Gianni Priano, I prati bruciare, Temposospeso edizioni, Genova 2025
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Un romanzo? No davvero. Una serie di prose? Nemmeno. Scritture, credo. A libero modo. Dentro la biografia e dentro il pensiero. Leggere questo libro è mettere aria nella propria testa. A cominciare dal titolo, che è un’invocazione, un grido, un avviso: “i prati bruciare”. Cosa leggiamo, qui? Storie disinvoltamente appuntate sul foglio, avversarie di ogni rigida struttura narrativa o romanzesca, confessioni spericolate ed efficaci. Ascoltiamo un Tristram Shandy di campagna? Gli editti di un poeta civile? I sermoni di una creatura spiritosa? Le cantilene di un poeta innamorato? Tutto, e simultaneamente. La serietà tragica, in Priano, si sposa a un’ironia fulminea, espressa in modi orali, che non consente al lettore di capire i “venti” del libro, le sue direzioni, ma lo persuade a leggere ancora, fin verso la fine, dove l’io narrante si smaschera e racconta le sue quattro morti. «Faccio a fatica a dire della quarta maschera. Perché le parole non sono le cose e non ci sono parole quando le cose non si capiscono. Non ci sono parole per le cose che non si capiscono, tipo che fine ha fatto la quarta maschera quando morii la quarta volta o che se ci sono è solo per dire che non ho capito». Avvolto da una surrealtà dolente, rivoltosa e reale, chi legge ringrazia chi scrive. (M.E.)
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TESTI
La morte è quella cosa che se la nomini, se ne parli, ti guardano e ti dicono: ma dai, parliamo di cose belle. Non tutti te lo dicono, ma la maggioranza. Il tema della morte è prioritario, di nicchia. Di malattie, la gente parla volentieri perché la malattia è cronaca, racconta i fatti, fai un po’ l’ottimista, dici del catetere, dell’operazione che è andata bene. È stata lunga ma è andata bene. Della morte, invece, se parli come fosse cronaca (e lo è) guai al mondo. Sei macabro, ti dicono. Basta parlare di queste cose. Sciò. Qui però ne parlo perché qui non facciamo conversazione. Qui facciamo un libro, raccontiamo una storia.
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Il Cristo di Grünewald, ancora prima di essere crocefisso, sembra che ne abbia prese tante da levarlo d’insieme. Eppure, ci sono persone che sono morte soffrendo dieci volte di più. Persone abbandonate come lui dal padre, non solo: anche dalla madre. Tutti quelli che guardano la crocefissione dicono: porco cane che piedi tremendi gli ha fatto. Solo un artista che è entrato proprio bene in quel dolore sa dipingere dei piedi così.
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La depressione secondo me sta nell’area del sacro, la tristezza in quella del santo. Cioè. Secondo me la differenza tra santo e sacro è che il santo sale dal basso, il sacro scende dall’alto. Cioè. Il santo lo scegli e costruisci, il sacro ti sceglie e buona notte.
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Il motto del reggimento di mio nonno era: Non chiedo dove. Un motto orribile, una porcheria di motto. Non solo bisogna chiedersi dove, ma anche da dove e perché. Sono le tre domande che ci fanno umani, queste: da dove, dove, perché. E magari anche come.
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Il libro che dice io qui finisce… Perché questo libro è la giustificazione dell’io che sono proprio io con tutte le mancanze, le confusioni e gli equivoci. E senza questo libro che ho scritto sarei senza giustificazione. Tremerei nelle gambe, non avrei il coraggio di guardarmi allo specchio.
Così Luciano Neri descrive il canovaccio del suo ultimo libro, Opera Buffa (Tic Edizioni, UltraChapBooks 2025): «Opera buffa, per come è stato pensato e scritto, merita qualche delucidazione. Prima cosa da dire è che si tratta del canovaccio di un episodio storico che riguarda la fuga di Mussolini, prima di essere catturato e fucilato. Alessandro Pavolini è l’alterego, il falso eroe, anche lui destinato alla fucilazione, che diventa protagonista mentre Mussolini è ormai la controfigura di se stesso. Questo canovaccio si dispone in scene e quadri, con una struttura da operetta, ma il testo alla fine è quello che è, attraversando i generi, né romanzo né opera». Nel libro si rincorrono immagini e temi: il bosco, la guida, gli uomini in colonna, le azioni e le direzioni, del viaggio: davanti al lettore scorre un romanzo criptico nell’elencazione delle immagini ricorrenti, nella disubbidienza a una sintassi prevedibile. La partitura sfuggente del viaggio è un’odissea faticosa, dove gli ordini si mescolano alle rinunce, fotografata con brevi scatti nella pagina, dove a volte appaiono dei nomi, forse parodici, come Bellamorte e Thule. Tutto è polverizzato in un camminare privo di senso, ma il lettore avverte un ordine musicale e compatto nei quadri/sequenze che si succedono, con lo sguardo sfiora linee, corpi, curve, passaggi, cose. Ma di quale ordine parla questo libro senza eroi, che elude le interpretazioni e delude gli appagamenti? Il titolo, Opera buffa, suggerisce che la tragedia è anche farsa, che quella fuga, descritta in dettagli concreti e astratti, è avvolta in un alone: il lettore, inoltrandosi nel cammino del libro, diventa uno dei tanti uomini descritti nelle singole scene come fantasmi. Si percepisce l’ombra di Werner Herzog, e le immagini diventano, involontariamente, le tracce di un esodo, proiettate nel libro pagina dopo pagina. Senso e sintassi si fanno strumenti inservibili. Il libro, orientato dentro una temperatura sconsolata, sperimenta non un linguaggio frammentato ma la struttura ossessiva della descrizione. Chi legge sarà costretto a rileggere, perché il libro crea un effetto di ascesa e discesa, sussultorio, ondulatorio, e sembra mutare a ogni lettura: nel suo teatrale susseguirsi di scene lascia una scia (quale?), evidenzia un cammino bloccato, insensato. Le astrazioni della lingua non sono misteri da svelare ma pezzi di vuoto dispersi nel viaggio di un Sisifo abulico e svuotato: ma è e resta un viaggio, che cerca un “rifugio oltre confine alla fine solo mentale”. La prosa di Luciano Neri trova qui una poesia controcorrente che rifiuta il cimitero di qualsiasi definizione per galleggiare in una sua desolata ipnosi, “né romanzo né opera” ma atto sotterraneo di rivolta. (M.E.)
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Scena quarta
Verso l’ultima Thule è il punto delle lunghe albe di azioni che si perdono, avvicinate da nuvole svelate, azioni scese sulla terra, insieme al cielo in cambio di doni (inno), azioni verso il fuoco del gran rogo e le acque del lago, due dei quattro elementi che restringono/restringerebbero il campo, con le fiamme in evidenza tra loro, e gli altri ad avvicinarsi alle acque e/o al fuoco per l’ultimo appello, ad azioni degli smarriti, adesso più sconfortati per credere all’inno, al pensiero che avrebbero voluto intonargli di fronte una volta apparso, in mezzo a una ragione che adesso lo intonano, qualcuno da incontrare a loro più simile se non identico e/o se non uguale al posto della presenza, a procedere sempre in avanti a imitazione di un modello, o indietro per venirne a capo.
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Scena ottava
E a dire che nessuna notizia non controllata a sufficienza, abbia saputo precisare quanto fosse raccomandabile quella nuova compagnia che si era/si sarebbe resa disponibile a condurre la guida e i suoi uomini da qualche parte verso (…), un rifugio oltre confine alla fine solo mentale dell’azione in vista di presentarsi altrove e/o nei pressi del paese di Bellamorte, non è certo questo un dato confidenziale più di altri adesso per degli acuti osservanti, ossequiosi persino allo scopo di sfuggire a sé stressi, persino per voler oltrepassare l’ostacolo, bloccati da più ore in uno stesso punto.
