secolo scorso, ha avuto il merito di focalizzare con maggiore precisione alcuni concetti, come quello di testo. Gérard Genette, ad esempio, lo definiva così: «Il testo è quell’anello di Möbius in cui la faccia interna e la faccia esterna, faccia significante e faccia significata, faccia di scrittura e faccia di lettura girano invertendosi di continuo, in cui la scrittura non cessa di leggersi, in cui la lettura non cessa di scriversi e d’inscriversi».
Nel 1861, al diciassettenne Nietzsche viene assegnato un compito scolastico nel quale egli dovrebbe raccomandare a un amico la lettura del proprio poeta preferito. La scelta dell’allievo, cosa insolita per quegli anni, cade su Hölderlin. Nietzsche mostra di essere al corrente delle obiezioni rivolte al grande lirico, nei cui testi, all’epoca, si era inclini a scorgere le «espressioni confuse e semideliranti di un animo dilaniato», come pure la presenza di idee contraddittorie («idolatria del mondo pagano, ora naturalismo, ora panteismo, ora politeismo in un grande guazzabuglio»). Egli dichiara all’opposto che i versi hölderliniani sono «scaturiti dall’animo più puro e sensibile». Elogia inoltre la tragedia incompiuta Empedocle («questo frammento drammatico così importante, nei cui toni melanconici è adombrato il futuro dell’infelice poeta, la follia»), come pure il romanzo Iperione. Ma il suo insegnante apprezza poco le osservazioni del giovane studente, e annota sul foglio del compito il seguente giudizio: «Debbo amichevolmente consigliare l’autore di occuparsi di un poeta più sano, più chiaro, più tedesco».
Nietzsche ha avuto il grande merito di stimolare ogni individuo a fare delle scelte che fossero davvero le proprie, e non quelle della collettività che lo circondava: «Il fatto […] che non possediamo se non un brevissimo oggi e in esso dobbiamo mostrare perché e a qual fine proprio ora siamo nati – ci incoraggia nel modo più energico a vivere secondo una misura e una legge nostra. Della nostra esistenza dobbiamo rispondere a noi stessi, di conseguenza vogliamo agire come i reali timonieri di essa e non permettere che assomigli ad una casualità priva di pensiero».
Per certe persone, resta valida l’osservazione nietzschiana secondo cui «la vita è possibile solo attraverso le immagini illusorie dell’arte», poiché in effetti «quanto più lontano ci si mantiene da ciò che veramente è, tanto più pura, bella e buona è la vita».
È celebre l’impresa letteraria compiuta da Georges Perec: quella di scrivere un intero e ampio romanzo, La disparition, senza mai impiegare la lettera «e», in ossequio alla tecnica del lipogramma. Meno noto è il fatto, ricordato da Carlotta Santini, che già nell’antica Grecia qualcuno, Nestore di Laranda, l’aveva adottata: «Nella sua opera, l’Iliade a cui manca una lettera, Nestore pratica un particolare esercizio di virtuosismo: compone un’Iliade in 24 libri (come l’Iliade originale, divisa in 24 libri numerati secondo le lettere dell’alfabeto greco dai grammatici alessandrini), evitando di utilizzare per ogni libro la lettera corrispondente del libro stesso. Dunque il primo libro era scritto senza utilizzare la lettera α, il secondo la lettera β e così via».
Tra le numerosissime moschee di Istanbul, le più note sono anche le più vaste, ossia la Moschea Blu e la Suleymanye. Ma dello stesso architetto che ha realizzato quest’ultima, ossia Mimar Sinan, merita di essere ricordata almeno un’altra moschea di particolare bellezza, quella dedicata al visir Rüstem Pascià. Realizzata nel sedicesimo secolo, si trova posta su un piano sopraelevato (al di sotto, infatti, c’era un caravanserraglio). Sinan ha risolto magistralmente i problemi dovuti allo spazio ridotto e, utilizzando per la decorazione (sia dell’esterno che dell’interno) le splendide maioliche di Iznik, è riuscito a creare un’opera altamente suggestiva.
Come nota Didi-Huberman nel suo libro sulla leggenda di san Giorgio, i testi che la narrano si attengono di solito alla versione tradizionale, con il «valoroso cavaliere che sconfigge un drago e salva una principessa», ma talvolta «si compiacciono nel pervertire o invertire i punti di vista». In questi casi, «il cavaliere potrà diventare un personaggio piuttosto negativo, perfino spaventoso, mentre il drago potrà commuovere per la sua sofferenza non soltanto il lettore, ma anche la principessa». È proprio ciò che accade in uno dei testi micrografici di Robert Walser, dal titolo La fanciulla/Il liberatore. In esso, la donna che si credeva fosse la vittima del drago, rimprovera con durezza il cavaliere che ha appena mozzato la testa del mostro: «Ti credi un modello? Come mi guardano, colmi di rimprovero eppure al contempo di dolcezza, gli occhi di questa testa così recisamente separata dal resto del suo corpo. Questa creatura orrenda mi amava, proprio come sanno amare i mostri, tu invece, liberatore, non mi ami, ti importava soltanto di esibire la tua forza davanti a me». Qui l’inversione del punto di vista si può senz’altro definire impeccabile.
Osserva Hofmannsthal che «se i libri non fossero un elemento della vita, un estremamente ambiguo, sfuggente, pericoloso, magico, elemento della vita, non sarebbero nulla, e discorrerne non varrebbe la pena». Ma di fatto i libri – o quanto meno quelli riusciti – possiedono tutti i caratteri che lo scrittore austriaco attribuisce loro, e ciò spiega perché non ci si stanchi mai di leggerli e di commentarli.

Cy Twombly
