LA CHIAVE DELL’IMPERDUTO. Ilaria Seclì

Wols

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Ti porto dall’Angelo, ha nuvole bianche

il cielo, anche i fumi di carbone sono fermi                  

e fermo è il mondo. Ti porto dall’Angelo            

come promesso, ti porto i semi                         

dell’intatta veglia, parola convenuta                   

nel buio penetrale, consegnata. 

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In virtù di lamina e grazia                                   

compiuti frutti ceduti all’oro degli autunni,       

segreto che nel tempo duri e mai marcisca     

in forma o stato che foglia muove.               

Esatta legge il nome visto, conseguito.

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Incompiuta neve eterno altrove                      

gloria di legni e tradite vette,                      

carte forre storte mappe. Schiena                   

al nulla spinta in luogo del giardino.                   

Chiudi gli occhi: il giglio dell’estate                  

è ancora lì sulle dune. Il picchio                      

del Nord, lontano lontano, vòltati:                      

è vivo il suo richiamo. 

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I tuoi quattro gradi sotto zero                             

i miei dieci sopra. Né questo 

vento del Nord ci avvicinerà

né un perfetto colpo di dadi.                           

Tu, resta oltre. Bussola di sabbia,            

eternità, terrestre asse di marzapane.              

La chiave dell’imperduto, eccola.                        

In cambio, la più pura pietra.

NEI VETRI DI UN’IGNOTA LUCE. Lucetta Frisa

1.

La casa ignota ci spoglia l’uno all’altra, febbrili. Fuori

ombre e sbarre, notte, cecità. Qui terra sempre più calda,

brividi e aria, colori. Mille mani orecchi narici occhi

per entrare angoli e odori, immagini e voci. Un lungo

tortuoso viaggio brucia la cenere e si libera nel fuoco

che già cresce dal basso e una sola fiamma avvampa letto

tempo e soffitto, devasta la difesa delle cose. Nelle pause,

respiro brezza mare e pianure, odori chiari, infinito

tenero al tatto. Ridiamo piano bisbigliando all’orecchio

parole piccole, sollecitando allluci e idee, bassi cespugli

di felci, onde quiete. Ad un tratto, la furiosa foresta, nera

e rossa d’improvvisi roghi, la fatica delle rocce, vertigine

e tempesta, cime ed abissi soli. Ci chiamiamo per nome lassù,

è freddo, un grido come un corpo per non stare aggrappati

al vuoto e cadere schiantati. Ora la casa ci parla affannosa

da tutte le porte crepe specchi serrature. Voci ebbre

di veglie e sonni, soffocate ariose di ritorni e partenze;

nascondimi ed aprimi, entra ed esci, porta tenda

finestra e muro, muro porta tenda e finestra e quella polvere

agli angoli prima non c’era e quello strano segno un po’ più chiaro

nei vetri di un’ignota luce?

Qualcuno comincia, lento, a vestirsi.

**

Con mano irrequieta bussa alla porta e la soglia

cancella i suoi rovi, lontane foglie di passati

autunni. L’attesa è una casa ombrosa dove un lume

qua e là nasconde e trema nei nostri occhi

spaziosi, nell’aria del tuo respiro che si avvicina.

La parete già mostra venature segrete, insospettate

cavità, segni di future finestre. Tende, muri

e soffitti conoscono il loro destino che questa fiamma

tenace e piccola tramuta in brividi e cenere

per guidare i passi nella luce. Vieni, corriamo

corridoi trafelati, asfissiate stanze, angoli bui

di bambole rotte, sirene che insinuano nenie

a chi comprende solo il silenzio: e infine

le scale che volano alte fino al terrazzo sul tumulto

del mare. Là dove tutto sembra aprirsi, arrivare e

risplendere, la sosta è breve e lunga l’attesa

di nuove inquietudini. E sai che devi cominciare

a tornare, ripetere l’oscuro tragitto che sempre

inizia da porte chiuse e frementi, perché la casa

non è mai uguale.

**

La casa è buia, cancellata dai luoghi.

Silenziosa, chiusa, abbandonata in fretta

o dopo titubanze e lunghe carezze ai mobili,

tanto calda e sensuale nelle notti e respinta

per grandi viaggi ventosi slacciati dai corpi.

Disseccata putrescente o prossima alla luce

in attesa di un nome chiaro, una strada esatta,

volti dai profili toccabili. Risuona

di fiati nascosti, ritmi convulsi o docili

come una grotta cava, i sonni vedono

mari antichi e futuri e poi ancora il vuoto

di passi in fuga o di indugi struggenti, finché

una bufera imprevista la squarcia, spalanca

il tetto, la grondaia e torna pietra affondata.

Polvere che qualcuno raccoglie per farne un altro luogo.

*I testi sono tratti da: Modellandosi voce, Corpo 10, Milano 1991.