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Fine
Fermi alcuni minuti che si rivolge a lungo una biografia alla guida nella linea di una colonna che si è separata definitivamente, distanziata del tutto dall’osservatore, convinti di fissarla con delle frasi, con i dialoghi dei sottintesi resi agli impliciti che uno non può dure quello che vorrebbe in mezzo alla natura, in un luogo remoto delle azioni che si stanno perdendo, all’epilogo dell’ultimo atto, nel momento di una fine così attuale che adesso è il meno partecipe, a seguito di una pausa istantanea accordata da esemplari umani di caccia all’uomo dell’epopea. Lui proprio che ci mette/ha messo del suo a quello che è rimasto appeso della trama maggiore, in anticipo solo di qualche anno adesso alle inseparabili solitudini, da sé stesso a emanazione quando le sue presenze nei boschi si sarebbero emancipate, adesso fermo e immobile di schiena, dinanzi ai creatori dell’epoca.
Marco Ercolani mi ha chiesto cosa ne penso di questo suo libro “strano”. (Le ore corte, Joker Edizioni, 2025). In primis dico: è un libro che cura (del resto Marco nel suo blog Scritture afferma: Scrivere e curare, che può essere declinato anche nella formula Scrivere è curare, la propria anima e l’anima del mondo).
Poi aggiungerei che non solo non lo trovo “strano”, ma lo trovo innovativo, originale e necessario, oltre che una sorta di postilla a completamento e approfondimento critico al precedente libro scritto a quattro mani con Lumelli, Cento lettere (Joker Edizioni, 2023). Tutto nasce da un’amicizia e stima letteraria (interrotta solo dalla scomparsa recente di Angelo Lumelli), che sfocia in un carteggio tra due poeti e critici che si sono interrogati ed hanno scritto da sempre sulla scrittura e sulla poesia.
Ne sono nati due libri complementari poetici e metacritici il cui denominatore comune era “PENSARE LA POESIA”, declinata in molte varianti e riassumibile come “disarmante, umile, diligente, e caritatevole” per Lumelli e come ”un azzardo solitario, un vuoto abitato e una lezione di vento, una visione creativa tra le crepe della follia” in Ercolani. Il libro mi ha ricordato il famoso carteggio tra Cvetaeva, Rilke e Pasternak, Il settimo sogno, scrigno amoroso e poetico di rara bellezza.
Ma se in Cento lettere i due poeti si scambiano commenti e visioni su libri, idee e poetiche, in Le ore corte Ercolani escogita un congegno narrativo-critico poetico che rimanda ai frammenti cosmogonici di Benjamin, una sorta di pensiero dialettico della poesia, realizzando un’antologia critica su Lumelli chiamando a testimoniare da una parte gli scritti di Lumelli, dall’altra i suoi commenti personali, citazioni e postille, e richiamando stralci critici di suoi amici, come Cagnone e Coviello.
Ecco un esempio dello sguardo critico nobile, avvolgente e abbagliante di Ercolani:
“La poesia che abbaglia. La prosa che si fa dire e disdire. Angelo è immerso nel guado di entrambi i fiumi. E si sente, giustamente, con le spalle al muro, con quella sua aria da conversatore malgré lui, felicemente innamorato delle circonvoluzioni del suo pensiero. Con Lumelli non possiamo che ammirare un pensiero laterale, lontano da ogni centralità: un pensiero-chimera. Volatile e fluttuante, veloce e mobilissima, Chimera appare e scompare, scoraggiando ogni tentativo di senso. Non pone domande, non cerca risposte. La sua virtù è l’inesauribilità, la sua tentazione l’onnipotenza. Non docile, non addomesticabile, la sua aerea sostanza continuamente ci sfugge. La differenza con la Sfinge è quella che separa l’enigma – il segreto di cui si può trovare la soluzione – e il mistero – il segreto la cui soluzione è impossibile. ‘Fantasia dell’illimitato’, ‘Metafora di metafore’, Chimera è affine all’immaginazione assoluta, e quindi al delirio”.
E nella premessa al libro scrive ancora:
“Chi scrive di Angelo non commenta la lingua del poeta ma si allea ad essa, si insinua nelle sue pieghe, la evoca, la nomina, la interroga, ci viaggia dentro sapendo che ne sarà sviato. Il poeta sorride sornione, già lontano dal mondo “Ti ammiro”, bisbiglia, “ma non avrai sbagliato strada?”
Ercolani evidenzia bene come Lumelli sia uno scrittore che infrange gli schemi e le sue parole sono “il bisbiglio di un coro invisibile” sempre alla ricerca di nuovi orizzonti e significati tra prosa e poesia. Commentando il libroViceverso. Antologia di prosa poetica, Ercolani mette in luce: “un delicato cortocircuito fra gusto carnale del linguaggio e sapore astratto del pensiero”.
In questo libro, Ercolani realizza in pieno la tecnica cinematografica del montaggio tanto cara a Benjamin, assemblando e mettendo in dialogo frammenti poetici, critici, prosa, poesia, memoire, carteggi, di grande impatto poetico e critico.
Un esempio su tutti è il capitolo I poeti del liceo, in cui emergono gli amori letterari del liceo come Jacopo da Lentini, Guido Cavalcanti, Bernardo da Chiaravalle, Dante e Leopardi (“Le poesie di Leopardi sono inermi ed oneste…la poesia, astuta, non voleva nulla di anticipato, bensì il nulla conquistato, attraverso l’arte onesta del linguaggio fallito”.
Ma ci sono gli ultimi due capitoli/frammenti del libro, Tirare il fiato di Ercolani e Di luce radente di Dario Capello, che vale la pena non solo leggere ma imparare a memoria.
In Tirare il fiato Ercolani chiama a testimoniare sul fare poesia illustri poeti sabotatori del linguaggio e della Storia come Mallarmè e Celan per dire che: “La parola è stata canto. Ha conosciuto la sua natura di canto, la sua felice onnipotenza. Ma è tornata da tempo a essere fragile, grido, traccia di dolore” e più avanti scrive:” La poesia…si scopre porosa, lacunosa, smossa da sussulti” e ravvisa nella prosa di Leopardi dello Zibaldone, il “pericolo perfetto”…”Lo scrittore deve essere spericolato, privo di steccati, mosso da attrazioni, umori, estri, erudizioni, camminamenti-riflessioni daflâneur”.
Il capitolo finisce con un’altra citazione di una lettera (una delle ultime) di Lumelli a Ercolani e nell’occasione scrive:
“…essere una comunità (due, più di due…) che cerca fino all’osso del linguaggio che faccia diventare un’esplosione di verità”.
Nel capitolo finale Capello riassume bene le similitudini i punti di contatto e le affinità tra il mondo di Lumelli e quello di Ercolani che ravvisa in:
–Pulsare del pensiero
–L’amore per Genova
–La porosità dei punti di vista e del linguaggio
–La postura sovversiva
A fine lettura del libro si ha l’impressione che Ercolani abbia ridato vita alle parole di un fantasma presente in carne e ossa nella vita e nel linguaggio di una generazione di poeti, folli, innamorati, eretici amanti dell’invisibile, dei reietti e delle malerbe che si annidano negli angoli nascosti della mente e ci abbia fatto toccare con mano la praxis di due sciamani in cerca di verità che scrittura, memoria e desiderio, sono solo un PRE-TESTO per continuare a vivere. Ma, prima di concludere questo mio frammento critico, mi preme segnalare e sottolineare un’altra riflessione di Ercolani contenuta in una delle “Cento lettere” scritte a Angelo Lumelli:
“…Tessono e disfano, i poeti, rapsodi inebriati dal pensiero laterale. L’esistenza demonica e irrefrenabile, il varcare se stessi, sopraffatti dal terrore e o inebriati nell’estasi, non è psicosi. Ma ci corre vicino, come sull’orlo della fiamma. Accade come se il demonico, represso o sedato, nelle malattie riuscisse a scaturire, a trovarsi un luogo d’elezione, un varco. Ma qui torno al mio pensiero dominante. Non di malattia parlo, di quella che impoverisce l’io nei sintomi, ma di una giungla informe e disordinata, dove l’anima, abbandonata a un brivido metafisico, mostra la propria profondità disordinata, la tenta il crollo, il cadere svuotata, l’informe del caos. Ma resiste.”
«E una nube di polvere si vede alta levarsi e par che giunga dal cielo»
Conflitti interni
Ci vuole un quarto d’ora per arrivarci.
No, è necessario molto di più tempo.
Dobbiamo arrivare per forza entro un quarto d’ora. Un solo minuto in più e sarebbe tardi.