RIVELAZIONI IN TEMPI DIFFICILI. Pietro Zino

Nicolas de Staël

**

Tutti dicono che sono cieco, ma non è vero. Questa storia va avanti da millenni. Vi garantisco che ero sotto le mura di Troia prima che le armi degli Achei e dei loro nemici brillassero al sole. I miei occhi hanno visto tutti quegli uomini, altrimenti come avrei fatto a descriverli come li ho descritti. Semmai la cecità era dentro il mio animo. Omero

Veni, vidi, vici. Se qualcuno ha mai pronunciato queste parole, quello non sono io. Sempre chiuso nella tenda ad ascoltare testimoni e ordini impartiti da altri. Quando l’esercito si spostava lo seguivo dentro una portantina con le tendine tirate, nella paura che mi vedessero in preda alle convulsioni. Ai miei luogotenenti e non a me va il merito di avere conquistato la Gallia. Giulio Cesare

Ammesso che esistano gli dèi stanno lassù e ignorano ciò che noi uomini facciamo quaggiù. La distanza tra noi e loro è immensa. Un aruspice mi ha detto che vediamo la luce di stelle già spente da miliardi di anni. È inutile che ci sforziamo di pensare il loro mondo semplicemente perché per loro il mondo non esiste. È una creazione nostra e siamo noi a dovercene fare carico. Quando si erige una statua in onore di un dio è una follia sperare in una sua benedizione, così come il fulmine che può incenerirla in un istante non è una maledizione. Lucrezio

L’aggressività non può essere contenuta in una brocca o in un bicchiere. In spazi così ridotti essa finisce per prorompere all’esterno togliendo lucidità ai combattenti. Il generale saggio sarà colui che tiene a bada un toro non aggrappandosi alle corna, ma lasciandogli un ampio spazio per pascolare. Massima attribuita a Sun Tzu (VI-V secolo a.C.)

È grazie alla sua penna che tornano alla luce i fatti della battaglia di Campaldino. Credo non abbiamo altre testimonianze su quell’evento se non la sua. L’ultima volta che guelfi e ghibellini si sono combattuti. L’Alighieri non aveva ancora ventiquattro anni e non aveva composto uno solo dei versi del poema, ma quel giorno faceva parte della schiera di armati che si preparava a reggere l’urto della cavalleria aretina. È solo un fante in mezzo alle urla e ai nitriti che una lancia nemica, se la sorte lo volesse, potrebbe ferire o addirittura uccidere. Popule mee, quid feci tibi? Provo a tradurla, allora, questa epistola. Ecco, più avanti scrive l’allegrezza grandissima… Leonardo Bruni, Cancelliere della Repubblica di Firenze

È necessario che cominci a prendere precauzioni contro me stesso. Ordinerò al mio servo che la sera prima di coricarsi venga a legarmi le mani e i piedi così che possa trascorrere una notte senza spaccare tutto. Temo però che così non mi sarà possibile difendermi dal mio sangue bollente che, come una belva, se ne sta acquattato nell’ombra vicino al mio letto pronto ad aggredirmi nel sonno. Carlo il Temerario

Trovo disgustoso il fatto che si voglia ridurre il mio libro a una faida tra castigliani e catalani, quando invece è chiarissimo che le vittime delle nostre azioni sono i nativi delle Americhe. Va bene, allora! Se non sono riuscito a convincervi con le parole vi mostrerò le mani, i piedi e gli altri resti dei corpi di quei disgraziati in modo che ve ne possiate fare un’idea. Ma sono certo che finiranno imbalsamati o sotto spirito in qualche museo. Bartolomé de Las Casas

Quanto scrissi l’altro giorno ha fatto molto male al mio vecchio servitore. Mentre accennavo agli Stoici che erano convinti non essere turpe cibarsi di un cadavere nel momento del bisogno egli mi si avvicinò e, con le lacrime agli occhi, disse che sarei stato di tutt’altra opinione se avessi visto le vie e le piazze di Parigi piene di corpi orrendamente mutilati la notte di San Bartolomeo. Dopo un lungo sospiro, gli risposi che la letteratura altro non è che una delle mille facce della menzogna. Montaigne

Amico mio fraterno, ho appena finito di leggere Nuova Atlantide. Perdonami la franchezza, ma non mi è piaciuto affatto. Fai un lungo elenco di cose assurde e inaudite che, se realmente fossero a nostra disposizione, salirei sulla prima nave e non mi rivedresti più. Tessi prima le lodi di un capofamiglia ebreo che a me sembra tutto fuorché retto, poi della castità che definisci “la vergine del mondo” e infine sostieni che il matrimonio non si deve celebrare senza il consenso dei genitori. Pensa che sono arrivato perfino a dubitare che sia stato tu l’autore di simili eresie. Per addolcire un po’ la pillola posso dire di avere apprezzato il consiglio che dai di bere spremute d’arancia come rimedio allo scorbuto che, come sappiamo, colpisce quasi tutti dopo una lunga permanenza in mare. Frammento di una lettera a Francis Bacon da parte di Robert Devereux, Conte di Essex

In camera da letto appeso di fianco all’armadio c’è sempre il mio vestito con lo strappo provocato dal coltello dell’assalitore e macchiato di sangue. Resterà lì finché abiterò in questa casa e quindi credo per il resto della mia vita. In me non c’è mai stato alcun desiderio di rivalsa o di qualsivoglia vendetta. Però quell’abito è l’emblema di un mondo che non fa passi avanti sulla strada del vivere civile. La scienza destinata a dominare le epoche future metterà ancora più a nudo i nostri vizi. Mai esisterà un microscopio tanto potente e sofisticato in grado di fare luce negli anfratti più bui dell’animo umano. Spinoza

Nelle sale di anatomia fa nu friddo ‘e pazze! A casa mia con la cera morbida faccio le budella proprio comm’a fusseno vere. mGaetano Zumbo

Una guerra va intrapresa non per cambiare i ministri di quel dato parlamento, ma per far sparire dalla società i ricchi oziosi che vivono allegramente sulle fatiche della povera gente che lavora. Spinoza scriveva che il sapiente si serve delle cose e ne può godere; io sono d’accordo con lui, ma voglio allargare la platea dei beneficiari. Desidero inoltre che il popolo comprenda una volta per tutte che le guerre e le rivoluzioni si fanno per il proprio beneficio e non per quello altrui. Carlo Pisacane

Ho in mente un mondo dove tutto deve essere fatto di vetro. Anche le armi, che pertanto dovranno essere impugnate da mani attente e delicate. Tutto l’opposto di quelle ruvide dei militari. Sono certo che alla lunga si stancheranno di maneggiarle e i pochi che hanno cervello muoveranno soltanto le pedine degli scacchi di vetro. Paul Scheerbart

Lazzaro fece ritorno ancora una volta tra i vivi, visto che la prima apparizione era stata eclatante. I piedi affondavano nella polvere di un pomeriggio assolato. Chiedeva informazioni ai passanti, ma quelli tiravano dritto senza guardarlo. Risalendo le scale della sotterranea si trovò sotto l’obelisco della piazza. Chiese al custode del cimitero a che ora chiudeva perché di là i ritardi non erano ammessi, ma quello gli voltò le spalle allontanandosi lentamente. Frammento anonimo risalente alla seconda metà del secolo XX

Coloro che ricoprono un grado nell’esercito, dai generali fino all’ultimo sergente, sono una massa di canaglie. Baudelaire dal canto suo disprezzava quello che definiva il canagliume letterario. Per tutti costoro dovrebbe esserci la forca. Louis-Ferdinand Céline

La sera del 22 aprile 1915 a Ypres il sole calava dietro l’orizzonte. Di lì a un mese quella cittadina belga sarebbe stata un guscio vuoto rischiarato dalla luna. Di lì a tre anni sarebbe assomigliata ai resti di un tempio scoperchiato da divinità incomprese in un mondo dove i morti sono più dei vivi. B. Henry Liddell Hart

«Qui giace don Francisco De Quevedo, cavaliere dell’Ordine di Santiago, Signore del Borgo di Sant’Antonio Abate». Ho ancora nelle orecchie la voce di Lorca mentre legge queste parole nella cripta che conserva le spoglie del poeta in un rovente pomeriggio di luglio. La guerra civile era scoppiata da poco. Lui era in preda a quella che lì per lì mi sembrava emozione, ma che in seguito compresi trattarsi di qualcosa di molto simile al terrore. Ricordo che un giorno interruppe all’improvviso il discorso che stavamo facendo e disse: “Sai che esiste una sola verità?” “Quale?” “La morte”. “Beh, è un fatto comune”, feci io. “No, è un fatto personale”. Pablo Neruda

Ubbidire ai superiori, lavorare duro, scrollarsi di dosso l’orrore della guerra. Questi sono i tre compiti che mi sono prefisso di portare a termine all’inizio dell’arruolamento. Ho assistito invece a disubbidienze reiterate verso i superiori, a decine di lavativi e di imboscati, all’orrore di cadaveri all’aria aperta come insetti sventrati. Ludvig Wittgenstein

Ho scritto Tecnica del colpo di Stato con l’unico scopo di mettere in cattiva luce Hitler e il nazismo. A Mussolini piacque, ma quando venne a sapere che il Führer si era infuriato diede ordine alla stampa di non occuparsene più, né in bene né in male. Lui che si era sempre vantato di non avere mai amato una donna, ma di averne sottomesse a centinaia in questo caso aveva mostrato la propria natura femminile. Curzio Malaparte

“Mi serve proprio una faccia come la tua”

“Ah sì? Perché?”

“Perché è un po’ da scemo. Ma solo se la riprendo di profilo”

“Allora riprendimi di fronte”

“Di fronte le facce sono tutte le stesse. Di profilo invece esprimono i loro tratti più peculiari”

“Allora lasciamo stare”

“Vieni in sala registrazioni domani, ma sul tardi perché la sera bevo troppo e la mattina fatico ad alzarmi”.

Un regista e un attore

Quando si costruisce un edificio dove prima ne sorgeva un altro bisogna avere cura di rimuovere le macerie e i calcinacci che ingombrano il terreno, in quanto una parte anche minima di questi potrebbe infiltrarsi negli ingranaggi dei macchinari edili facendoli inceppare. Il sia pur minimo ritardo, dati i tempi particolarmente ristretti con i quali vengono indetti gli appalti non può essere tollerato. Capo costruttore Baka durante il regno di Ramesse I (XIII secolo a.C.)