Mi spieghi il perché di tutta questa fretta, papà?
Il tempo per me ha un altro andamento rispetto a quello che ha per te.
Sì, ma qui si tratta semplicemente di ritirare un documento all’ufficio che rimane aperto mattina e pomeriggio.
Mattino e pomeriggio per me non sono la stessa cosa. Il sole ha una inclinazione diversa, le ombre che proietta sul terreno non sono le stesse. L’aria è più umida al mattino e alla sera, più secca nelle prime ore del pomeriggio. Il grado di sudorazione cambia il movimento del diaframma. Le pulsazioni variano. Adesso riesco a reggermi in piedi, fra un minuto non lo so. La stessa cosa succedeva al fronte, quando non sapevamo se saremmo stati ancora vivi l’istante dopo. Con il tempo avevamo imparato a giocarci a pari o dispari la vita e, siccome tenevamo il conto dei morti tra quelli che avevano perso con il pari e quelli con il dispari, questi ultimi andavano a rannicchiarsi in un angolo aspettando la morte senza più aprire bocca. Proprio come il selvaggio di Moby Dick.
Va bene, però ora siediti e calmati un po’. Ti porto un bicchiere d’acqua.
Zuccherata?
Come preferisci.
Vedi, non sai nemmeno che sono diabetico.
Tu non me l’hai mai detto.
Non ci siamo mai detti niente che valesse la pena. Ho una fitta al petto, non respiro…
Forse hai ragione; in un quarto d’ora possiamo raggiungere quello stramaledetto ufficio. Muoviamoci!
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Commilitoni
Pensi ancora alla guerra?
No, o almeno cerco di non farlo.
Anche a me rievoca brutti ricordi. Però, da quando ho iniziato questa attività a volte ne sento la nostalgia.
Il lavoro non va bene? Io mi diverto con il pachinko e vedo che la sala è sempre piena.
Prima o poi cambierò mestiere; questo non mi piace. Non è un buon segno che un gioco diventi così popolare da tenere occupata tanta gente. In questo modo il mondo non migliora. A Singapore sì che erano bei tempi. Mi capita spesso di ripensare a quando eravamo sul Ponte del Nord.
Arrivammo là dopo due settimane di avanzata continua delle nostre truppe.
Marciavamo quasi senza sosta giorno e notte; cinque ore al massimo tra rifornimenti e riposo e poi via, sempre avanti.
La Costellazione della Croce del Sud era luminosissima e le stelle si potevano contare una ad una.
Capo, la macchinetta numero 18 si è bloccata. Il cliente continua a sbraitare e si è messo a prenderla a calci e pugni.
Tu pensi ancora che debba restare in questo bordello?
Davvero non c’è rispetto né disciplina.
Capo, quello pretende che tu vada subito di là a rimettere in sesto la macchina, sennò distruggerà il locale. C’è molta confusione e la gente è spaventata.
A questo punto è necessario applicare senza indugi l’articolo 11, comma 6 bis del codice marziale. Il sabotatore sia passato per le armi e i familiari obbligati a pagare le spese del funerale, nonché eventuali danni arrecati al suddetto macchinario.
Agli ordini, signore!
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Calcoli infallibili
Un proiettile lo ha colpito in piena fronte, appena sotto la visiera dell’elmetto. Il caso e la morte hanno una base comune. Il sangue ha una componente d’acqua: forse, addirittura, altro non è che acqua colorata. Ma queste sono considerazioni fuorvianti. Bisogna concentrarsi su ciò che è avvenuto e provare a ragionare su come porvi rimedio pur nella consapevolezza che, in simili circostanze, la sorte giochi un ruolo determinante. Procediamo dunque con l’analisi. Un rivolo di sangue esce dal foro procurato dal proiettile, scende lungo la parete sinistra del volto descrivendo una linea perfettamente verticale che, attraversato l’occhio sinistro, continua a scorrere superando a sua volta lo zigomo e andando infine a esaurirsi nel lato corrispondente del mento, dopo aver sfiorato di quarantatré millimetri l’ossatura nasale. Se, come risulta da una serie di calcoli balistici inerenti al fatto che il colpo è stato esploso da mille duecentoquaranta metri di distanza e deve aver compiuto una traiettoria che, in ogni caso, non è stata superiore a circa zero virgola trentotto gradi calcolati in base all’alzo del mirino, la testa del nostro sfortunato quanto disattento soldato si fosse mossa di centoquarantaquattro millimetri nella direzione opposta rispetto alla provenienza della pallottola prima che essa lo raggiungesse, ora noi non si sarebbe qui a dover pensare a come smaltire questa carcassa prima che il suo fetore ci impedisca di respirare.
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Il rimpianto di Mondrian
Piet Mondrian attende la morte nel suo letto, dall’altra parte dell’Oceano. Pensa ai dipinti di Philip de Koninck. A quelle vedute della sua terra piatte ed estremamente espanse, ove il punto focale è l’orizzonte. “Una specie di luogo vuoto”, secondo Walter Pater.
Gli Alleati stanno liberando l’Europa e sento che la guerra finirà presto, ma non prima che me ne vada. A New York le luci sono quelle dei negozi e dei ristoranti, da noi quelle delle esplosioni. Qui è sempre festa. Anche se migliaia dei loro giovani muoiono sui vari fronti c’è il boogie woogie e nessuno ci vuole rinunciare; persino le coppie dei vecchietti lo ballano nei cortili e agli angoli delle strade. Avrei voluto restare in Olanda a combattere quando i tedeschi l’hanno invasa, ma ero già troppo vecchio e malato. Certo che per loro non sarebbe stata così semplice l’avanzata se da noi non si vedesse sempre e solo l’orizzonte, proprio come nei quadri di de Koninck. Troppo piatto il nostro paese, senza un ostacolo naturale. Difficile da conquistare, magari, lo è per chi giunge dal mare, ma entrarvi dai confini è una passeggiata. I reticoli delle mie tele avrebbero potuto opporre una resistenza maggiore rispetto a quella delle nostre povere truppe. Ma presto quest’incubo sarà finito. La gente allora passeggerà tranquilla lungo i canali come fa da secoli e i newyorchesi ritroveranno nelle vetrine i nostri tulipani. Ricordo di un tale che diceva che dolore e piacere hanno una radice comune. La solitudine ha sempre qualcosa che la separa dall’uomo, anche se questo qualcosa a volte è soltanto uno specchio.
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All’ultimo sangue
Ormai è assodato: l’enorme bestia proviene da est. Quando da quella direzione si comincia a sentire un rumore sordo, che in poco tempo si espande come un tuono o una valanga siamo tutti in preda al panico e si fugge alla cieca, in qualunque direzione. Qualcuno sostiene che il suo sembra un muggito, ma gli esperti non sono di questo avviso e dicono di avvertire un suono assai più poderoso, come quando un orso si appresta a combattere. Ultimamente abbiamo notato che, proprio nell’istante in cui il rumore è al culmine e ci si aspetta un assalto violentissimo da parte della bestia, non accade nulla. Perciò si ritorna alla normalità, anche se carica di inquietudine e di tensione. Ma è dopo un fruscìo leggero, poco più che un alito di vento, che essa irrompe e fa strage. Al momento non c’è accordo su come affrontarla. Una minoranza particolarmente agguerrita è del parere che bisogna lasciarla fare, in quanto il suo è uno sfogo spontaneo e irreprimibile che non soltanto è inutile contrastare, ma potrebbe fare da stimolo e da guida agli spiriti più forti e intraprendenti della nostra comunità. La maggior parte finisce per tollerare le incursioni giudicandole sporadiche, nonostante sia evidente quanti danni abbiano già provocato. In questo momento mi trovo ai margini del bosco, davanti a una piccola radura. La neve alta ne rallenterà la corsa. Mi prefiggo di infliggerle ferite talmente gravi da ucciderla, o quanto meno da renderla innocua per molto tempo, anche se di sicuro ciò mi costerà la vita.
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Notizie circa il capitano van Hanegem e il suo cavallo
È necessario ripetere la carica. Siamo stati respinti la prima volta, ma non dobbiamo dare tregua al nemico. Abbiamo tutti in mente il motto del Maresciallo Foch: “Attaccare, attaccare sempre!”.