Il sonno profondo che elimina le scorie di una giornata qualsiasi non l’ho mai provato. Il mio è breve come un soffio di vento, galleggia in superficie come un tappo di sughero. È solo un esercizio negativo. Emil Cioran

Mi avvicinai e vidi che aveva un’ala aperta e l’altra raccolta sotto le zampette. Il corpo era inerte, ma la pupilla sembrava voler fare uno sforzo per aprirsi e così ebbi timore che fosse ancora vivo. Allora mi chinai su di lui per stringergli subito il collo fra le dita. Non potevo tollerare che soffrisse un istante di più. Non ricordo se lo feci, ma posai il fucile accanto al fagiano maschio. Dalle canne usciva ancora un impercettibile filo di fumo. Non ho mai più sparato. In memoria di un cacciatore

È Niobe che assiste impotente al massacro dei suoi figli, oppure Ercole che ha trafitto i mostri stinfalidi e sembra tendere un’ultima volta il suo arco? Nessuno potrà mai convincermi che sono soltanto le nervature di una pietra. Roger Caillois

Del mio soggiorno a Uppsala ricordo soprattutto il freddo. Per i miei amici che erano lì non era così tremendo, ma per me era insopportabile. Conservo alcune foto di quel periodo. In una sono a tavola e guardo l’interlocutore con aria stupita; in un’altra mi trovo nella biblioteca dell’Università con addosso una spessa vestaglia di lana a quadrettoni, che mettevo sopra la giacca e il cappotto e così infagottato trascorrevo giornate intere negli archivi. Da quelle ricerche nascerà la Storia della follia. Sono passati trent’anni. Ora non ho più capelli (non che prima ne avessi molti), i denti sono ingialliti, ho perso la metà del mio peso. Il freddo, quello è rimasto. E la vestaglia chissà che fine avrà fatto. Michel Foucault nel 1984

La canzone che presenterò a Sanremo parla di equilibri infranti, di un presente che non è più solo una minaccia ma è già distruttivamente operativo, della fatica di essere uomini. L’arca di Noè? La immagino come una barchetta che nonostante tutto è riuscita a prendere il largo. Sergio Endrigo

(+- ≤) : (%:18) + (&-4). L’arte di narrare si nasconde fra le pieghe degli algoritmi. C’è da chiedersi se il pubblico di oggi abbia ancora bisogno del fervore della narrazione o se bastino questioni di logica formale per costruire un discorso. Di certo fra alcuni millenni tutto sarà più chiaro. John Searle

Sono sempre stato convinto che qualsiasi forma d’arte abbia il compito di turbare, non quello di confortare o tanto meno di rasserenare. Se nei miei film sento il bisogno di mostrare le budella che escono da un ventre squarciato mi spiace per i deboli di stomaco. Aristide Massacesi (Joe D’Amato)

Quando giocavo dicevano che avevo il talento di mio padre. Ora che sono vecchio e che la vita l’ho passata quasi tutta senza di lui, penso che me ne faccio di quel talento e perché invece un raggio di sole non ha rischiarato il cielo così che il pilota potesse vedere la collina di Superga. Sandro Mazzola

Noncurante, ma non indifferente. Epitaffio sulla tomba di Man Ray

PER “L’ORSUTA”. Silvia Comoglio

Nina Nasilli, L’Orsuta, Collana Serendip, Book editore, Riva del Po 2025.

L’Orsuta, ovvero la poesia come materia viva

L’Orsuta, l’ultima raccolta di Nina Nasilli edita da Book Editore, è attraversata da una tensione costante tra il dire e il tacere, tra la materia che insiste e il senso che sfugge. Fin dai testi iniziali la poesia di Nina Nasilli si muove in un campo di attrito: tra interno ed esterno, tra comando e disobbedienza, tra desiderio d’infinito e misura finita dei giorni. La parola poetica è chiamata a “dirsi” (Ditta, ditta), ma nel medesimo gesto avverte la propria insufficienza, il rischio della dispersione, della distrazione, della s-memoria. Ne nasce una lingua stratificata, che procede per scarti, accumuli, fenditure, come se ogni verso fosse un tentativo provvisorio di presa sul reale.

La raccolta costruisce così un paesaggio esistenziale fatto di residui, impronte, dettagli minimi che resistono all’insensatezza del tempo: la luce dopo la pioggia, il legno consunto, l’alga cocciuta. In questo spazio fragile la nostalgia non è semplice rimpianto, ma forza interrogante, che spinge a misurare ciò che siamo stati e ciò che avremmo potuto essere. L’io poetico non si pone mai come centro sovrano, ma come punto attraversato: onda sospinta dalla corrente, corpo esposto all’incertezza, materia in relazione.

È in questo orizzonte che la sezione centrale, L’Orsuta, si impone come vero e proprio cuore della raccolta. Qui la scrittura compie un salto: dall’osservazione del mondo e dei suoi segni si passa a una discesa radicale nell’interno. L’Orsuta non è una figura allegorica pacificata, ma una creatura ambigua e necessaria: insieme orsa e gabbia, dimora e divoratrice, ferita e possibilità di cura. Il suo vello è interno, intimo, cresce con il pensiero e punge, graffia, lacera. La conoscenza non illumina senza costo: prude, fa male, ma costringe a restare.