Capitano Willem Wim van Hanegem, soprannominato “il Gobbo”, non vedi in che situazione ci troviamo? Io a terra con una zampa spezzata, tu immobilizzato sotto di me e con la spalla lussata: ti sembra forse il momento di lanciare proclami bellicosi?
Devo forse ricordarti tutte le volte che mi hai costretto a fronteggiare a piedi le lance degli ussari?
Sono fuggito, e allora? La temerarietà appartiene a voi uomini e vi fa perdere la ragione. Noi fiutiamo il pericolo – è così che dite – e se possiamo lo evitiamo, al contrario di quello che siete soliti fare voi. Esagero, forse, nel chiamarla saggezza?
Non mi metterò certo a disquisire di simili argomenti con un cavallo. Piuttosto, smettila di nitrire.
È l’unico modo che ho per farmi notare, caso mai qualcuno passasse di qui e ti prestasse soccorso. Una spalla slogata la sistemano in un attimo.
E a te non pensi?
Un cavallo con una gamba rotta ha qualche possibilità di salvarsi? Io francamente non ne vedo.
Non disperare. Ti affiderò al mio chirurgo.
Affidati piuttosto a quel poco che resta del tuo buon senso; ordina ai tuoi la ritirata. Nel rapporto potrai sempre aggiungere l’aggettivo “strategica” e chissà che a qualche super medagliato non venga in mente di darti una promozione “per tempismo tattico”.
Se qualcuno del mio casato venisse a sapere che non ero alla testa dello squadrone mentre infuriava la battaglia sarò bollato per sempre con il marchio dell’infamia.
E allora vedi di toglierti da qua sotto e di raggiungere i tuoi uomini. Quando vedranno ricomparire “il Gobbo”, saranno le loro maledizioni a bollarti come meriti.
Onore a te, mio nobile destriero.
Basta con le frasi altisonanti. Non perdiamo altro tempo: nella tua pistola c’è ancora un proiettile.
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Avvistamenti
Dal mare avvolto nella nebbia è uscito qualcosa, che ha provato a distruggerci. Poi è improvvisamente svanito, come un incubo notturno. I marinai del peschereccio che dicono di averlo avvistato alludono a un relitto di wagneriana memoria, ma poi ci sono state altre testimonianze che non hanno fatto che confondere ancora di più le idee e le supposizioni al riguardo. Dal canto loro, le autorità impongono di non farne più cenno, e non potrebbe essere altrimenti dato il loro ruolo, con la scusa neanche troppo originale che simili cose turbano i bambini. Ma quelli tra noi che conservano ancora un minino di discernimento non devono abbassare la guardia perché, se non fosse stato un incubo, e di certo non lo è stato, a partire da adesso nessuno, andando a letto la sera, sarà più sicuro di risvegliarsi vivo la mattina. Io che occupo questo lembo così estremo della scogliera sto consumando gli occhi nel tentativo di scorgere anche solo in un riflesso dell’acqua un indizio della sua presenza. L’appello che sto per fare è rivolto innanzitutto a chi prende il largo sulle imbarcazioni più fragili, magari rassicurato dal mare calmo e dall’assenza di vento. A tutti i naviganti, che in questo momento riescono a sentire la mia voce: tenete d’occhio il mare, scrutate l’oscurità. Qualcosa laggiù è in agguato.
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C’è sempre una via d’uscita
Un uomo con in mano una zappa cerca di scavare dei solchi per immettervi i semi, ma il fango alto fino quasi ai ginocchi glielo impedisce. Ogni suo tentativo sembra vano.
Quando ti ho creato ho messo ai tuoi piedi tutte le creature. Ma vedendoti adesso, penso di aver fatto male i conti.
Stavo lavorando e tutto andava bene come al solito, quando la pioggia che hai mandato all’improvviso mi ha bloccato qui e ora non riesco a districarmi da questo pantano.
Mi fai pena. Quasi quasi mando una fiera affamata e non se ne parla più.
È nei tuoi poteri. Come prima cosa, però, potresti far cessare questa pioggia e far riapparire il sole. La terra si asciugherebbe in fretta e io così riprenderei le mie occupazioni.
Oltre che la forza, ti manca anche il senno. La terra seccherà tutta intorno a te in men che non si dica e resterai intrappolato per sempre.
“Molte sono le cose tremende, ma nulla è più tremendo dell’uomo”.
Che fai, ora, ti metti a recitare poesie?
“Egli apprese come fuggire i dardi a cielo aperto del gelo inospitale, dei rovesci di pioggia”. Sofocle è uno che del proprio senno fa dono agli altri.
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Merzbau
Sento che su Hannover pioveranno di nuovo le bombe.
“Talmente rasa al suolo che neppure a nascondino si potrebbe giocare.”
Così la descrivevi nel tuo racconto. Ma tra le macerie tu cercavi il Merzbau, l’edificio che era l’anima della città, il suo cuore pulsante e che alcuni dicevano di averlo visto riprodotto in scala perfetta dentro un pacchetto di fiammiferi.
Forse voleva essere solo una scintilla di speranza.
O forse una nuova, piccola arca in cui raccogliere i resti di un’umanità che si credeva onnipotente.
Direi piuttosto malata di ipertrofia.
Sai, tempo fa mi ero messo in testa di ricostruire la mia vita, come tu ti eri ripromesso di riportare il Merzbau alle sue dimensioni reali.
Eh già, il tempo. Ci vuole una giornata intera per riempire le strade di ogni genere di rifiuti, ma solo pochi minuti per disseminarle di cadaveri.
E noi siamo quelli che non si dimenticano mai di innaffiare con cura i vasi dei fiori sui balconi di casa.
È raro viaggiare fra gli antichi poeti avendo l’impressione di scherzare con loro, di rotolare nell’universo “dove tutto è abbandono e vicinanza”, e intanto sentirsi vicini, come per la prima volta, alle loro verità poetiche, come in questi inediti testi lumelliani, Poeti del liceo. Afferma Lumelli: «La poesia sembra fatta per interrompere il pensiero ed esclamare», e, ancora, che in amore «affermazione è monotona» mentre «amore galleggia sulla negazione». Angelo si lascia guidare da voci antiche che ci restituiscono in modo inequivocabile il rapporto fra prosa e poesia:
«Il margine non si può togliere, come andando a zonzo – esso è presente nell’intenzione di fare poesia, da tempo immemorabile. Da tale margine dipende lo spazio stretto a disposizione, a volte quel disperato marciare da fermi, brutto segno – parole che s’arrampicano come felini, scalando i muri, disperate pantere.
Pur essendo un trucco, il margine esige che si dica una verità – in pratica che uno venga compromesso, con le spalle al muro. In poesia non si tratta di trovare il linguaggio che colpisca qualcosa, facendola apparire, ma che colpisca noi, sbiancandoci, come chi si punta la pila negli occhi, di notte. La poesia dunque è fatta per venirci addosso, con messaggi che aspettavamo da tempo, rivelazioni sul nostro conto, ignote. Infine essa ci ammutolisce, come un messaggero che lascia la sua missiva senza scambiare una parola.