La forza di questa sezione risiede anche nel lavoro sulla lingua, che non è mai mero esercizio formale ma pratica incarnata: il testo si fa corpo, si addensa in allitterazioni, assonanze e sdoppiamenti semantici (irsuta/Orsuta, orsa/Orsuta), fino a rendere la lingua essa stessa pelliccia, tessuto vivo che protegge e al tempo stesso espone. È in questo processo che l’Orsuta “disimpara”: sottrae, smonta, rinuncia consapevolmente al canto come forma di abbandono o seduzione, per affidarsi ad una parola spoglia che non promette consolazione ma assume la responsabilità di restare. Il disimparare si configura così come gesto etico: rifiuto delle forme acquisite, delle retoriche rassicuranti, delle posture già sapute, in favore di una lingua che accetta il rischio dell’inadeguatezza e del dubbio.
È in questo spazio che l’invenzione — “Sì, l’invenzione: / a tratti ci salva. / Oppure no. / Ma il tempo del dubbio / è sospeso, non corre: / respira…” — assume il suo significato più profondo: non atto sovrano né salvezza definitiva, ma pratica intermittente di resistenza, gesto minimo e fragile che apre una pausa nel tempo dell’urgenza e della ferita. L’invenzione non cancella la piaga ma la piega, non redime la ferita ma la trasforma in luogo di cova, in uno spazio di fermento dove qualcosa, lentamente, può ancora accadere.

È in quest’ottica, in questo può ancora accadere, che la raccolta, dopo L’Orsuta, si apre a una dimensione ulteriore: la verticalità della memoria, il dialogo con le figure archetipiche (Didone, Cleopatra), con i morti, con i profeti nascosti tra le cose. Il silenzio non è più solo limite, ma spazio di risonanza e il sacro non è dogma, ma magma, fioritura minima e ostinata sull’argine del tempo. E la verità non si manifesta come rivelazione assoluta, ma come processo: un fluire che tiene insieme eros e perdita, corpo e preghiera, resistenza e vulnerabilità.

In questo senso, L’Orsuta è una raccolta che non cerca consolazioni facili. Piuttosto, la poesia di Nina Nasilli accetta l’attrito, l’opacità, il rischio dell’errore. E proprio in questa fedeltà al non pacificato, al ruvido, al vivo, trova la propria forza etica e conoscitiva: dire non per dominare il senso, ma per restare, come l’Orsuta, dentro la materia incandescente dell’esistenza, e da lì continuare – ostinatamente – a respirare.

JOURNAL. Estate 2025, 2

Fausto Melotti, La nave di Ulisse

5

(Secondo frammento di lettera)

Sono appena arrivato. Quando partirà la nave? Gli uomini della ciurma sono al completo? Sappiamo già dei temporali e dei mostri che affronteremo. Ma non saranno dissimili da quelli che ci sòggiogano tutti i giorni. Ma parlarne rende forti. Ci ci ama saprà aspettarci o rimpiangerci, ma resisterà. Non importa essere vivi. Occorre essere vivi in sé. Ricordo che ieri, appena uscito dal cinema, vidi ombre affaticate, prostrate, che si trascinavano per la strada: la realtà dei miei compagni di vita. Così li evitai, rientrai, ripresi a vedere il film. Non una ma venti volte. Lì le ombre avevano spessore tragico, drammatico, grottesco, di ombre. Ammirai quella lotta. Capii che la finzione aveva un dovere: prendere alla gola il reale e staccargli la giugulare.

Guarda che luce potrei guardare

se dopo mesi di prigionia mi fossero concessi

gli occhi.

Ma le pupille sono strette dal buio.

Aspetto un sortilegio:

le passeggiate, sul lungomare della fortezza,

di guerrieri svegliati dal sonno, stupefatti,

amici intimi della nostra rivolta.

6

(Terzo frammento di lettera)

Hai smesso di scrivermi dopo la tua morte: un atto imperdonabile, privo di magia. Mi manchi. Avremmo dovuto trovare il modo di aggirare l’ineluttabile: tu da sempre li conosci, i mille trucchi. Ma non li hai usati. Non siamo stati forti. Ci siamo arresi alla maledetta evidenza del grande sonno, comune a tutti gli ex-viventi. Posso capire. Ma perdonarti no. Alcuni amici, grandi, vivi, svogliati, si sono rassegnati, ma solo in parte, al ciclo della creazione e della distruzione. Io fatico a farlo da sempre. Uno di loro disse che potevo essere il principe Myskin, ma si ingannava. Forse lo eri davvero tu, con il tuo andirivieni fra sogno da toccare e realtà da sfuggire. In questo frammento di lettera sento che ti ho appena scritto e che tu mi hai appena risposto. Vivrò per qualche mese con questa piccola gioia, che il tempo liquiderà. Ma, se resto cosciente, ti scriverò ancora.

Quante illusioni! Io so dalla punta delle mie dita, quelle che tu non smetti di stringere, ancora e ancora, che cosa è la gioia. Ma da quella gioia scaturisce una catastrofe futura: quella delle mie dita vuote di homo poeticus.

Quando la stanchezza va oltre, anche respirare non serve più.

Il tappeto, in cucina, non è un tappeto: lo sfiori, è pietra perfetta.

Abbiamo dormito per troppi giorni e abbiamo dimenticato la mèta. Le ossa pesano di più, quando ci si sveglia dal sonno.

7

Non andare oltre. Sei tu l’oltre.

Avere una sola cosa da dire. Morire mentre la si dice.

La doppia pagina: una luce, l’altra ombra.

Hai preparato le valigie? È ora di partire. Ci aspetta, con i suoi mostri, la città di Perla. Potremmo non andare, finalmente, dall’altra parte? È necessario, testa e lo zaino giusti. Fra pochi secondi.