La prosa, per fortuna, è dalla nostra parte – nel senso che proviene da noi, incurante dell’errore – e ci lascia dire e disdire, senza una vera conclusione, pronta a ricominciare, a smerdare, a compatire – falsissima perciò, trascinando una sua limacciosa verità, impura, quantitativa, come l’acqua torbida delle piene. Finalmente! – la finzione, la menzogna, i depistaggi ci portavano nelle stanze segrete della vita, dove un filo sottile di rettitudine viene attorcigliato nelle malizie…»
La poesia che abbaglia. La prosa che si fa dire e disdire. Angelo è immerso nel guado di entrambi i fiumi. E si sente, giustamente, con le spalle al muro, con quella sua aria da conversatore malgré lui, felicemente innamorato delle circonvoluzioni del suo pensiero. Con Lumelli non possiamo che ammirare un pensiero laterale, lontano da ogni centralità: un pensiero-chimera. Volatile e fluttuante, veloce e mobilissima, Chimera appare e scompare, scoraggiando ogni tentativo di senso. Non pone domande, non cerca risposte. La sua virtù è l’inesauribilità, la sua tentazione l’onnipotenza. Non docile, non addomesticabile, la sua aerea sostanza continuamente ci sfugge. La differenza con la Sfinge è quella che separa l’enigma – il segreto di cui si può trovare la soluzione – e il mistero – il segreto la cui soluzione è impossibile. «Fantasia dell’illimitato», «Metafora di metafore», Chimera è affine all’immaginazione assoluta, e quindi al delirio. La storia del mito mostra come inscindibile la coppia Chimera-Bellerofonte, dove si intrecciano la leggerezza volatile del mostro e la cecità malinconica dell’eroe. Chimera, come scrive Baudelaire in Le spleen de Paris, è la bestia che afferra il poeta alla nuca, il demone tenace che conferisce un invincibile bisogno di camminare: «Nessuno dei viaggiatori aveva l’aria irritata contro la bestia feroce sospesa al suo collo e incollata alla sua schiena: si sarebbe detto che la considerasse come parte integrante di sé». Il poeta porta alle estreme conseguenze il significato del mito: l’enigma dell’illimitato si radica nel corpo del poeta come ossessione inconscia,e lo spinge a proseguire il suo cammino. La poesia mozza il fiato e prende alla nuca; esige la parola definitiva di chi sta per essere spossessato di sé; pretende l’Impresa. L’ossessione supera il silenzio e si fa parola nell’atto con cui tenta di afferrarlo. Chimera diventa chimere: progetto impossibile da perseguire, con irrazionale ostinazione ed esatta follia, attraverso atti possibili. Che sono gli atti del poeta, in questo caso Angelo Lumelli.
«Ho sempre pensato, allora – ma perché dovrei cambiare idea proprio adesso’ – che tra parola e silenzio ci fosse una vicinanza indispensabile, un affiorare dell’uno nell’altra, un respirarsi senza timori, infine un oblio benefico, la conservazione della memoria sotto le palpebre, richiamabile, aprendo gli occhi – tutto questo nei tempi felici. Questo apologo, pudicamente interrotto, segnala la mia difficoltà di allora a riflettere su mistica e linguaggio.
La questione si aggravava quando il mistico era anche un poeta, come Jacopone. mNon mi angustiava quando parlava per interposte figure – scalcagnate, deturpate dalla vita – né m’impressionava la sua invettiva politica – il linguaggio collerico e forsennato – quelle sue parole corpulente vestite di lana grezza. Mi commuoveva invece – e ancora adesso – il modo con cui Maria apprende, con dettagli sempre più crudeli, ciò che sta accadendo a suo figlio – Donna de Paradiso, |lo tuo figliolo è preso, | Iesù Cristo beato. – esempio ineguagliato di teatro del dolore. Ciò che in Jacopone mi causò problemi irrisolti, fu il silenzio mistico, che non andò a buon fine. A un passo da dio, nel momento del grande incontro, invece di “transire” in quell’unione, ecco che l’incontro è rimandato, alzandosi una sconvolta preghiera che, in pratica dice: è troppo presto, non adesso!
Il linguaggio era l’arte di differire, come se fosse una protesta – vanto dell’umanità – contro l’accadere irrevocabile? L’uomo si è tanto spaurito della perfetta attualità, da inventare un giro a vuoto, un finto niente? Come dire che noi abbiamo soprattutto bisogno di mancanza? O declamare il silenzio? – la prima avvisaglia della poesia barocca, ma scritta da colpevoli? Fu allora che mi sembrò di imparare come la lingua possa guardare avanti, al di là – retrocedendo».
Come in un pensiero-chimera, dove tutto è destinato a retrocedere, a essere fumo e ombra di quel fumo. Chi scrive poesia deve sempre dire “non adesso”. Se accade l’adesso, non c’è più bisogno di nessuna lingua che vaghi nell’irrisolto delle cose e del linguaggio. La parola poetica non deve trovare quiete nella forma di un testo ma essere un’oasi provvisoria nel deserto.
«Lo sguardo, incessantemente, cerca l’unione con il lontano – non visto, in solitudine, esso passa e ripassa sul visibile, facendosi carico di un contatto cruciale, non essendo certa la risposta di quanto è guardato – se esso ricambierà lo sguardo, se dal vedere nascerà qualcosa».
La smania oscura che pervade la poesia di Lumelli è il sogno di un corpo poetico che si posi sulle cose, al di là dei sensi delle parole. Ma questo corpo è anche un inciampo, in quanto troppo dicibile. La terra, per un poeta, deve sempre tremare sotto i piedi, deve essere “ai confini del pensabile”. Una parola che sia questi confini è, finalmente, la parola poetica, che vive oltre ogni “finta totalità” – parola realmente leopardiana.
«Io pensavo che Leopardi abbandonasse, nella poesia, ogni bravura, ogni protezione intelligente per essere finalmente inerme, come la vita voleva – come voleva il pensiero stesso, appena urtando il proprio limite – si trattava dell’onestà, profondissima, di dirlo, di esclamare senza vergogna, disarmati.
Le grandi poesie di Leopardi sono inermi ed oneste. La loro bellezza derivava dal loro tremore, dalla novità sconcertante di essere non linguaggio che fonda e giustifica, bensì linguaggio che si rende bambino e che chiede con gli occhi.
Al volo avevo letto qualcosa dalle Operette morali e avevo visto quanto fosse vasto lo Zibaldone – con sgomento. Le poesie erano poco più di cento pagine a fronte di duemila e forse più. La loro esiguità, il loro coraggio di essere puro desiderio, la loro bellezza senza aggiunte, mi spronavano a non cercare riparo attraverso tutto il linguaggio per finalmente precipitare. La poesia, astuta, non voleva il nulla anticipato, bensì il nulla conquistato costantemente, attraverso l’arte onesta del linguaggio fallito».
Il “nulla conquistato costantemente” è l’arte di inseguire la poesia per la sua disarmata bellezza, quella che non sopporta concetti o formule o precetti e scaturisce solo quando è necessaria, vibrante cantilena: «Slanci / del nostro acclamare / lampioncini di carta / qualcosa che sussiste / senza disperare» (cosa, bella cosa).
Postmodernismo, metaletteratura e filosofia del linguaggio in Austral di Carlos Fonseca
Con un autore mio amico discutevo di Walter Benjamin. Il berlinese faceva un distinguo importante tra commentario e critica. La critica, così Benjamin, ricerca il contenuto di verità dell’opera d’arte. Data una sfera di segni che è l’opera, Benjamin ci ha insegnato che il contenuto di verità della sfera può trovarsi al di fuori della sua circonferenza.
Non è questo il senso del postmoderno? ho detto al mio amico autore, estimatore di Pynchon e compagnia.
Non è mai stato nel deserto, ma l’ha immaginato spesso (Austral, Carlos Fonseca, Sellerio, 2025, traduzione di Gina Maneri). Così inizia Austral.
Già ci immettiamo nella vita pensata, nello scontro tra biografia e sogno, e nell’equazione (che, forse, dobbiamo a Cortàzar e, prima di lui, a Calderòn), che vuole la vita immaginata più significativa della vita vissuta.
Perché “[…] Del resto,” dice Céline nell’esergo di Viaggio al termine della notte, “possono farlo tutti. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita.” Ma in Fonseca è anche la frustrazione di essere inquilini di un’esistenza che non sentiamo nostra, che non ci appartiene.
Capovolgimento semantico al termine di quello che è il prologo del romanzo di Fonseca.
Adesso nel deserto c’è lui ma guarda ancora la stessa cartolina. Sdraiato sul letto, la notte fuori dalla finestra, gira il cartoncino. (Austral, Carlos Fonseca)
Capovolgimento semantico perché Julio – così è chiamato il protagonista – è finalmente nel deserto ma sente il bisogno di immaginarlo ancora. Paradosso, questo, che pertiene al binomio tra sogno e viaggio, conseguimento e meta.
Un ruolo sempre più importante svolgeranno le immagini in Austral, ricordando talvolta il procedimento di Georges Perec ne Le cose, ma poi facendosi puro intertesto, con modifiche di layout, pagine colorate.
La toponomastica è precisa, vera, ma popolata da invenzioni. Di cosa parla Austral? Erede della tradizione postmodernista, questo breve libro si prefigge la missione dei vari Gaddis, Pynchon, Bolaño. Salvare tutto, salvare tutti, salvare mediante il racconto. Questo a renderlo, malgrado la brevità, un romanzo-mondo totalizzante, che tutto vuole dire.
Julio Gamboa riceva una cartolina da tale Olivia Walesi, artista del nord desertico argentino, e riconosce il nome di Aliza Abravanel, morta dopo dieci anni di malattia che la rese afasica, scrittrice di romanzi. Julio ha studiato negli USA e ora insegna, è sposato con Marie-Helène. Walesi riporta l’ultima volontà di Aliza: Julio deve curare il suo ultimo – postumo – romanzo.
È il racconto di chi racconta. È Bolaño. È, soprattutto, Borges.
Il postmodernismo è ampiezza, va da sé, rifiuta ogni riduzione. Se però volessimo individuare un tratto, quello potrebbe essere l’intertestualità. Ricordiamo il racconto di Finzioni in cui Borges afferma che il Don Chisciotte fu scritto (o riscritto) da tale Menard. La proposta del postmoderno non è giocosa; è politica nella misura in cui la realtà diegetica del racconto penetra nel tessuto del reale extradiegetico. Sicché autori come Borges prendono romanzi esistenti e costruiscono castelli di finzioni intorno a un nucleo di verità, come tutti i bravi bugiardi.
Fonseca alterna la narrazione principale al romanzo di Aliza, che parla di tale Karl Von Muhlfeld e della sorella di Nietzsche, che abusò della pazzia del filosofo per travisarne le idee e trasformarlo in un pensatore nazista.
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La letteratura dentro la letteratura; la letteratura (vera) dentro la letteratura (falsa). In tal modo avviene il “rifacimento del mondo”, quello che certa critica suppone debba fare un artista
La metaletteratura è svelamento delle quinte, quindi duplice sguardo: diegetico ed extradiegetico. C’è ricerca (diegetica) ma la ricerca è “meta-” e quindi è anche extradiegetica, dove l’extradiegetico pertiene al senso dello scrivere come senso della vita.
E arriviamo al concetto di libro del mondo. La verità è racchiusa nelle tracce scritte ma la ricerca presuppone già che la verità originaria non sia a portata di mano; è stata indefinitamente differita perché potesse essere trasmessa, trasmessa al costo della sua deformazione.
Fonseca cita (e disegna un grafico basato sulla teoria di) Saussure. Austral ha valore di saggio dentro il romanzo; saggio, nello specifico, di filosofia del linguaggio. Non esseri parlanti siamo; parlati, invece, dalla langue, il magma autonomo del linguaggio.
In libri con impianto “meta-” come Austral i personaggi sono sempre più o meno consci di essere personaggi e, in generale, il “meta-” estromette la caratterizzazione rendendo il personaggio non più sedicente (leggasi wannabe) persona, ma dispositivo narrativo, pretesto che assolve una funzione.
In Austral si sente la manovra dell’autore che muove i fili. È un doppio gioco; non uno scherzo. Perché il “meta-”, se pensato, non svela le quinte per vezzo ma per una più diretta (e quindi politica) veicolazione al destinatario. Il “meta-” è: ti do in pasto una storia; ti dico, o faccio capire, che è finta; ti invito a essere mio pari nella ricerca della verità disseminata.
Questo, ad avviso di chi scrive, tornando alla parentesi autobiografica iniziale, il contenuto di verità in Austral.
Sempre ad avviso di chi scrive, se un testo ci mobilita nella costruzione di discorsi che possono prescindere dall’opera analizzata, detta opera gode di universalità, trasversalità, importanza, poiché si rifiuta di chiudersi autisticamente nella sua architettura che – proprio essendo postmoderna – libera dall’ingarbugliarsi dei fili e consente un discorso tra ricettori di un’opera il cui autore è estromesso.
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Opera sul silenzio e la parola, sulla follia della scrittura e della scrittura come ossessione, Austral di Fonseca non dà importanza a nulla, nessun personaggio polarizza, tutto è fluire di segni. E, sembra dire Fonseca, dai segni scritti che ci lasciamo dietro (dice Kristof nella Trilogia che veniamo al mondo per scrivere un libro), e il libro ha valore non come produzione meccanica ma come emanazione del sé. Per questo sono numerose le pagine dedicate a Julio e alla ricerca della sua voce narrativa, tra Bernhard Kafka e Proust.
Quando, nella seconda e terza parte, Fonseca fa prevalere l’intertesto (i romanzi di Aliza) al testo, capiamo che l’autore non ha mai voluto raccontarci storia alcuna, ma disseminare tracce, citazioni (vere), concetti filosofici. Tra cui spiccano De Saussure e Wittgenstein.
Esseri parlati, siamo asserviti alla langue, che è indipendente. E viviamo di segni che ci inscrivono addosso, che l’Altro ci scrive addosso, maturando malattie mentali che – l’inconscio essendo strutturato come un linguaggio – sono malattie della ragione discorsiva, e come Aliza ci chiediamo la scaturigine della nostra afflizione. Ma, alla fine dei conti, ci dobbiamo arrendere, perché – così Wittgenstein – di tutto quello di cui non si può parlare si deve tacere.
E Aliza, scrittrice colpita da afasia, è morta muta.
Inventare una lingua: A occhi aperti di Ingeborg Bachmann
C’è un filo conduttore che sostiene l’intera ricerca artistica e letteraria di Ingeborg Bachmann, ed è l’estrema consapevolezza della necessità di riflettere e operare sul linguaggio. Scrivere, per Bachmann, vuol dire mettersi alla ricerca di una lingua nuova, una frase, una sintassi che disperda luoghi comuni, ambiti codificati, che contrasti le ingiustizie, che si opponga, in fondo, alla banalità che talvolta inghiotte la vita. È sufficiente rileggere in tal senso una pagina del racconto Il trentesimo anno. Qui incontriamo un personaggio che avverte il raggiungimento dell’età indicata dal titolo come un cambiamento, o meglio la necessità di un cambiamento nel rapporto con la realtà. Lo dice in prima persona: «La libertà che intendo io: il permesso – visto che Dio non ha determinato in nulla il mondo né fatto alcunché per il suo ‘come’ – di rifondare il mondo ex novo e di dargli un nuovo ordine». Poco più avanti si comprende come questo obiettivo, di cui fa parte la lotta contro ogni forma di pregiudizio e di discriminazione, non sia del tutto possibile senza una rifondazione anche linguistica. Perché nelle parole si sedimenta la memoria dell’«ignominia di un tempo», e con essa la possibilità che quanto è accaduto si ripeta. La conclusione equivale a una dichiarazione di poetica: «Non c’è mondo nuovo senza una nuova lingua» (p. 61 dell’ed. Adelphi, Milano 1985).
Si colloca in primo piano, date queste premesse, il nesso io-scrittura. Perché è su questa dialettica, e con questo metro, che si possono individuare, secondo Bachmann, le opere più significative in ambito letterario. Al tema è dedicata una delle sei lezioni francofortesi che compongono il volume Letteratura come utopia (Adelphi, Milano 1993). In quelle pagine la scrittrice mette subito in chiaro le sue intenzioni: «Vorrei parlare dell’Io, della sua presenza nella letteratura e quindi delle faccende dell’uomo nella letteratura, nella misura in cui l’uomo si rivela tramite un Io, o tramite il proprio Io, oppure si cela dietro l’Io» (ivi, p. 57). Per raggiungere tale obiettivo occorre innanzitutto azzardare una definizione, cercare di circoscrivere l’oggetto del discorso. Ma a emergere sono domande che non trovano immediata risposta: «Che cos’è l’Io, infatti, che cosa potrebbe essere? Un astro di cui posizione e orbita non sono mai state del tutto individuate e il cui nucleo è composto di sostanze ancora sconosciute». Sostanze forse sognate, che s’aggrappano a un’identità altrettanto sfuggente, «cifra di qualcosa che è più faticoso da decifrare del più segreto dei codici» (ivi, p. 58). Ciò che risulta un poco più chiaro è l’imporsi dell’Io nella letteratura degli ultimi decenni, dice Bachmann, il suo farsi ogni giorno «più scatenato e ammaliante» (ivi, p. 60). E il configurarsi della sua natura multipla, dell’impossibilità di ridurlo a una dimensione unica, immutabile: «Abbiamo riconosciuto tutti i possibili Io che compaiono nella letteratura, l’Io fittizio, l’Io mascherato, l’Io ridotto, l’Io lirico assoluto, l’Io come figura del pensiero, come figura dell’azione, un Io immateriale e un Io che si è fatto materia» (ivi, p. 61).