Sosia nello specchio la stanza ondeggia.

Buia la parete, buia la mano.

Vuota.

Ragione che non resta.

Vedere oltre il muro origine e fine.

8

Trovare la civiltà adeguata alla mia musica. Ma esiste una civiltà? Esiste una musica? I barbari sono arrivati prima che io mi muovessi nel mondo.

Il mondo non è più leggibile. Giro attorno a me stesso. Colleziono racconti come se fossi dentro la Biblioteca di Borges, ma uno annulla l’altro. Li leggo come se esistessero.

Vorrei vederti ma sei troppo ordinata, tranquilla, troppo consona alle cose che accadono. Non va bene stare comodi in mezzo all’orribile che ti spacca la pelle. Preferisco non vederti.

A chi dovrei scrivere? Per chi? Da millenni ho perso il mio posto da scriba. Le cose ormai non chiedono testimoni ma complici.

Resistono, affissi al muro, i nomi degli scomparsi, ma per quanto resisteranno?

Al tramonto le pietre tornano splendide.

Ma è un miraggio. Chiudo gli occhi e vedo

buchi macchiati di sangue.

LETTERA PER UNO PSICOIDE. Lorenzo Chiuchiù

Caro Marco,

ho appena finito di leggere Sindrome del ritorno. Mi colpisce la trama della scrittura: la rete deve essere molto fitta per portare alla luce qualcosa che somiglia ad una mitosi psichica: nuclei che si dividono in apparenza ciecamente, guidati in realtà dalla forza che li informa e li trascende. Oppure: una specie di migrazione interna, che segue un sole accecato, un vento e una disillusione trasparenti, glaciali. Scrivi di una fuga ma non le concedi alcuna trascendenza. Non è insomma la fuga epica del ribelle (ad esempio Juenger), non quella di chi inventa una lingua del gesto angelico (Artaud) 
o del logos eternamente crocifisso e eternamente da salvare (Van Gogh). C’è un singolo che non conosce edificazione (nemmeno quella paradossale di Kierkegaard), né l’ebbrezza eversiva di Stirner. Tu scrivi di un movimento centrifugo; l’angoscia nasce dell’illusione di muoversi in un cerchio mentre si è su una spirale verso un qualche centro o abisso: lo psicoide deve concentrarsi, ridursi all’osso, deve trovare un luogo separato ma non lontano
 (a differenza del bosco di Juenger, della glossolalia di Artaud, o dell’“altissimo giallo” di Van Gogh). Questo movimento di contrazione tende alla concentrazione delle forze – non tanto a una qualche difesa, ritenuta per altro ignobile oltre che impossibile. È il tentativo di diventare interi in un dominio chiuso ma non immobile: quello che provavo a definire come mitosi o emigrazione interna. Dunque non nevrosi che insiste sul perimetro e lo ripercorre ossessivamente, né psicosi che vuole altri cieli e altre terre. Lo psicoide di cui scrivi parte dal “monolocale da dove puoi – devi – guardare la tua vera casa”: l’oculare – il punto di una luce concentrata – del microscopio così come quello del telescopio sprofonda – diventa – spazi sconfinati nel minuscolo o nell’incalcolabile, le “galassie nuove”. E così quando “corri verso l’insensato. Hai due possibilità: incontrarlo e ammutolire nel suo abisso; incontrarlo e farne la vera sorgente”.

Ti abbraccio, Lorenzo

JOURNAL. Estate 2025, 1

1

Non c’è proprio nessuno spazio. Non qui. Non ora. E quando non c’è spazio è inutile cercarlo a colpi di piccone: bisogna entrare in transe. Le porte laterali, sempre aperte, sono fatte di vento. Sono fessure rese ampie dal sogno.

Nulla è più semplice della transe: In un attimo si smette di riconoscersi e si va dove non sappiamo.

Gli orari? I treni? Materia del nulla.

Ho un istinto romanzesco. Ma serve, adesso, narrare? Gli scrittori si vantano di tessere trame borgesiane ma sono prigionieri di architetture illusionistiche, evocate in salotti eruditi.

Scrittore bastardo: non viene da nessun luogo.

2

O angeli surreali! Almeno non aveste le ali!

Penultimo di otto fratelli, Robert Walser. Si ricordano Karl, disegnatore; Ernst, malato psichico; Hermann, docente di geografia, suicida. Ma io penso a Frieda Mermet, stiratrice, la sola donna che Robert amò. Vorrei leggere le loro missive, ma non ne ho l’occasione.

I morti, non i vivi, creano spazio.

Parlo di letteratura ma, mentre ne parlo, le parole brulicano, smosse dal mio stile, come resti umani fra le macerie: inventano, gridano, fanno male.

Fogli in ostaggio? I miei, i tuoi, i loro.

3

(Primo frammento di lettera)

Mi leggerai, ma prova a non leggermi: io non scrivo a nessuno. Sai, alla perfezione, che parliamo dentro le parole e diciamo senza dire. È la nostra zona d’ombra: sarebbe crudele se ci venisse strappata.

Imparare a essere rivoltosi. Quel filo teso sulla linea delle cose.

Chi dominerà, nell’orribile inferno di ghiaccio?