Da Céline a Henry Miller, da Svevo a Proust, da Tolstoj a un autore enigmatico e singolare benché oggi poco ricordato come Hans Henny Jahnn, fino al caso estremo di Samuel Beckett, nelle cui pagine l’Io «si perde in un mormorio» (ivi, p. 78), in un bisbiglio che sfiora il silenzio senza tuttavia mai raggiungerlo, Bachmann insegue e prova a definire le tracce dell’Io. Forse i testi di Beckett sono la migliore testimonianza, secondo la scrittrice, che la letteratura continuerà sempre, in situazioni e con parole nuove, a dare voce all’Io, che questo rapporto non può ormai venire meno, perché, anche se la sua natura più profonda si sottrae al nostro sguardo, esso resterà pur sempre, nel momento in cui affiora sulla pagina, prende la parola e si stacca dal coro uniforme e dalla moltitudine di quelli che tacciono, l’«araldo della voce umana» (ivi, p. 79).
Queste prime indicazioni sul rapporto tra chi scrive e il linguaggio, e di conseguenza sull’opera e sulla poetica della scrittrice austriaca, trovano occasione di approfondimento nella raccolta di testi A occhi aperti, uscita recentemente presso la casa editrice Adelphi a cura di Barbara Agnese. Si tratta di saggi (dedicati per esempio al rapporto tra musica e poesia o agli sviluppi della filosofia dell’amato Wittgenstein, sul quale Bachmann scrisse, intorno al 1953, un saggio radiofonico compreso nel volume Il dicibile e l’indicibile, Adelphi 1998) discorsi, annotazioni critiche sulle pagine, per fare qualche esempio, di Thomas Bernhard, Witold Gombrowicz, Sylvia Plath o Giuseppe Ungaretti. Testi che non rispondono a un disegno premeditato e coerente, ma dai quali risulta possibile riconoscere le tappe di un percorso esistenziale e artistico affascinante, un profilo biografico e di pensiero. Per comprendere meglio il quale è probabilmente opportuno soffermarsi innanzitutto su un passaggio del Discorso in occasione del premio per radiodrammi conferito dall’Associazione ciechi di guerra. Il titolo, L’uomo può affrontare la verità, s’incunea, con la forza di una lama, nel cuore della concezione bachmanniana della scrittura. È un compito, quello che si pone ogni autentico scrittore, che ha qualcosa di seducente ma insieme di inquietante, un proposito che fa appello a tutte le energie di cui dispone, del respiro e del movimento del suo corpo. Siamo a Bonn, il 17 marzo del 1959. Bachmann pronuncia queste parole: «Quando raggiungiamo quello stato lucido e straziante in cui il dolore diventa fecondo, in modo molto semplice e giusto diciamo: mi si sono aperti gli occhi. E non diciamo così perché abbiamo percepito un oggetto o un avvenimento dall’esterno, ma perché comprendiamo quel che non riusciamo a vedere. E questo dovrebbe essere il compito dell’arte: farci aprire gli occhi in tal senso» (ivi, p. 99).
La scrittura vive in questa tensione e in questa metamorfosi, nella ricerca di un limite, nel tentativo di superarlo, con i rischi e le conseguenze che tutto ciò comporta. Sta in questo la sua verità, il suo radicamento nell’Io. Le parole vibrano, diventano vive soltanto quando si avvicinano alla soglia dell’indicibile, quando il passo successivo ci abbandona in una disorientante assenza di luce. È un progetto che si fa esplicito poche righe più avanti, prendendo la forma di una tensione verso qualcosa che non conosciamo, che non siamo destinati a raggiungere, ma che nondimeno permette la genesi di una lingua altra, diversa, e con essa dell’identità di chi scrive: «Perché in tutto ciò che facciamo, pensiamo e proviamo a volte vorremmo andare fino all’estremo. In noi si desta il desiderio di superare i limiti che ci sono imposti. Non per smentirmi, ma per chiarire ulteriormente, aggiungerei: certo, so bene che dobbiamo restare all’interno di un sistema di regole, che non esiste via di fuga dalla società e che siamo costretti a metterci vicendevolmente alla prova. All’interno di questi limiti però il nostro sguardo è rivolto verso l’assoluto, l’impossibile, l’irraggiungibile, che riguardi l’amore, la libertà o qualsiasi altra entità pura. Contrapponendo l’impossibile al possibile ampliamo le nostre possibilità. È importante, io penso, creare questo stato di tensione in cui crescere; orientarsi verso un obiettivo che, naturalmente, appena ci avviciniamo torna ad allontanarsi» (ivi, p. 100).
Le ragioni di questa dialettica, secondo Bachmann, risiedono in un presupposto che ai suoi occhi rappresenta quasi un’ovvietà, e sul quale non a caso insiste in molte sue pagine, non escluse le già citate lezioni francofortesi. Proviamo a leggere poche righe tratte da Diario in pubblico, un altro dei testi compresi in A occhi aperti. Si tratta di un contributo per il numero sperimentale di una rivista internazionale, uscito per la prima volta in lingua italiana nella traduzione di Lia Secci nel 1964. Bachmann annota: «…perché chi scrive non può servirsi di un prodotto nazionale ‘lingua’ già confezionato o adoperare un prodotto internazionale ‘lingua’ ideale, perché chi scrive, messo alla prova dal linguaggio e mettendolo alla prova, intraprende con esso un’avventura dall’esito incerto. L’unica cosa certa è che lo scrittore cerca un idioma suo proprio all’interno di quelli della lingua, aspira a un suo dialetto e a una dialettica, i quali contano entrambi su di lui come loro possibile rappresentante su cui appoggiarsi» (ivi, p. 121).
Il quadro che si è fin qui delineato appare in altre circostanze più articolato e complesso, mostra una fisionomia mai del tutto placata. Si fa strada la contrapposizione tra una lingua come puro strumento di comunicazione, e dunque impotente a restituirci l’autenticità delle cose, e la pagina dello scrittore, nella quale la lingua esprime tutte le sue potenzialità, si connota come qualcosa in grado di aprire scenari inediti e sfuggenti, e nel contempo di profondo e di vero. Due esempi possono aiutarci in tal senso. Ricaviamo il primo da un breve testo autobiografico, senza titolo, nell’edizione di cui stiamo parlando presentato come Cenno biografico. Fu reso pubblico dalla scrittrice, come ci informa la nota al testo, nel novembre del 1952, quando venne trasmesso alla radio per introdurre la lettura del dramma Un negozio di sogni e di alcune poesie, Qui Bachmann ricorda la sua giovinezza in Carinzia, trascorsa in una valle in bilico tra due differenti idiomi e tra due nomi, uno sloveno e uno tedesco. Poi venne il trasferimento a Vienna al termine del conflitto mondiale, un cambiamento tale da offuscare il ricordo dei successivi viaggi a Londra, a Parigi, in Germania e in Italia. Ma ancora più determinante, ricorda Bachmann, fu il suo approccio alla letteratura. Un evento che non si sente pienamente in grado di descrivere, ma che forse nacque dal sogno di nuovi orizzonti, dal cortocircuito tra le pagine di una fiaba e la ricerca di un altro paesaggio, di un’altra vita. Fino all’infrangersi di questi scenari contro la spigolosa immagine della realtà. Vale la pena di leggere uno stralcio del testo in questione: «A volte mi chiedono per quali vie, io che sono cresciuta in campagna, sia arrivata alla letteratura. Non saprei dirlo di preciso; so soltanto che ho cominciato a scrivere all’età in cui si leggono le fiabe dei Grimm, che sostavo volentieri accanto al terrapieno della ferrovia viaggiando con il pensiero verso città e paesi stranieri, fino al mare sconosciuto che, in qualche luogo lontano, congiunge la terra al cielo. Era sempre di mari, di sabbia e di navi che sognavo, ma poi venne la guerra e sul mio mondo fantastico e immaginario calò quello vero, in cui non si sognava più e bisognava prendere delle decisioni» (ivi, p. 162). Nella forma di una nota biografica ritroviamo qui quella ricerca dell’identità tramite la creazione di una propria lingua che è tema centrale, lo si è detto e lo si è visto, nella poetica di Ingeborg Bachmann. Ritroviamo la sfida all’ignoto, lo sguardo rivolto all’irraggiungibile, atteggiamenti mai disgiunti dall’ascolto attento, quasi maniacale delle voci più oscure e profonde del proprio essere. In questa prospettiva, chi scrive appare senza alternative, perché accontentarsi della lingua della semplice, quotidiana comunicazione significherebbe mancare il proprio obiettivo, perdersi, sottrarre dalla propria scrittura l’intensità e la violenza della vita «perché la vita non risiede in ciò che è possibile comunicare» (ivi, p. 162).