4

Nietzsche, inverno 1972.

«Tutto mi si impone, io non vi rifletto oltre, tutto mi viene incontro, e il regno smisurato si semplifica nella mia anima, in in modo che, presto, possa portare a termine anche il compito più arduo. Se solo riuscissi a partecipare a qualcuno la vista e la gioia, ma non è possibile. E non si tratta di sogni, di fantasie; è un percepire la forma essenziale con la quale la natura è sempre come se solo giocasse e, giocando, producesse la molteplice vita. Se avessi tempo in questo breve lasso della vita, oserei estendere ciò a tutte le sfere della natura, all’intero suo regno. Goethe»

Cosa importa se Goethe non comprese Schubert? I geni non sanno mai riconoscersi: sentono l’altro come nemico della propria verità.

Leggere libri senza aprirli. Vederci dentro, dove si intuisce un sole.

Avremo ancora l’occasione di cercare il disegno della nostra vita senza, delusi, infilarlo sottoterra come un fiore estraneo alla luce.

L’enciclopedia dei morti è la vera Biblioteca di Babele.

VENGONO DAL GIA’ ACCADUTO. Per Annalisa Rodeghiero

Di Opposte verità, il nuovo libro di Annalisa Rodeghiero (MC, collana Gli insetti, 2025) scrive Pasquale Di Palmo nella bandella di copertina: «La “soglia dei disorientati”, il “fuorimondo degli scorticati” rimandano al fuoco dell’amore, e al contempo a quello della scrittura poetica». Il libro, un trittico composto da testi scritti tra il 2021 e il 2025, si presenta come un prosimetrum in versi e in prosa suddiviso in tre parti: «D’estasi e paura», “Interludio”, “Rive di vento”. Ciò che subito trafigge il lettore è la forza magnetica che sospinge le parole a sempre nuovi inizi, come un’onda che non si arresta: “Nell’accadere improvviso, “Custodite intatte le lettere”, “La vita è questo andare incontro al sole”, “Vengono dal già accaduto”, “Sarà forse un turbìnìo di neve”, “Era lo scarto d’impalpabile cenere”. “L’indugio non chiede la sua fine”, “Riposta la ritualità dei gesti”: ecco alcuni esempi. Bastano questi incipit, questi frammenti aforistici, a conferire al libro un tono di nuda potenza che mai impone un senso logico definito ma lo trova parola per parola, parola dopo parola, in un segreto soliloquio dell’anima. Ho usato il verbo “trafiggere” non a caso. Nessuna di queste composizioni è un diario lirico ma, al contrario, è il fulmineo accadere di un evento. Questa poesia rinuncia a narrarsi in modo confidenziale, crepuscolare: «Riporta la ritualità dei gesti/ in clausura d’anima/ abbandonati luoghi d’estasi// oltrepassare il ponte d’acque opache/ è chiudere le palpebre alla vita/ maceria su cui edificare altari di nebbia.// Mia incredula nel palmo verità/ che di me sa ogni disperata piega»; ma e immediatamente tragica: «Prima ci si espone alla/ rottura nel peso/ dell’invisibile a volte/ tremendo scrivere per/ riconoscere/ l’altro di, l’altro da/ noi l’attimo prima». Cioè esige l’abisso, il deserto, l’ombra.

Le “opposte verità” di Annalisa si reggono sull’energia del dubbio, che le contrappone e le raffronta, senza che ci sia né un vincitore né una verità assoluta. Per epifanie si esprime la delicata potenza di un congedo: «Lo stordimento del vivere e del/ morire è un accorrere d’organi ostinati/ / nell’inattesa foce a un passo dal nero/ l’indefinito trama sui bordi/ preme nell’ora precisa// chiede frantumazione, gesto/ e compimento».

Poesia filosofica? Appunti amorosi? Frammenti di pensiero? Forme di sentimenti? Qualcosa di inafferrabile e di effimero che passa come un vento? Non chiediamo a Opposte verità una cornice rassicurante ma un clavicembalo ben temperato sull’asse creazione/distruzione. Come scrive Laura Caccia noi, poeti, siamo qui, “ostinandoci a scalfire parole – senza mettervi fine». (M.E.)

Testi

Nell’accadere imprevisto

un futurarsi di visioni

nelle parole dell’irreversibile

la percezione vigile dal pieno

celeste e contromano qui

in sinfonia d‘intese a predisporre

fondali di vita dove ogni forma si fa.

*

Ma in quale meridiano di luce

muove quel suono, la voce

sul volto svuotato

con quale certezza avanza

libera sui bordi aderisce

vento all’erba si eleva dove

solo ciò che è presente manca.

*

Era lo scarto d’impalpabile cenere

e non la fiamma, il mistero.

Andare così verso

l’amore per quell’alone

perdurante nelle cose

a dire di noi l’essere stati

nient’altro che inafferrabile crepitìo

*

Vengono dal già accaduto

distese di tenebra e luce

l’una e l’altra al levarsi

dei polsi dalla schiena.

Sospesa non sa, la fronte

vertigine e presagio.

**

*Annalisa Rodeghiero, Opposte verità, edizioni Medusa, collana Gli insetti, a cura di Pasquale Di Palmo, Fano 2025.

SBUNDO. Jonny Costantino e Fabio Badolato

Riflessione calda su tutto, di Lorenzo Saiani

Dopo Sbundo di Fabio Badolato e Jonny Costantino

Ore 5:23 del mattino, 13 novembre 2025, nei postumi della visione al Cinema Modernissimo di Bologna.

Ho voglia di scopare, inculare ed essere inculato. Io voglio…

Ripenso a quei corpi, fuck It! Mi rinnamoro costantemente: dentro, fuori, dentro, fuori, dentro, fuori e via dicendo.

Quante carezze, quanto amore. Così ci si avvicina ad un corpo: big fat black cock!

Basta con questa lontananza, pelle contro pelle, carnalità totale. Me ne fotto! Distruggiamo i fuochi e bruciamo le immagini: la vita è quello che conta, stiamo con loro…stiamo con noi. Divago divago divago, stupendo, mi squaglio nel divagare, amo entrare in un flusso, amo sditalinare la mia vita, le parole, il mondo.

NON CHIACCHIERARE CHE TI STANCHI…

Ok, mi stoppo, ti scopo… Omertà. Quanto amo questa parola, quanto mi piace nascondere… Perché una persona viene uccisa? non lo so, non lo so, non lo so. La vita è la morte, la vita è scoparsi la morte, la vita è vivere con la morte. Continuo a nuotare nell’oscurità, vado sempre più a fondo… questo è un pezzo di me, un mio feticismo, un mio sensuale ardore… l’uomo violenza, l’uomo sacca di sangue, l’uomo carne da macello.

Vorrei essere accoltellato dal ragazzo che gioca con il coltellaccio. So che farebbe un taglio preciso, lui, il miglior chirurgo di vita, uomo bisturi… questo taglio farebbe nascere dei fiori, il mio torace squartato come miglior orto botanico del mondo… la vita.

Puttane, puttane, puttane, puttane… che belle che sono… angeli… liberazioni… teli di seta… cotone ancora vivo… fuochi. Io fiamma rovente alimentata dall’amore della prostituta, io corpo ferito, io orto botanico viscerale, io gangster dimmerda divoratore e creatore di bellezza.

L’energia non si crea né si distrugge, ma si moltiplica… questi sono i corpi, le scopate, le uccisioni, la droga, lo sbundo totale della vita… vorrei essere… non sono… vorrei accarezzare… avvicinarmi… amare,,, toccare… sentire… vivere e viverli. Corpi che hanno sentito tutti, corpi arrivati, corpi costruiti, corpi adonici.

Guardo, guardo, guardo, guardo, piango, piango, piango… vesti la giubba… generatore, amore distorsione corporale… mi piego, mi spezzo, vengo…

Casta diva…piango… amo… vivo… sto… mi lascio… vengo.

Pochi secondi… nessuna parola… nessuna pietà… muoio. Crollo, sono un bove stremato, ucciso dal campo, ucciso dal vento, morto… oltrevivo e ultravivo. Ora vedo… registro… creo.

Vorrei essere corpo… Vorrei essere anima… Vorrei…

Sono.

**

Jonny Costantino è cineasta e scrittore. Nel 2000 si laurea in Giurisprudenza con tesi in Criminologia (Il grande criminale tra criminologia e cinema) e subito avvia una collaborazione biennale con Vittorio De Seta (il regista di Banditi a Orgosolo). Nel 2005 fonda con Fabio Badolato la BaCo Productions e nel 2019 con Rita Deiola la Salamander Giant, entità produttive entrambe attive. È il direttore artistico di Ultracinema Art Festival e insegna Regia alla Blow-up Academy di Ferrara, di cui è vicedirettore artistico. Vive a Bologna. Tra i film: Just Play and Never Stop. Un viaggio spericolato nel jazz (2025), Sbundo (2020-24), Carnale Carnale (2023), Dallarte (2023), La lucina (2018), Il firmamento (2013), Beira Mar (2010), Le Corbusier in Calabria (2009), Jazz Confusion (2006).  Tra i libri: Piressia (2024), Cormac Blood Dance (2023), Giovanni Blanco (2023), Ultraporno (2021), La mano bruciata. Scrittori, pittori, elezioni (2021), Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista (2020), Nella grande sconfitta c’è la grande umanità (con Michael Fitzgerald, 2020), Mal di fuoco (2016), Volti a fronte (con Domenico Brancale, 2013). 
E’ stato redattore di “Cineforum” e caporedattore di “Carte di Cinema”; nel 2009 ha fondato “Rifrazioni. Dal cinema all’oltre” e nel 2010 “Rivista”; attualmente è redattore del “Primo amore” e collabora con “Antinomie”

LA VERA IPNOSI

Come sempre, quando si legge questo poeta, si resta ipnotizzati dal mistero che percorre le sue parole, felicemente incomprensibili e felicemente reali. Non esiste, per lui, l’interezza della cosa. Sarebbe una falsa pienezza: esistono angoli, punti di cambiamento. Movimenti di attesa nell’invisibile. Nessuno come lui sa che vedere tutto è un’illusione, la produzione di un falso. Occorre percepire fratture, impressioni, fughe. La vera ipnosi è l’insuccesso di contenere la realtà. La realtà è inafferrabile, come la verità che Musil paragona alle vibrrazioni del mercurio: è la fotografia di un invisibile che rimanda sempre all’impossibile.