La grandezza di uno scrittore – per passare al secondo esempio –si misura pertanto sulla sua capacità di reinventare la realtà tramite il linguaggio. L’oggetto del testo di Bachmann, un saggio radiofonico trasmesso il 9 dicembre del 1953, è questa volta il romanzo America di Kafka: «La separazione tra realtà e irrealtà, che negli altri due romanzi viene eliminata, qui è ancora avvertibile, ma anche in questo libro di Kafka la realtà non funziona. Il suo ‘non funzionare’ è percepibile solo grazie alla lingua, che è pura e chiara e rende giustizia in modo quasi pedante a ogni minimo dettaglio; sì, la magia dell’opera di Kafka non sarebbe assolutamente comprensibile senza il fenomeno particolare del suo linguaggio e senza quel suo particolare modo di descrivere le cose». Un risultato che attribuisce all’opera un’eloquenza in grado di rendere pressoché inutile ogni altra frase, ogni altro commento: «Agli scrittori si rende giustizia nel silenzio, perché quando tutte le interpretazioni sono passate di moda e tutti i commenti sono stati esauriti, la loro opera si spiega in virtù di quella verità inesauribile cui deve la propria esistenza» (ivi, pp. 172-173).
Non sono poche dunque, e non sono facilmente sintetizzabili, le riflessioni sulla lingua e di conseguenza sulla scrittura contenute in A occhi aperti. Vale ancora la pena di ricordare quelle dedicate al rapporto tra musica e parole, due realtà un tempo, ricorda Bachmann, capaci di profonde e continue connessioni, oggi destinate a rapporti più sporadici. Ma per la scrittrice parole e musica sono linguaggi ancora profondamente legati, forme differenti di una stessa voce, di uno stesso spirito: «Una frase di Hölderlin dice che lo spirito può esprimersi soltanto ritmicamente. Musica e poesia, dunque, hanno il passo dello spirito. Hanno ritmo, nel senso primario, costitutivo. Per questo sono in grado di riconoscersi l’un l’altra» (ivi, pp. 105-106). La musica, dice Bachmann, si imprime come un marchio nelle poesie che ama, le antiche e le nuove verità possono essere risvegliate dalla musica, «e ogni lingua che esprima queste verità – la lingua tedesca, quella italiana, la francese, tutte! – grazie alla musica può tornare a contare sulla propria appartenenza a un linguaggio universale» (ivi, p. 107). Anche quando si sofferma a ricordare la figura di una straordinaria artista come Maria Callas, Bachmann non perde mai di vista il discorso sulla lingua, sulla fisionomia delle parole; la grandezza della cantante sta, a suo giudizio, nella capacità di pronunciare una parola in modo «da non far mai dimenticare neppure per un momento, a chi non abbia completamente perduto l’udito per insensibilità o per snobismo, a chi non sia sempre a caccia di nuove sensazioni del teatro lirico [-], che l’Io e il Tu esistono, che esiste il dolore ed esiste la gioia» (Hommage à Maria Callas, p. 193).
Forse è il momento di chiedersi quale impulso, quale forza segreta abbia spinto Bachmann a interrogarsi sulle possibilità del linguaggio, sui rapporti tra la parola e il silenzio, sugli eventuali legami e sulle differenze con altre forme espressive, a ricercare con tanta ostinazione un idioma proprio e inconfondibile. In buona sostanza, a scrivere. A metterci sulla buona strada sono alcuni passaggi del Discorso in occasione del conferimento del Premio Anton Wildgans tenuto a Vienna il 2 maggio del 1972, un anno prima della tragica scomparsa della scrittrice. Ne possiamo leggere la versione dattiloscritta, fogli che, ci informa la nota al testo, «presentano numerosi errori di battitura, parole cassate, correzioni apportate a mano, lacune e probabilmente non corrispondono alla stesura integrale del discorso pronunciato» (ivi, p. 267). Siamo insomma su un terreno precario, non privo di insidie. Ma sul quale prendono forma folgoranti dichiarazioni, l’attestazione della necessità vitale, ineluttabile, della scrittura. Dice Bachmann: «…io esisto soltanto quando scrivo, quando non scrivo non sono niente, sono completamente estranea a me stessa, come divergente da me, quando non scrivo». Scrivere, prosegue, è una condizione unica, che non trova riscontro in altre espressioni artistiche: «Ma quando scrivo, Voi non mi vedete, non c’è nessuno a osservarmi. Potete vedere un direttore d’orchestra mentre dirige, un cantante mentre canta, un attore mentre recita, ma nessuno può vedere cosa significhi scrivere. È uno strano, singolare modo di esistere, asociale, solitario, dannato; soltanto ciò che si pubblica, i libri, diventano sociali, associabili, trovano una via verso un Tu, verso una realtà disperatamente cercata e a volte raggiunta» (ivi, p. 247).
Scrivere è un impegno totalizzante, una realtà che ci attende anche quando tentiamo di ignorarla: «Io conosco soltanto la mia scrivania, che detesto, ma non la abbandonerei certo se le arti persuasive esercitate nei miei confronti non fossero così astute come lo sono state questa volta le Vostre; ci inducono ad alzarci, sollevati almeno per un istante; ma basta un attimo per capire che è stata una fuga, che abbiamo ceduto a una lusinga e subito vorremmo tornare alla nostra galera»(ivi, p. 248). La scrittura si qualifica, finalmente, come un gesto che sfugge alla volontà, di cui è impossibile decifrare la logica: «Ma chi ci costringe? Nessuno, naturalmente. È un atto compulsivo, un’ossessione, una dannazione, una punizione»
Classici moderni. Poeti contemporanei. Libri ritrovati. Narrazioni. Lettere. Prosa. Taccuini. Libri collettivi. Critica poetica. Saggi. Apocrifi. Arti visive. Outsider Art. Intorno alla psiche. Musica. Cinema. Riviste. A due voci. Indici.
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Gennaio-ottobre 2025
Lucetta Frisa, I miti, le leggende (Poeti contemporanei), 1/1
Ilaria Seclì, Mala sutura (Poeti contemporanei), 2/1
Bruno Schulz, Notte di luglio (Classici moderni), 3/1
Marco Ercolani, Senza il peso della terra (Libri ritrovati), 4/1
Giuseppe Zuccarino, Intermittenze (Frammenti) , 5/1
Cristiana Panella, Inscritto in corpo. Per L. Pittaluga (Critica poetica), 6/1
Le ore corte, pubblicato dalle Edizioni Joker (settembre 2025 ) nella collana “I libri dell’Arca”, più che un volume di critica poetica è un libro “a quattro mani” scritto da Angelo Lumelli e Marco Ercolani. La morte non separa le vere amicizie: questo libro, alleato della morte e della vita, è una passeggiata del critico nelle pagine del poeta, non per decifrare significati o modellare ipotesi, ma per ri-trovare lo spirito sospeso e curioso del poeta scomparso che non smette, a un anno dalla morte, di aleggiare sulle nostre nuche come uno sguardo chimerico e interrogativo. Un grazie affettuoso a chi ha supportato questo progetto: Monica Liberatore e Gennaro Fusco, direttori delle edizioni Joker. Il libro è in compagnia delle fotografie di Pietro Bologna, amico di Angelo in vita.